Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2014-06-25, n. 201403219

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2014-06-25, n. 201403219
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201403219
Data del deposito : 25 giugno 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07461/2012 REG.RIC.

N. 03219/2014REG.PROV.COLL.

N. 07461/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7461 del 2012, proposto da:
ARLEA (Associazione Lombarda Enti Assistenziali), in persona del Presidente pro tempore , AGESPI (Associazione Gestione Servizi Socio Sanitari), in persona del Presidente pro tempore , UNEBA (Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale, in persona del Vice Presidente pro tempore , Casa dell’Antico Ospitale delle Suore di S. Marcellina “Mons. L B”, in persona del legale rappresentante pro tempore , Istituto “La Provvidenza” Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore , Residenza Anni Azzurri San Faustino, in persona del legale rappresentante pro tempore , Segesta Gestioni s.r.l. Rsa Saccardo, in persona del legale rappresentante pro tempore , tutti rappresentati e difesi dall’Avv. Bassano Baroni, del Foro di Milano, nonché dall’Avv. Lidia Sgotto Ciabattini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, Piazzale Clodio, n. 32;

contro

Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avv. Pio Dario Vivone e dall’Avv. Raffaela Antonietta Maria Schiena, dell’Avvocatura Regionale, con domicilio eletto presso l’Avv. Emanuela Quici in Roma, via Nicolò Porpora, n. 16;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE III n. 00461/2012, resa tra le parti, concernente le determinazioni in ordine alla gestione del servizio socio-sanitario regionale per l’esercizio 2011, in specie per quanto riguarda gli allegati 13 e 16, recanti una pluralità di provvedimenti inerenti allo specifico settore delle strutture socio-sanitarie e, in particolare, le r.s.a.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Lombardia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 maggio 2014 il Cons. Massimiliano Noccelli e uditi, per gli appellanti, l’Avv. Baroni e l’Avv. Sgotto Ciabattini e, per la Regione appellata, l’Avv. Quici su delega dell’Avv. Schiena e dell’Avv. Vivone;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Gli odierni appellanti, in epigrafe meglio descritti, hanno proposto ricorso avanti al T.A.R. Lombardia contro la Delibera della Giunta Regionale della Regione Lombardia n. 937 del 1.12.2010, avente ad oggetto “ Determinazioni in ordine alla gestione del servizio socio sanitario regionale per l’esercizio 2011 ” nonché contro ogni altro atto presupposto, connesso o dipendente, con riferimento, in specie, agli allegati 13 e 16, recanti una pluralità di provvedimenti concernenti lo specifico settore delle strutture socio-sanitarie e, in particolare, le residenze sanitarie assistenziali (di qui in avanti, per brevità, r.s.a.).

2. Assumevano i ricorrenti in prime cure che il provvedimento impugnato risultasse adottato in totale violazione delle regole procedimentali e partecipative, vigenti in Lombardia, e recasse una pluralità di norme severamente lesive e deteriori e, in particolare, denunciavano i seguenti aspetti:

- la liberalizzazione illimitata degli accreditamenti;

- l’introduzione del budget e la riduzione della misura dello stesso rispetto alla spesa storica accertata;

- l’introduzione di uno schema di contratto, da stipularsi tra le r.s.a. e il Servizio Sanitario Regionale, recante una pluralità di clausole innovative, spesso a carattere pesantemente vessatorio e comunque, non di rado, addirittura contro logica, se non addirittura illegittime.

3. Si costituiva nel giudizio di prime cure la Regione Lombardia, eccependo l’inammissibilità dell’avversario ricorso e, comunque, nel merito la sua infondatezza.

4. Il T.A.R. Lombardia, con la sentenza n. 461 del 10.2.2012, ha respinto il ricorso, compensando le spese di lite tra le parti.

5. Avverso tale sentenza hanno proposto appello gli originari ricorrenti, chiedendone la riforma, con conseguente accoglimento del ricorso proposto in prime cure.

6. Si è costituita nel presente grado di giudizio la Regione Lombardia, chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione.

7. Nella pubblica udienza del 15.5.2014 il Collegio, uditi i difensori delle parti, ha assunto la causa in decisione.

8. L’appello è fondato, seppur nei limiti e per le ragioni che ora si esporranno, e deve trovare accoglimento.

8.1. Occorre rilevare, in via assolutamente preliminare, che nelle more del presente giudizio la Regione Lombardia, con delibera della Giunta Regionale Lombardia n. X/1185 del 20.12.2013, regolarmente prodotta in giudizio, ha ritenuto utile disporre la sospensione dei nuovi accreditamenti, in ambito sociosanitario, per il 2014, anche alla luce di quanto statuito dalla Sezione nella recente pronuncia n. 4574/2013, la quale ha ritenuto, come meglio si dirà in seguito, che nel sistema sanitario nazionale la concessione dell’accreditamento non possa prescindere dal fabbisogno assistenziale.

8.2. Tale provvedimento sopravvenuto di sospensione degli accreditamenti, per il solo 2014, non toglie tuttavia persistenza all’interesse degli originari ricorrenti, odierni appellanti, a contestare il sistema degli accreditamenti disposto dalla Regione nell’impugnata delibera del 1.12.2010, poiché esso non rimuove nel passato, con effetto ex tunc , gli effetti lesivi di tale delibera e, soprattutto, ha un efficacia temporalmente limitata per il futuro, esaurendo i suoi effetti inibitori al solo 2014.

8.4. Persiste dunque l’interesse degli odierni appellanti ad una pronuncia sul merito delle doglianze sollevate in primo grado.

9. Ancora preliminarmente ritiene il Collegio di dover esaminare le eccezioni preliminari, sollevate dalle Regione in primo grado e non scrutinate dal T.A.R. Lombardia, che ha esaminato direttamente il ricorso nel merito.

9.1. Con una prima eccezione la Regione appellata ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso proposto in primo grado, assumendo che la deliberazione impugnata rappresenta pedissequa attuazione di quanto disposto dalla Regione Lombardia nel Piano Socio-sanitario 2010-2014, sicché, se non immediatamente, tale atto programmatorio avrebbe dovuto essere impugnato unitamente alla deliberazione attuativa, anche perché l’eventuale annullamento della stessa finirebbe per incidere, in modo assoluto e radicale, sulle stesse previsioni consiliari, privandole di ogni rilevanza giuridico-istituzionale.

9.2. L’eccezione è infondata perché il Piano Socio-sanitario 2010-2014, per espressa ammissione della stessa Regione, è un mero atto programmatorio, che fissa linee generali e indirizzi di politica sanitaria e, come tale, è inidoneo ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei privati, non integrando una lesione concreta ed effettiva dei loro legittimi interessi, né poteva o doveva essere impugnato dagli odierni appellanti.

9.3. Con una seconda eccezione preliminare la Regione aveva sostenuto avanti al T.A.R. meneghino l’inammissibilità del ricorso, per difetto di interesse, in relazione a quelle strutture sanitarie ricorrenti che, nell’anno 2010, non avevano superato il limite massimo del 98% del budget assegnato.

9.4. L’eccezione è infondata perché tutte le ricorrenti, al di là delle loro singole posizioni, avevano lamentato, con il ricorso di primo grado, la radicale illegittimità della delibera regionale impugnata per la violazione delle garanzie partecipative, loro riconosciute dalla normativa regionale, e per la liberalizzazione degli accreditamenti, sicché l’eventuale annullamento della delibera, anche solo per tali motivi, avrebbe loro recato, previa caducazione dell’intera delibera, un effettivo vantaggio, sia in termini di partecipazione procedimentale che di limitazione degli accreditamenti;
senza dire che, comunque, alcune delle ricorrenti avevano interesse a contestare il sistema della budgettizzazione per avere superato il suddetto limite del 98%.

9.5. Con una terza eccezione preliminare, infine, la Regione Lombardia aveva dedotto l’inammissibilità del ricorso, sotto diverso e ulteriore profilo, relativamente alle associazioni di settore ricorrenti, per aver esse difeso non un interesse di categoria, ma di singoli associati, in quanto la quasi totalità delle strutture, salve poche eccezioni, non superava, a fine anno, il 98% della saturazione totale .

9.6. Anche tale eccezione, per le medesime ragioni esposte al § 9.4., deve essere respinta, essendo il ricorso inteso a denunciare non solo la c.d. budgettizzazione , ma anche, in fase procedimentale, la violazione delle garanzie partecipative e, a monte, la liberalizzazione degli accreditamenti.

9.7. Per tale ragione, prescindendo dal rilievo che anche singole strutture avevano proposto ricorso in relazione al profilo della c.d. budgettizzazione , il ricorso di prime cure era ed è da ritenersi sicuramente ammissibile, mirando a tutelare fondamentali interessi di categoria incisi dal provvedimento regionale impugnato in prime cure.

10. Ciò premesso sulle eccezioni preliminari, venendo all’esame del merito, con il primo motivo di gravame gli odierni appellanti denunciano la violazione dell’art. 73 c.p.a. e l’ error in procedendo nei quali sarebbe incorso il primo giudice con riferimento alla mancata dichiarazione di inammissibilità delle deduzioni tardive della Regione e, anzi, in relazione alla valutazione e alla valorizzazione, ad opera del T.A.R. lombardo, di documenti inammissibili.

10.1. Nel giudizio di primo grado, essi sostengono, la Regione Lombardia, con atto protocollato al n. 2011031774, ha prodotto una pluralità consistente di atti costituenti la esclusiva produzione documentale della stessa Regione in giudizio e posti a base, pressoché esclusiva, della difesa regionale almeno per quanto riguarda atti e fatti.

10.2. Assumono in definitiva gli appellanti, con il mezzo di gravame qui disaminato, che la tardiva produzione della difesa regionale non solo viola il termine perentorio, fissato dall’art. 73 c.p.a., ma lede le minimali garanzie del contraddittorio, anche perché sarebbe risultato facile porre in evidenza l’erroneità di deduzioni tratte da aggiunti elementi dell’avversa documentazione.

10.3 Il motivo, per le ragioni e nei limiti che ora si espongono, è fondato.

10.4. L’impugnata sentenza, nel § 4 (p. 5), muove dalla preliminare precisazione che “ per la soluzione delle questioni prospettate non si terrà conto della documentazione tardivamente depositata dalla Regione ”, con una pronuncia che, almeno sul piano effettuale, equivale ad una declaratoria di inammissibilità della documentazione depositata dalla Regione tardivamente, in violazione dell’art. 73 c.p.a., ma non fa poi discendere da tale rigorosa e corretta premessa le conseguenze processuali circa l’utilizzo di tale documentazione, che la medesima sentenza ha invece posto a base delle sue argomentazioni.

10.5. Si deve infatti rilevare che il T.A.R. lombardo, nel respingere la doglianza relativa alla mancata attivazione delle garanzie partecipative in ambito procedimentale, ha osservato che la Regione “ ha svolto consultazioni, audizioni e incontri anche con gli organismi del terzo settore volti ad acquisire materiale utile ai fini della decisione da assumere, dimostrando di aver ottemperato alle disposizioni statutarie e regolamentari e di aver compiuto un’istruttoria adeguata ” (§ 10., p. 8, della sentenza impugnata).

10.6. Il convincimento del primo giudice non può che fondarsi proprio sulla documentazione prodotta tardivamente dalla Regione, documentazione che pure il T.A.R. aveva premesso di non dover utilizzare per la risoluzione delle questioni sottoposte al suo vaglio.

10.7. Ne segue che il motivo di appello è fondato e che, stante la tardività della produzione effettuata dalla Regione Lombardia in violazione dell’art. 73 c.p.a., erroneamente il T.A.R. lombardo ne ha tenuto conto nelle motivazioni del proprio convincimento.

11. All’esame del precedente motivo, appena esaminato, si riconnette anche il secondo motivo di gravame, con il quale gli odierni appellanti avevano denunciato, in prime cure, plurime violazioni delle regole vigenti nella Regione Lombardia in tema di partecipazione delle parti interessate ai provvedimenti destinati ad incidere sulla condizione degli enti in questione e, in particolare, la violazione degli artt. 8, 36 e 46 dello Statuto Regionale, di plurime Delibere di Consiglio o di Giunta Regionale nonché degli artt. 1, 3 e 7 della l. 241/1990.

11.1. Il primo giudice, come si è detto, ha ritenuto l’infondatezza di tale motivo sia sulla base della documentazione prodotta dalla Regione, che dimostrerebbe l’esistenza di consultazioni, audizioni e incontri con gli organismi del terzo settore, sia sulla base della natura del provvedimento impugnato che, avendo contenuti di regolazione e non di mero riparto di risorse, avrebbe valenza di atto amministrativo generale e dunque, ai sensi dell’art. 13 della l. 241/1990, si sottrarrebbe alle disposizioni della stessa legge, riguardanti la motivazione dei provvedimenti e la necessità di consentire la partecipazione procedimentale ai potenziali interessati.

11.2. Entrambi i rilievi sono errati e non possono essere condivisi dal Collegio.

11.3. In ordine al primo, infatti, basti qui osservare che la sentenza impugnata ha posto a base della sua decisione documenti che, ai sensi dell’art. 73 c.p.a., erano tardivi e che, quindi, non avrebbero potuto essere presi in considerazione dal giudice perché inammissibili.

11.4. Anche un sommario esame di tali documenti, se pure si voglia prescindere da tale assorbente rilievo, dimostra peraltro che non vi fu alcuna reale partecipazione, interlocuzione o apporto degli enti interessati, poiché dai verbali del 15.12.2010 e del 13.1.2011 risulta che tutti i rappresentanti del terzo settore e degli enti gestori elevarono decise proteste proprio perché la Delibera in oggetto non era stata preceduta da alcuna forma di garanzia partecipativa, mentre nell’incontro del 26.11.2010 non intervenne alcuna convocazione o discussione sullo specifico argomento, come correttamente rileva la difesa degli appellanti, dato che in esso fu solo rappresentato, dopo la illustrazione delle misure relative al solo comparto strettamente sanitario, che sarebbero state introdotte anche misure per il comparto sociosanitario, senza alcuna specificazione circa i possibili contenuti e senza l’instaurazione di alcun preventivo contraddittorio con i rappresentati del terzo settore e gli enti interessati.

11.5. Né giova alla Regione eccepire nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica del 15.5.2014 (p. 14), che in tale incontro, avvenuto solo quattro giorni prima dell’approvazione della delibera, “ furono illustrate ampiamente con apposite slides , che venivano poi anche trasmesse ai componenti dei tavoli – e condivise con i partecipanti le nuove regole ”, poiché è la stessa Regione a ricordare che, come risulta dal verbale dell’incontro, quello fu solo “ l’inizio di un percorso che prevede una seconda fase di confronto e consultazione ”, percorso che, però, si concluse solo dopo l’approvazione della delibera, a decisione, quindi, già avvenuta e con le proteste, nelle due successive riunioni, dei rappresentanti del terzo settore.

11.6. Anche l’altro argomento del T.A.R., secondo cui l’atto in questione, avendo natura generale, si sottrarrebbe all’applicazione delle garanzie partecipative, non appare condivisibile, poiché trascura di considerare che l’art. 13, comma 1, della l. 241/1990, stabilendo che le garanzie partecipative non trovano applicazione “ nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione ”, non pone una regola assoluta e inderogabile, ma ne rimette la disciplina alle “ particolari norme che ne regolano la formazione ” secondo un modulo flessibile ed eventualmente aperto anche alla partecipazione di altri soggetti, pubblici o privati.

11.7. E tale partecipazione prevede proprio la disciplina regionale, che il T.A.R. ha omesso di considerare, laddove essa massimamente valorizza l’apporto del terzo settore e dei suoi rappresentanti nell’elaborazione di tutte le scelte e le decisioni amministrative, comunque interessanti il settore, trovando la sua più significativa espressione addirittura negli artt. 3, 38 e 46 dello Statuto regionale lombardo.

11.8. La delibera del Consiglio regionale n. 7797 del 30.7.2008 ha individuato sedi (Tavolo terzo settore) e modi di partecipazione degli organismi rappresentativi per l’esercizio della partecipazione anche al precipuo fine di concorrere alla programmazione della rete delle unità di offerte sociali e sociosanitarie, secondo gli indirizzi definiti dalla Regione, e di esaminare gli schemi di atti necessari all’attuazione di leggi di settore che prevedono il coinvolgimento dei soggetti del terzo settore.

11.9. Tale è l’importanza di tale partecipazione, nell’ottica della normativa regionale, che nell’allegato della delibera del 1.12.2010, qui impugnata, si afferma testualmente che “ la partecipazione dei soggetti del terzo settore, degli enti locali e degli altri soggetti interessati ai processi che informano la programmazione regionale e locale non costituisce un mero adempimento formale, ma un’occasione di arricchimento e di rafforzamento dell’azione della pubblica amministrazione, in quanto si è consapevoli che più un processo è condiviso più questi ha la possibilità di tradursi in atti e comportamenti in grado effettivamente di produrre un cambiamento ”, poiché “ la partecipazione, secondo le previsioni del PRS, non può limitarsi alla semplice comunicazione delle iniziative in programma, ma nella capacità di raccogliere e tradurre le domande dei singoli cittadini, delle loro associazioni o rappresentanze ” per “ un cambiamento nel modo di gestire la cosa pubblica ”.

11.10. Ma ciò non è avvenuto nel caso di specie, dove tale “ occasione di arricchimento e di rafforzamento dell’azione della pubblica amministrazione ”, per usare le parole della Delibera, è di fatto mancata, le garanzie partecipative, previste dalla disciplina regionale, sono state evanescenti e, comunque, eluse dalla Regione e l’apporto collaborativo del terzo settore, posto di fronte a decisioni già prese, è radicalmente mancato.

11.11. L’affermazione del T.A.R., secondo cui tali garanzie non sarebbero applicabili al caso di specie, si rivela da un lato erronea e, comunque, insufficiente, perché trascura la stessa disciplina regionale, intesa ad esaltare il fondamentale apporto del terzo settore, nei processi decisionali che lo riguardano, ed integrante le “ particolari norme ” che, ai sensi dello stesso art. 13 della l. 241/1990, ne regolano la formazione, e dall’altro risulta contraddittoria, perché è lo stesso T.A.R. ad ammettere che tale apporto, in linea di principio da escludersi, vi sarebbe stato, come risulterebbe dalla documentazione, peraltro tardiva, prodotta dalla Regione.

11.12. Ma tale documentazione, anche prescindendo dalla sua inammissibilità, smentisce decisamente tale assunto, poiché dalla stessa risulta che i rappresentati del terzo settore non furono messi a conoscenza, se non genericamente e, infine, tardivamente, dei processi decisionali in corso, protestando per tale sostanziale estromissione, senza poter proficuamente interloquire sulle incisive misure che stavano per essere adottate in sede regionale.

11.13. Ne segue che in riforma dell’impugnata sentenza, già solo per tale assorbente motivo, i provvedimenti impugnati in prime cure, stante la palese violazione delle garanzie procedimentali applicabili al caso di specie, debbano essere annullati.

12. Ritiene tuttavia il Collegio di dover scrutinare nel merito, per l’importanza della questione e per la completezza del dovere motivazionale, anche gli altri motivi di gravame in questa sede proposti.

12.1. Con il terzo motivo gli appellanti censurano la sentenza impugnata per aver erroneamente rigettato il secondo motivo dell’originario ricorso, a mezzo del quale essi avevano dedotto che la liberalizzazione degli accreditamenti delle r.s.a., stabilita dalla Regione Lombardia nella delibera contestata, si pone in netto contrasto con le disposizioni di legge, statali e regionali, che istituiscono una necessaria correlazione tra gli indici di fabbisogno di posti letto in r.s.a. con i volumi degli accreditamenti rilasciabili.

12.2. Il Collegio meneghino ha rilevato che la scelta regionale non si pone in antitesi con i principi stabiliti dalla normativa in materia, poiché con essa viene delineato un “ modello in cui la rispondenza dell’unità d’offerta agli strumenti di programmazione non viene più riscontrata a livello di accreditamento (gli accreditamenti sono quindi liberalizzati), ma in fase di contrattualizzazione, giacché è con la stipula del contratto che si assicura il contenimento del valore delle spese poste a carico del servizio sanitario regionale entro i limiti previsti dagli strumenti di programmazione economico finanziaria ” (§ 10.19., p. 15, della sentenza impugnata).

12.3. Il provvedimento impugnato, nel quale sono individuate le regole di dettaglio della gestione del sistema sociosanitario lombardo, in questa prospettiva prevede che, al fine di potenziare l’offerta e di garantire una maggiore libertà di scelta dei servizi, si debba procedere ad una liberalizzazione degli accreditamenti e ad uno spostamento del livello programmatorio, che dunque non verrebbe assolutamente meno, sulla contrattazione e che alle singole strutture debba essere attribuito un budget di spesa provvisorio, coperto dai foni del servizio sanitario regionale, pari al 98% della remunerazione relativa a tutti i posti accreditati nell’anno 2010.

12.4. Secondo il giudice di prime cure il sistema illustrato “ soddisfa appieno gli obiettivi dettati dal legislatore statale con le disposizioni di cui agli artt. 8 bis e seguenti della legge n. 502/92 (e dunque non si pone in contrasto con i principi generali della materia contenuti in tali disposizioni), in quanto, da un lato, la possibilità di erogare prestazioni a carico dei fondi regionali viene concentrata esclusivamente in capo alle singole unità d’offerta contrattualizzate, con ciò evitandosi la dispersione dell’utenza e la conseguente sottoutilizzazione delle strutture pubbliche (che peraltro nel campo che interessa, secondo la citata relazione del Comitato dei Controlli, sono in numero estremamente esiguo);
ed in quanto, da altro lato, la fissazione di limiti massimi di spesa (complessivi e relativi alle singole strutture) assicura comunque il rispetto dei vincoli di finanza pubblica fissati dai documenti di programmazione economico finanziaria
” (§ 10.21., p. 16, della sentenza impugnata).

12.5. Infine, ha osservato il Collegio di primo grado, tale sistema risulta maggiormente rispondente ai principi di libera concorrenza e alle esigenze dell’utenza, posto che gli interessati potranno rivolgersi ad un più alto numero di unità di offerta in possesso di elevati di requisiti di qualità certificati dall’accreditamento (§ 10.22., p. 23, della sentenza impugnata).

13. Ritiene il Collegio che le argomentazioni del primo giudice non possano essere condivise e che anche sul punto la sentenza meriti riforma.

13.1. Questo Consiglio ha già rilevato che nel sistema sanitario nazionale anche il riconoscimento dell’accreditamento alle strutture sanitarie privare è comunque subordinato all’esito di attività quali la ricognizione del fabbisogno assistenziale e la programmazione sanitaria regionale (Cons. St., sez. III, 15.4.2013, n. 2117;
Cons. St., sez. III, 16.9.2013, n. 4574).

13.2. La ricognizione del fabbisogno assistenziale costituisce un’attività necessariamente preliminare alla concessione dell’accreditamento, dalla quale la Regione non può prescindere, perché essa vincola il riconoscimento delle prestazioni erogate da strutture private rimborsabili dal servizio sanitario e, quindi, dalla collettività all’effettiva esigenza di quella stessa collettività, sicché è imprescindibile, ai sensi dell’art. 8- quater , comma 3, lett. b), del d. lgs. 502/1992, “ la valutazione della rispondenza delle strutture al fabbisogno, tenendo conto anche del criterio della soglia minima di efficienza che, compatibilmente con le risorse regionali disponibili, deve esser conseguita da parte delle singole strutture sanitarie, e alla funzionalità della programmazione regionale, inclusa la determinazione dei limiti entro i quali sia possibile accreditare quantità di prestazioni in eccesso rispetto al fabbisogno programmato, in modo da assicurare un’efficace competizione tra le strutture accreditate ”.

13.3. Occorre dunque con forza rimarcare che il “ presupposto essenziale per l’accreditamento istituzionale di nuove strutture risiede nell’accertamento dell’effettivo bisogno assistenziale in relazione alla programmazione sanitaria ed al tetto massimo di spesa consentito ”, dovendosi tener conto, inoltre, della esigenza di garantire la continuità assistenziale nella erogazione delle prestazioni ed evitando di minare l’equilibrio economico delle imprese del settore privato, sicché è possibile accreditare nuove strutture solo ove sussistano un effettivo bisogno assistenziale e la disponibilità di spesa e tutti gli interessi coinvolti, siano essi pubblici o privati, siano stati adeguatamente ponderati (Cons. St., sez. III, 7.3.2014, n. 1071).

13.4. Si comprende dunque come la liberalizzazione degli accreditamenti, disposta nel provvedimento impugnato, contrasti con l’intera logica che presiede al sistema degli accreditamenti e non possa derogare ai principi generali fissati in materia dalla legislazione statale, come ha più volte chiarito il giudice delle leggi (v, ex plurimis , Corte cost., 7.6.2013, n. 132;
Corte cost., 18.4.2012, n. 91) nel ribadire, per parte sua, che i principi fondamentali posti dallo Stato in materia di accreditamento, anche per stringenti esigenze di contenimento della spesa pubblica, operano quale inderogabile limite alla competenza legislativa concorrente delle Regioni.

13.5. Nemmeno è possibile sostenere, come sembra opinare il primo giudice (§§ 10.12.-10.13, pp. 12-13, dell’impugnata sentenza) e come assume la difesa regionale (pp. 18-23 della memoria per l’udienza pubblica del 15.5.2014), che il contestato provvedimento troverebbe un proprio fondamento normativo nella previsione dell’art. 11, comma 1, lett. a), b) e c) della L.R. 3/2008 e un saldo ancoraggio anche nel parere del Comitato di Controllo di Giunta Regionale, recante presa d’atto, del 22.12.2010.

13.6. In realtà, come ben ha rilevato la difesa degli appellanti, l’art. 11 della L.R. 3/2008 nulla afferma in tema di accreditamento dei presidi socio-sanitari e anzi, stabilendo, alla lett. a), l’obbligo della programmazione delle unità di affidamento socio-sanitario, conferma implicitamente il principio che le concessioni di accreditamento per tali unità debbono rispettare le previsioni della programmazione.

13.7. Il parere del Comitato dei Controlli, di cui la Giunta Regionale ha preso solo atto il 22.12.2010 e, cioè, successivamente alla delibera impugnata, risalente al 1.12.2010, è un atto privo di contenuto provvedimentale, che nulla specifica in tema di correlazione tra accreditamento e programmazione, ma solo assume che l’accreditamento non determina l’obbligo di conforme e piena contrattualizzazione, in coerenza con il disegno generale del d. lgs. 502/1992, secondo cui l’accreditamento è collegato alla programmazione, mentre il contratto può prevedere diversi e minimali volumi di attività e di spesa in correlazione anche alle contingenti possibilità economiche del Servizio Sanitario Nazionale.

14. Il primo giudice ha peraltro trascurato di considerare che la L.R. 3/2008, mentre contiene una regolamentazione precisa ed esaustiva sull’accreditamento delle unità di offerta strettamente sociali, rinvia a diversi e distinti provvedimenti la disciplina dell’accreditamento dei servizi sociosanitari, sicché la L.R. 3/2008 non può essere posta a base legislativa dell’accreditamento dei servizi sociosanitari, omettendo completamente di valutare la portata della L.R. 33/2009 che, invece, è espressamente rivolta alle strutture sociosanitarie.

14.1. L’art. 39, comma 3, della L.R. 33/2009 stabilisce che l’accreditamento deve avvenire “ nel rispetto degli indici programmatori definiti dal Piano socio-sanitario regionale ”, con una disposizione che non lascia dubbio alcuno sulla stretta correlazione tra l’accreditamento e la programmazione.

14.2. Il Piano regionale socio-sanitario 2004, con disposizione confermata nei Piani successivi, ha determinato un fabbisogno di 7 posti letto accreditabili di r.s.a. per ogni 100 abitanti ultrasessantacinquenni: si tratta di un dato, correlato al fabbisogno regionale alla stregua di quanto prevede l’art. 39, comma 3, della L.R. 33/2009, che il primo giudice non ha preso di considerazione.

14.3. Il T.A.R. lombardo ha omesso l’analisi di tale dato, di tale rilievo, nella normativa regionale, che la stessa Regione Lombardia, anche dopo la L.R. 3/2008, ha continuato ad affermare e a stabilire che il volume degli accreditamenti non deve superare gli indici della specifica programmazione e che i provvedimenti ampliativi delle strutture accreditabili devono essere disposti solo per mantenere o raggiungere gli indici della programmazione.

14.4. La difesa degli appellanti correttamente richiama, a tal proposito, la D.G.R. 8.4.2009, che stabilisce che sono accreditabili numeri determinati di posti letto in r.s.a. esclusivamente per raggiungere l’indice programmatico, assunto e dichiarato quale limite massimo degli accreditamenti, e la D.G:R. n. 11080 del 27.1.2010, la quale autorizza alcuni nuovi accreditamenti necessari per portare il numero dei posti letto accreditati vicino al numero programmatorio di 7 posti letto ogni 100 abitanti ultrasessantacinquenni, secondo le indicazioni del Piano Sociosanitario regionale, assunto quale limite dell’accreditabilità.

15. Nemmeno sembra al Collegio condivisibile l’impostazione di fondo, sottesa all’impianto motivazionale dell’impugnata sentenza, laddove essa, nel ritenere immune da censura la scelta regionale, assume che tale sistema risulterebbe maggiormente rispondente ai principi di libera concorrenza e alle esigenze dell’utenza, posto che gli interessati potrebbero rivolgersi ad un più alto numero di unità di offerta in possesso di elevati di requisiti di qualità certificati dall’accreditamento.

15.1. Il primo giudice, così ragionando, trascura invero di considerare che l’illimitata apertura dell’accreditamento, indipendentemente dal fabbisogno, risponde ad una logica concorrenziale che non può trovare pura applicazione al terzo settore, non solo per le peculiari esigenze di contenimento della spesa pubblica, che riguardano anche questa importante porzione del fabbisogno sanitario, ma per la tendenziale rigidità delle strutture socioassistenziali attualmente accreditate, posto che molte di esse (I.P.A.B. o ex I.P.A.B., Cooperative, Enti religiosi, Fondazioni o Associazioni), all’atto dell’istituzione del regime di accreditamento, dovettero affrontare spese ingenti, con oneri finanziari ancora in corso di ammortamento, a fronte della previsione di poter svolgere attività e forme di ricoveri collegati alla piena utilizzazione della capacità operativa.

15.2. L’illimitata apertura degli accreditamenti espone tali strutture ad un regime concorrenziale che, in quanto ispirato a pure logiche di mercato, non le pone in condizione, per tale tendenziale rigidità, di competere con le strutture private semplicemente autorizzate, posto che la fase della sola contrattualizzazione, lasciata alla discrezionalità dell’Amministrazione nella scelta della struttura erogatrice delle prestazioni, finirebbe inevitabilmente per penalizzarle e per determinarne la fine.

15.3. Se è vero che il regime dell’accreditamento limitato non può garantire una “rendita da posizione” e un inammissibile privilegio alle strutture già accreditate, come questo Consiglio ha già rilevato nella sopra citata sentenza n. 4574/2013, è anche vero che l’accesso di nuove strutture al sistema dell’accreditamento non può essere, a monte , aperto, incontrollato e indiscriminato, poiché in questa materia il cogente vincolo del fabbisogno, da un lato, e la impellente necessità di contenere la spesa pubblica, dall’altro, costringono necessariamente la logica concorrenziale e gli interessi particolari dei soggetti aspiranti all’accreditamento ad un ruolo subalterno rispetto alle specifiche e primarie esigenze della domanda sanitaria e ad un oculato regime di spesa.

15.4. Tali esigenze, senza un’adeguata fase programmatoria preceduta da un’analisi del fabbisogno, non possono essere adeguatamente soddisfatte, a valle , dalla sola fase della contrattualizzazione, come invece ha ritenuto la delibera impugnata e, sulla sua scorta, anche il primo giudice.

15.5. In altri termini, ribadendo la consolidata giurisprudenza della Sezione, l’accreditamento con il Servizio sanitario nazionale non è oggetto di un diritto per le strutture sanitarie private, in quanto ogni Regione è tenuta ad individuare, mediante la programmazione sanitaria, la quantità di prestazioni erogabili nel rispetto di un tetto massimo di spesa e può accreditare nuove strutture solo se sussiste un effettivo fabbisogno assistenziale, dovendo però, ad evidenti fini di controllo della spesa sanitaria, anche considerare come l’aumento delle strutture accreditate e dei limiti assegnati a ciascuna di esse incida sull’equilibrio complessivo del Servizio sanitario nazionale (Cons. St., sez. III, 7.3.2014, n. 1071).

16. Ne segue che l’impugnata delibera, ponendosi in netto contrasto con il principio dell’art. 8- quater del d. lgs. 502/1992 e con i fondamentali principi della normativa, nazionale e regionale, vigente in materia, deve essere annullata.

17. Con il quarto motivo gli appellanti hanno inteso riproporre, a p. 32 del loro ricorso, anche il terzo e il quarto motivo di ricorso, intesi a contestare la c.d. budgettizzazione : “ detti motivi – si legge nell’atto di appello – vengono […] formalmente riproposti richiamandosi, al riguardo, tutte le considerazioni svolte nei precedenti atti ”.

17.1. Tale motivo, nella sua generica formulazione, è inammissibile.

17.2. La giurisprudenza di questo Consiglio è costante nell’affermare che nel processo amministrativo il giudizio di appello non è un novum iudicium , in quanto la cognizione del giudice è limitata alle deduzioni dedotte dall’appellante mediante l’enunciazione di specifici motivi di erroneità della statuizione del giudice di primo grado, con la conseguenza che è inammissibile l’atto di appello che si limiti alla mera riproposizione dei motivi diretti avverso i provvedimenti impugnati in primo grado, senza sviluppare alcuna confutazione volta ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (v., ex plurimis , Cons. St., sez. IV, 3.4.2014, n. 1597;
Cons. St., sez. IV, 13.12.2013, n. 3005).

17.3. Il motivo, per la genericità della sua formulazione e per la mera riproposizione, peraltro per relationem , delle doglianze formulate in primo grado, viola quindi il disposto dell’art. 101, comma 1, c.p.a. ed è conseguentemente inammissibile.

18. Con il quinto motivo gli odierni appellanti hanno inteso riproporre, in questa sede, una pluralità di censure contro lo schema di contratto-tipo ad effetti vincolanti approvato con la delibera impugnata.

18.1. Essi lamentano che la sentenza di primo grado avrebbe risolto sbrigativamente la questione, omettendo di prendere qualsiasi posizione su tale pluralità di censure e svolgendo, in sostanza, due sole considerazioni, secondo cui, nell’ambito di un contratto annesso ad una concessione amministrativa, sussisterebbe un’ampia discrezionalità dell’Amministrazione, che non risulterebbe legata ai normali principi civilistici, anche per quanto riguarda l’introduzione di clausole contrarie a imperative disposizioni di legge o, comunque, vessatorie ed onerose e, in secondo luogo, ai privati interessati sarebbe comunque consentito un unico rimedio, rappresentato dalla facoltà di non addivenire alla stipula di rapporti con l’Amministrazione.

18.2. Si legge nell’impugnata sentenza che “ la rilevanza preminente dell’interesse pubblico, tipica dei rapporti concessori, giustifica […] l’imposizione unilaterale della modifica dei contratti in essere e la compressione dell’autonomia privata delle controparti;
le quali, peraltro, se avessero ritenuto assolutamente non conveniente la nuova disciplina avrebbero comunque potuto sottrarsi alla sottoscrizione del contratto rinunciando allo
status di struttura contrattualizzata ” (§ 13.3., p. 20).

18.3. La sentenza, nelle pp. 20-22, si sofferma ad esaminare poi le singole clausole denunciate come violative delle norme imperative o asseritamente vessatorie, ritenendo che esse siano, al contrario, perfettamente lecite.

18.4. Il motivo è parzialmente fondato.

18.5. Non è condivisibile la tesi del primo giudice, secondo la quale la pubblica amministrazione, in forza dei suoi poteri autoritativi, potrebbe imporre clausole particolarmente onerose o vessatorie al privato.

18.6. È vero, al contrario, che la p.a., quando agisce iure privatorum e ricorre al modulo pattizio, è tenuta al rispetto dei principi e dei limiti inerenti all’autonomia contrattuale, senza poter addurre l’esercizio di poteri autoritativi al fine di imporre condizioni contrattuali inique, onerose o vessatorie al contraente privato, al di là delle previsioni derogatorie espressamente introdotte dal diritto, pubblico o privato.

18.7. È dunque errata o, comunque, inesatta l’affermazione di principio, che si legge nella sentenza impugnata, secondo cui la pubblica amministrazione possa giustificare l’imposizione di clausole unilaterali sulla base dei soli poteri discrezionali che le competono, essendo l’esercizio della discrezionalità amministrativa e dell’autonomia negoziale due moduli alternativi e non interferenti e, nel caso di specie, due distinte fasi della vicenda giuridica, che vede dapprima la fase autoritativa dell’accreditamento e, poi, quella successiva della contrattazione, che non può veder stravolta la sua natura pattizia solo per la preventiva rinuncia dell’Amministrazione all’esercizio del suo potere programmatorio alla prima fase per la scelta, illegittima, di liberalizzare gli accreditamenti.

19. Ciò premesso in linea di principio, dovendosi quindi sul punto correggere l’erronea motivazione del primo giudice, rileva il Collegio che gli appellanti non censurano, al di là di tale rilievo, le specifiche motivazioni del T.A.R. lombardo in ordine a ciascuna delle singole clausole contestate.

19.1. Gli appellanti si sono limitati genericamente a ribadire che tali clausole introducono “ regole che indubbiamente rivestono i caratteri della clausola vessatoria o particolarmente onerosa o addirittura illegittima ”, ricordando, a titolo meramente esemplificativo (p. 40 del ricorso in appello), la clausola che impone agli enti gestori di rilasciare, ai congiunti dei ricoverati, una certificazione in ordine all’entità della spesa sanitaria da utilizzarsi ai fini delle detrazioni fiscali.

19.2. Tale specifica – ed unica – censura, nel merito, è peraltro infondata, in quanto il T.A.R. ha rilevato correttamente che tale disposizione, lungi dal voler introdurre modifiche al regime di riparto dei costi, si limita a prevedere che, quando in base alle vigenti disposizioni è l’utente a dover sopportare la spesa, la struttura sia tenuta a rilasciargli la certificazione di pagamento, che potrà essere utilizzata dall’interessato al fine di beneficiare delle deduzioni e delle detrazioni eventualmente previste dalla normativa fiscale.

19.3. Sono del resto gli stessi appellanti a ricordare che i contributi versati dai ricoverati o dai loro congiunti sono finalizzati a rimborsare il costo delle prestazioni a stretto carattere sociale o alberghiero, sicché non appare particolarmente onerosa o contra legem la previsione di rilasciare una quietanza comprovante l’avvenuto pagamento di tali contributi, peraltro in ossequio al generale obbligo previsto dall’art. 1199 cod. civ., per poter beneficiare di deduzioni e detrazioni – si noti – “ eventualmente ” previste dall’ordinamento tributario anche in ordine a tali contributi e non in riferimento alle prestazioni di carattere sanitario, sostenute dal Servizio Sanitario.

19.4. Ne segue che tale motivo, al di là della parziale fondatezza in punto di principio, è in parte inammissibile, per la mancata impugnazione delle motivazioni espresse dal T.A.R. in ordine alle singole clausole, e in parte infondato quanto alla clausola appena esaminata.

20. In conclusione l’appello deve essere accolto per le ragioni e nei limiti sopra espressi e conseguentemente, in riforma della sentenza impugnata, la Delibera della Giunta Regionale della Regione Lombardia n. 937 del 1.12.2010, pubblicata sul B.U.R.L. del 14.12.2010, avente ad oggetto “ Determinazioni in ordine alla gestione del servizio socio sanitario regionale per l’esercizio 2011 ”, deve essere annullata.

21. Ai sensi dell’art. 26 c.p.a. e dell’art. 92, comma secondo, c.p.c., le spese del doppio grado di giudizio, attesa la complessità delle questioni esaminate e la parziale reiezione di alcune doglianze sollevate dagli odierni appellanti, possono essere interamente compensate tra le parti.

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