Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-03-02, n. 202001481
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Pubblicato il 02/03/2020
N. 01481/2020REG.PROV.COLL.
N. 07500/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7500 del 2019, proposto dai signori -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati E A, G L P e F C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato G L P in Roma, via Vittoria Colonna, n. 32;
contro
Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro
pro tempore
, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria
ex lege
in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
nei confronti
Il Governo della Repubblica dell’India, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Roma, (Sezione Prima), n. -OMISSIS-, resa tra le parti, avente ad oggetto il provvedimento del Ministero della Giustizia del 8 luglio 2019, con cui è stata avviata l’esecuzione della richiesta di notificazione della avviso di comparizione all’udienza del 18 settembre 2019, proveniente dalle autorità giudiziarie indiane e formulata nel procedimento penale a carico degli odierni ricorrenti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2020 il consigliere M C e uditi per le parti l’avvocato F C e l’avvocato dello Stato Angelo Venturini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Col ricorso di primo grado, gli appellanti hanno impugnato l’atto del Ministero della Giustizia, con il quale si è accolta l’istanza di cooperazione giudiziaria avanzata dalla Repubblica dell’India e si è, perciò, provveduto a notificare nei loro confronti un invito a comparire innanzi all’autorità giudiziaria penale di quel Paese, dove essi sono imputati in un processo per fatti di corruzione internazionale.
L’atto impugnato consiste in una nota con la quale il Ministero in epigrafe trasmette la richiesta di assistenza giudiziaria, formulata dallo Stato estero, del seguente testuale tenore: “ Si trasmette, ai sensi dell’art. 724 c.p.p., come modificato dal D. Lgs. 149/2017, l’unita richiesta di notifica, per l’ulteriore corso ai fini dell’esecuzione.
Si resta in attesa di ricevere gli atti comprovanti le avvenute notificazioni, ovvero di conoscere in caso negativo i motivi che hanno impedito l’esecuzione della richiesta.
Si ringrazia per la collaborazione ”.
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio sono stati lamentati molteplici profili di illegittimità dell’atto.
In particolare, con il primo motivo, gli istanti hanno prospettato la violazione dell’art. 723, comma 5, c.p.p., il quale fa divieto di prestare l’assistenza giudiziaria, quando gli “atti richiesti” sono contrari alla legge italiana oppure violano i principi fondamentali dell’ordinamento italiano.
Gli interessati hanno affermato di essere stati già sottoposti a processo penale per vicende analoghe, sicché la richiesta in questione concreterebbe una chiara violazione del ne bis in idem , principio immanente al nostro ordinamento giuridico ed espressamente sancito dalla Convenzione EDU.
Essi lamentano, altresì, di non essere stati coinvolti nel procedimento amministrativo poi terminato nell’atto di accoglimento della richiesta di assistenza giudiziaria, benché si trattasse di un atto chiaramente incidente nella loro sfera giuridica.
Si è, infine, dedotto che il provvedimento sarebbe illegittimo per difetto di motivazione, non prospettando l’atto nessuna ragione a chiarimento dell’accoglimento della richiesta, tenuto anche conto della circostanza della pendenza del giudizio penale intentato per i medesimi fatti nei loro confronti e nel quale si è costituita in giudizio, nella qualità di parte civile, la Repubblica dell’India.
2. Il Ministero della Giustizia si è costituito in giudizio e ha resistito al ricorso, formulando, in via pregiudiziale, un’eccezione di improcedibilità del ricorso.
3. Il Tribunale amministrativo ha respinto il ricorso.
3.1 Il Giudice di prime cure ha evidenziato che la fattispecie è disciplinata da un Trattato internazionale, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e ratificata sia dall’Italia (con legge 3 agosto 2009, n. 116) che dall’India, e che tale strumento normativo non prevede un’ipotesi di rifiuto obbligatorio, ove sussistano le circostanze prospettate dagli interessati.
3.2 Si afferma, peraltro, che non sarebbe fondatamente invocabile il principio del ne bis in idem , sia perché esso non è applicabile sul piano dei rapporti internazionali e sia perché esso non poteva neppure dirsi sussistente nel caso in esame, al momento dell’emanazione dell’atto gravato, avendo il Ministero deciso di accogliere la richiesta di assistenza giudiziaria quando il processo nei confronti degli interessati era ancora pendente, non essendo passata in giudicato la sentenza di appello che ne sanciva l’assoluzione.
3.3 Il rigetto del ricorso è poi argomentato evidenziandosi che l’atto richiesto è una “ mera notificazione di un atto giudiziario, inidonea, di per sé, ad arrecare pregiudizio del diritto di difesa ”.
3.4 Si respingono, infine, anche le censure riguardanti il difetto di istruttoria, di motivazione e la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento amministrativo.
In particolare, di quest’ultime, il primo Giudice statuisce l’infondatezza, “ atteso che l’espressa esposizione delle ragioni ostative dell’assistenza è richiesta dall’art. 723 solo per il caso in cui il potere di blocco sia esercitato.
In considerazione della rilevata legittimità del provvedimento e della natura ampiamente discrezionale del potere esercitato, a nulla rileva, da ultimo, la lamentata lesione di garanzie partecipative, tanto più che, alla luce di quanto sopra rilevato, le argomentazioni che i ricorrenti avrebbero speso nella fase procedimentale (trasfuse poi in motivi di doglianza) non avrebbero potuto determinare un diverso esito provvedimentale ”.
4. Avverso la sentenza di primo grado hanno proposto appello gli interessati.
4.1 Con il primo motivo, gli appellanti contestano la qualificazione che il T.A.R. ha fornito del potere esercitato dal Ministero, evidenziando che, ai sensi dell’art. 723, comma 5, c.p.p., il potere di blocco sarebbe vincolato e, pertanto, obbligatorio, ove venga richiesto il compimento di un atto contrario ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, quale sarebbe la celebrazione di un nuovo processo penale in presenza di una re-giudicata e il compimento di atti strumentali a tale risultato.
Ad analoghe considerazioni muove, secondo gli appellanti, anche l’art. 46 della Convenzione internazionale.
La prima censura viene poi ulteriormente articolata, evidenziandosi che la motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento di assistenza giudiziaria debba essere motivato sia in caso di diniego, nel qual caso, ad avviso di parte appellante, sarebbe sufficiente evidenziare la ragione ostativa all’accoglimento della richiesta, sia in caso di accoglimento, e, in detta ipotesi, sarebbe invece necessaria una più approfondita motivazione.
4.2 Con il secondo motivo di appello, si lamenta l’erronea interpretazione che la sentenza avrebbe fornito relativamente alla Convenzione internazionale e, segnatamente, dell’art. 46.
Tale disciplina internazionale, secondo gli appellanti, non prevedrebbe la prevalenza delle disposizioni pattizie sui principi fondamentali dell’ordinamento italiano e, anzi, vi sarebbero molteplici elementi che deporrebbero in senso contrario.
Né sarebbe corretto un inquadramento della vicenda, come quello accolto dalla sentenza gravata, che valuta la notifica dell’atto giudiziario indiano in modo “atomistico” e, dunque, “formalmente neutro” e conforme al diritto interno, senza operare la necessaria correlazione con la finalità cui quell’atto è teleologicamente preordinato, ossia la celebrazione di un nuovo processo penale sui medesimi fatti già giudicati in Italia.
Anche nell’ipotesi in cui le norme pattizie fossero ritenute prevalenti rispetto al diritto nazionale e ai suoi principi fondamentali, gli appellanti deducono, comunque, che l’assistenza avrebbe dovuto essere negata ai sensi delle lett. c) e d) della Convenzione, poiché il ne bis in idem avrebbe comunque la valenza di principio di diritto internazionale generale.
La circostanza che le fattispecie disciplinate sotto tali lettere introducono un potere discrezionale, e non vincolato, dell’amministrazione non elide la circostanza che il Ministero avrebbe dovuto comunque compiere un’apposita istruttoria per ponderare gli interessi in conflitto e scegliere come provvedere.
Viene poi ulteriormente evidenziato, al punto II.3, che lo Stato richiedente si è costituito parte civile nel processo penale innanzi all’autorità giudiziaria italiana, sicché sarebbe palese che la richiesta di assistenza giudiziaria sia in realtà distorta al fine di celebrare un nuovo processo per aggirare il giudicato, il che evidenzierebbe la violazione dell’art. 46 par. 16, che prevede la necessità per lo Stato richiesto di avviare tutte le opportune consultazioni con il richiedente al fine di evitare il verificarsi di violazioni del ne bis in idem .
Viene quindi ribadita la natura “non meramente formale” dell’atto – notifica, per il quale è stata domandata dalla Repubblica indiana l’assistenza giudiziaria.
4.3 Con il terzo è ultimo motivo di appello, si è censurato, infine, quel capo della sentenza in cui si statuisce l’insussistenza della violazione del ne bis in idem , in ragione del mancato passaggio in giudicato della sentenza penale di assoluzione, pronunciata dalla Corte d’Appello, quando il provvedimento sfavorevole è stato emanato dall’amministrazione, poiché, secondo parte appellante, al fine di applicare la fattispecie prevista dalle norme del codice di rito penale e del Trattato internazionale di diniego dell’assistenza giudiziaria, dovrebbe accogliersi un’accezione di “giudicato” che contempli la mera duplicazione del processo penale e non soltanto il giudicato “in senso tecnico”.
Si è costituito in appello il Ministero della Giustizia, il quale ha rimarcato la non invocabilità del principio del ne bis in idem c.d. internazionale al di fuori dell’ordinamento euro-unitario.
Per il Ministero l’unica ragione di diniego invocabile nel caso di litispendenza internazionale consisterebbe nella sussistenza di un ostacolo al diritto di difesa dell’imputato nell’ambito dell’ordinamento dello Stato richiedente, il cui accertamento competerebbe, però, alla magistratura penale.
Viene poi dedotta l’infondatezza delle ulteriori censure formulate dagli appellanti.
5. All’udienza del 13 febbraio del 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
6. Il Collegio ritiene di esaminare le censure di appello che lamentano la violazione delle regole sul procedimento amministrativo e sulla motivazione del provvedimento, per la natura dirimente di tali doglianze, rispetto alla risoluzione della presente controversia.
6.1 Al punto I.2 e in chiusura del punto II.2 dell’appello, si è censurata la sentenza di prime cure, rispettivamente, per non aver ritenuto sussistente il difetto di motivazione e per non aver annullato l’atto gravato per difetto di istruttoria e violazione delle garanzie procedimentali.
6.2 Ritiene il Collegio di esaminare le due doglianze nell’ordine di prospettazione seguito dagli interessati.
7. Circa l’obbligo di motivazione, esso è affermato dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990, che statuisce che “ Ogni provvedimento amministrativo… deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste ” dalla legge.
L'art. 3 ha tenuto conto della consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, per la quale vanno motivati gli atti lesivi della sfera giuridica dei loro specifici destinatari.
7.1 La procedura di assistenza giudiziaria presenta una struttura bifasica, la prima delle quali ha natura evidentemente amministrativa.
7.1.1 La nota gravata in primo grado, dunque, ha natura provvedimentale, poiché, seppure implicitamente, statuisce l’insussistenza di cause ostative all’accoglimento della richiesta di assistenza giudiziaria e, conseguentemente, l’accoglimento della relativa istanza, disponendo perciò la trasmissione della richiesta dello Stato estero alla Procura competente, affinché questa ne dia esecuzione.
7.1.2 In conseguenza della natura di provvedimento amministrativo dell’atto gravato, non può ammettersi che esso sia sfornito di motivazione: il Ministero non si poteva limitare a trasmettere la nota, disponendone l’esecuzione, ma avrebbe dovuto valutare le circostanze rilevanti, pronunciandosi sulla rilevanza ostativa o meno della pendenza in Italia del procedimento penale, avente per oggetto i medesimi fatti posti all’esame della autorità giudiziario dello Stato estero.
7.1.3 Non induce a diverse conclusioni la natura latamente discrezionale del potere esercitato dall’amministrazione.
Tale potere va esercitato sulla base di un’adeguata motivazione, dalla quale innanzitutto si possa evincere se sussistano tutti i presupposti oggettivi previsti dalla legge: a seguito della constatazione di tutti tali presupposti, e della assenza di ragioni ostative, il Ministero può effettuare la propria valutazione, ampiamente discrezionale.
7.1.4 Il Collegio ritiene che abbia un diverso ambito di applicazione l’art. 46, par. 23, della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e ratificata dall’Italia (con legge n. 116 del 2009), per il quale “ Il rifiuto di prestare assistenza giudiziaria reciproca deve essere motivato ”.
Infatti, nei rapporti fra gli Stati firmatari, ciascuno di essi si è obbligato a fornire spiegazioni del proprio operato, per l’ipotesi in cui vi sia il rifiuto di assistenza giudiziaria.
Quanto, invece, alle modalità di esercizio del potere nel senso dell’accoglimento della richiesta di assistenza giudiziaria, l’obbligo di motivazione è sancito dall’art. 3 della legge sul procedimento amministrativa.
7.2 La censura esaminata va dunque accolta.
8. Relativamente alla seconda doglianza, si ritengono parimenti fondate le censure di parte appellante.
Va osservato che la doglianza attiene, in realtà, ad un duplice profilo di violazioni.
Si contesta, da un lato, la violazione delle garanzie partecipative e, dall’altro, contestualmente, la mancanza, tout court , di una specifica ponderazione, dei profili e degli elementi più rilevanti che connotano il caso in esame.
8.1. Rispetto al primo dei due aspetti, rileva l’art. 7, comma 1, della legge n. 241 del 1990, per il quale, “ Ove non sussistano ragioni derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi . Ove parimenti non sussistono le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento ”.
L’atto impugnato in primo grado, limitando il suo contenuto espresso alla mera trasmissione della specifica richiesta di assistenza giudiziaria pervenuta dallo Stato straniero, non contiene, ovviamente, alcun riferimento alla sussistenza di possibili ragioni ostative alla comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari dell’atto da compiersi.
8.2. Quanto al secondo profilo, di natura sostanziale, va sottolineato come il medesimo atto impugnato in primo grado non abbia specificamente valutato:
- il fatto che vi sia stato lo svolgimento di un processo penale innanzi all’autorità giudiziaria italiana nei confronti dei due interessati (giunto peraltro a compimento nelle more della celebrazione del presente processo), con la partecipazione dello Stato estero richiedente l’assistenza (il quale si è a suo tempo costituito parte civile nel corso del processo penale);
- il fatto che, al momento di emanazione dell’atto di accoglimento della richiesta di assistenza giudiziaria, era stata pronunciata la sentenza di appello, di assoluzione con formula piena, “perché il fatto non sussiste”.
Gli interessati deducono che, qualora fossero stati coinvolti nel corso del procedimento, avrebbero rappresentato tali circostanze, che non sono state considerate dall’amministrazione.
Ritiene al riguardo il Collegio che il Ministero avrebbe comunque dovuto valutare tali circostanze, pronunciandosi sul se sia ravvisabile una fattispecie disciplinata dall’art. 46, comma 21, della sopra citata Convenzione internazionale delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e ratificata dall’Italia (con legge n. 116 del 2009), alle lettere c) e d).
Tali disposizioni prevedono, infatti, che: “ L’assistenza giudiziaria reciproca può essere rifiutata se…:
c) in relazione a reati similari, il diritto interno vieta alle autorità dello Stato Parte richiesto di eseguire le azioni richieste qualora tali reati siano oggetto di indagini, azione penale o procedimenti giudiziari nell'ambito delle competenze di tali autorità;
d) accogliere della richiesta fosse contrario all'ordinamento giuridico relativo all’assistenza giudiziaria reciproca dello Stato Parte richiesto ”.
L’Amministrazione avrebbe dovuto esercitare il relativo potere discrezionale compiendo la relativa istruttoria e valutando gli interessi in conflitto, anche considerando la pendenza nel territorio nazionale del procedimento penale (al termine del quale gli interessati peraltro sono stati successivamente prosciolti).
9. L’appello, dunque, va accolto limitatamente ai profili esaminati, dovendosi annullare l’atto gravato per difetto di istruttoria, violazione delle garanzie procedimentali e difetto di motivazione.
Restano salvi gli ulteriori motivati provvedimenti dell’amministrazione.
10. In riforma della sentenza appellata, va dunque accolto il ricorso di primo grado, con il conseguente annullamento dell’atto impugnato in primo grado.
11. La peculiarità della vicenda trattata giustifica la compensazione delle spese di lite.