Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-09-15, n. 201006877

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-09-15, n. 201006877
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201006877
Data del deposito : 15 settembre 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00031/2007 REG.RIC.

N. 06877/2010 REG.DEC.

N. 00031/2007 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 31 del 2007, proposto dal Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Il signor M M, non costituitosi nel secondo grado del giudizio;

per la riforma della sentenza del T.A.R. FRIULI - VENEZIA-GIULIA - TRIESTE n. 00618/2006, resa tra le parti, concernente SANZIONE DISCIPLINARE DI STATO DELLA PERDITA DEL GRADO PER RIMOZIONE.

Visto il ricorso, con i relativi allegati;

Visto che non si è costituito in giudizio l’appellato;

Vista l’ordinanza n. 808 del 2007, pronunciata nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2007, di accoglimento della domanda di sospensione dell’esecuzione della sentenza appellata;

Visti gli atti tutti della causa;

Data per letta, alla pubblica udienza del 4 giugno 2010, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace;

Udito, alla stessa udienza, l’avv. dello Stato Paolo Marchini per l’appellante;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. - Con la decisione appellata, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia ha accolto il ricorso proposto dall’odierno appellato, già appuntato scelto dell’Arma dei Carabinieri, avverso la sanzione disciplinare (adottata con determina del Direttore Generale della Direzione Generale per il personale militare del Ministero della Difesa in data 25 novembre 2005) della perdita del grado per rimozione.

Il T.A.R. ha ritenuto fondato il ricorso, per l’assorbente censura di difetto di motivazione in ordine all’adeguatezza ed alla proporzionalità della sanzione applicata rispetto agli elementi da prendere a tal fine in considerazione.

Il Ministero appellante insiste, conformemente alle deduzioni svolte in primo grado, nel sostenere la legittimità della sanzione impugnata, avendo riguardo, afferma, al dispositivo della motivazione della determinazione ministeriale, che avrebbe descritto “in modo preciso e puntuale” il comportamento dell’interessato (“essersi impossessato di un portafogli, nel cui interno vi era una cospicua somma di denaro, rinvenuto e consegnato da un privato cittadino”), accertato in sede disciplinare, dando conto “dell’iter logico seguito dall’Amministrazione e dell’operata valutazione della gravità della condotta posta in essere”, la cui “constatazione oggettiva” varrebbe ad escludere la “sproporzionalità”, rilevata dal T.A.R., del provvedimento impugnato.

Non si è costituito in giudizio l’appellato.

Con ordinanza n. 808/2007, pronunciata nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2007, la Sezione ha accolto la domanda di sospensione dell’esecuzione della sentenza appellata, formulata dal Ministero.

La causa è stata chiamata e trattenuta in decisione alla udienza pubblica del 4 giugno 2010.

2. - L'appello è infondato e deve essere respinto.

2. 1 – Va premesso che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è alcun motivo per discostarsi, le sentenze di patteggiamento non spiegano effetti extrapenali, ma, essendo equiparate ad una sentenza di condanna (ex art. 445 c.p.p.), legittimano (ed anzi impongono all'Amministrazione, anche in relazione al precetto, di cui all'articolo 97 della Costituzione) l'apertura di una autonoma inchiesta disciplinare, vòlta ad accertare la rilevanza, che i fatti ascritti al dipendente in sede penale possono avere sul rapporto di lavoro, con particolare (ma non esclusivo) riferimento all'immagine ed all'onorabilità dell'Amministrazione stessa.

In particolare, è stato più volte sottolineato che i fatti, che hanno dato luogo alla sentenza penale di patteggiamento, devono formare oggetto di un'autonoma considerazione e la relativa sanzione deve essere irrogata sulla base di un separato giudizio di responsabilità disciplinare, senza che la ricordata sentenza penale patteggiata possa assurgere a presupposto unico per l'applicazione della sanzione disciplinare ovvero a parametro valutativo, cui conformare la gravità della sanzione da irrogare (C.d.S., Sez. IV, 23 maggio 2001, n. 2853).

In altri termini, sebbene non possa revocarsi in dubbio che l'Amministrazione possa utilizzare in sede disciplinare tutti gli atti dell'indagine penale (ivi comprese le eventuali ammissioni e confessioni dello stesso dipendente), spettando a quest'ultimo di indicare ulteriori elementi a suo discarico e di chiedere nuovi accertamenti, l'Amministrazione ha l'obbligo di valutare in maniera completa e autonoma tutti i fatti, nella loro interezza e senza farsi fuorviare dalla struttura dell'illecito penale, giustificando quindi con adeguata motivazione il provvedimento disciplinare ed esplicitando, cioè, puntualmente le ragioni, per le quali ritiene che quei fatti - e dunque il concreto comportamento del dipendente - abbiano violato od esposto a pericolo il bene/interesse protetto in sede disciplinare (in generale, legalità, imparzialità e buon andamento degli ufficii amministrativi, immagine e onorabilità dell'amministrazione, in particolare: v. Cons. St., Sez. IV, 21 agosto 2006, n. 4841);
e se l’Amministrazione, nel procedere disciplinarmente, non può operare una ricostruzione dei fatti, che si ponga in términi diversi da quella accertata in sede di giudizio penale (Cons. St., Sez. IV, 6 novembre 2009, n. 6938), in siffatta ricostruzione (con il veduto limite, che ne consegue) rientrano indubbiamente anche quegli elementi circostanziali oggettivi del reato, che, secondo la migliore dottrina, rispetto alla fattispecie circostanziata si pongono quali elementi essenziali tanto quanto gli elementi costitutivi del reato-base.

2. 2 - Ciò posto, nel caso di specie, l’appellato risulta essere stato condannato in sede penale in ordine al reato ascrittogli di peculato militare alla pena di mesi sei di reclusione militare con sentenza di patteggiamento, posta poi a base del procedimento disciplinare senza che l’Amministrazione ritenesse in tale sede necessarii accertamenti ulteriori ed autonomi rispetto a quelli risultanti dalle indagini penali (così pervenendo all’inequivoco convincimento della estrema gravità della responsabilità disciplinare del militare sulla base esclusivamente di quanto acquisito ed accertato in sede penale, ritenuto evidentemente dall’Amministrazione stessa esaustivo e non controvertibile, anche alla luce dell’assenza di qualsivoglia indicazione da parte del dipendente inquisito in sede disciplinare circa ulteriori, possibili, temi di indagine ).

Ritiene al riguardo la Sezione che, come ha correttamente evidenziato la sentenza gravata, emerge inconfutabilmente l’assenza di motivazione nel provvedimento espulsivo oggetto del giudizio e nell’addebito contestato, in òrdine alla evidente discrasia esistente tra la oggettività dei fatti rilevati in sede penale (cui è sicuramente ascrivibile l’elemento della “speciale tenuità del danno patrimoniale arrecato”, già rilevato dal G.U.P. in sede di sentenza di condanna, se pure idoneo in quella sede ad incidere soltanto sul trattamento sanzionatòrio ) e la qualificazione del fatto stesso contenuta nei citati atti del procedimento disciplinare, laddove si fa riferimento alla appropriazione di una “cospicua somma di denaro”.

Al riguardo, correttamente il primo Giudice ha sottolineato che nessuna spiegazione risulta esser stata fornita dall’Amministrazione circa tale contraddizione in ordine ad uno degli elementi della fattispecie complessiva da valutare ai fini della incidenza sul rapporto di lavoro, specie ove si tenga conto che tale contraddizione è stata fatta oggetto di specifica contestazione nel procedimento disciplinare e che la sottolineatura della ragguardevolezza del valore della sottrazione perpetrata dal dipendente non risultava invece nel rapporto finale dell’inchiesta disciplinare, sì che il dirigente generale sembrerebbe, nel fare riferimento alla qualificazione del fatto inizialmente fornita nell’atto di contestazione degli addebiti, aver considerato tale elemento decisivo ai fini della valutazione della gravità del fatto e dunque dell’irrogazione della massima sanzione disciplinare.

La tesi dell'Amministrazione appellante, alla luce di tali considerazioni, non merita di essere accolta, in quanto non tiene conto della articolazione dell'illecito penale (elemento oggettivo ed elemento soggettivo, circostanze attenuanti), sì che, in sede di accertamento della responsabilità disciplinare a seguito di una sentenza penale di patteggiamento, soprattutto quando l’Amministrazione ritenga l’accertamento dei fatti operato in sede penale già esaustivo, la valutazione dell’intera fattispecie ad essa demandata comporta che non possano essere dalla stessa diversamente qualificati quegli elementi, che, secondo la fattispecie penale, servono ad una più pertinente qualificazione e specificazione del fatto (circostanze attenuanti oggettive);
il che rappresenta, ove come nel caso di specie ciò accada, un vizio di istruttoria e di motivazione, soprattutto quando, come pure qui accade, l’Amministrazione abbia preso invece espressamente in considerazione (v. il citato rapporto finale), per sottolinearne la non incidenza a suo giudizio sulla responsabilità disciplinare dell’inquisito, altre circostanze attenuanti pure riconosciute nell’àmbito del procedimento penale (assenza di precedenti sanzioni disciplinari e stato di incensuratezza dell’imputato).

2.3 - Né merita censura la sentenza impugnata, per la parte in cui ha ritenuto che, nel caso di specie, fosse stato violato il principio della gradualità della sanzione, con l'irrogazione della massima sanzione disciplinare.

Se è vero, infatti, che, per costante indirizzo giurisprudenziale, nel procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti (ivi compreso anche il personale militare), il giudizio si svolge con una larga discrezionalità da parte dell'Amministrazione in ordine al convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente sanzione da irrogare (sicché, in sede di impugnativa del provvedimento disciplinare, il Giudice amministrativo non può sostituirsi agli organi dell'Amministrazione nella valutazione dei fatti contestati all'inquisito e nel convincimento, cui tali organi siano pervenuti), è pur vero che ciò trova un limite nei casi in cui la valutazione contenga un travisamento dei fatti, ovvero il convincimento non risulti essersi formato sulla base di un processo logico e coerente (C.d.S., Sez. VI, 10 maggio 1996, n. 670;
Sez. V, 1 dicembre 1993, n. 1226 e 11 aprile, n. 539;
Sez. IV, 16 gennaio 1990, n. 21;
Sez I, 10 giugno 1992, n. 506;
da ultimo, Sez. IV, n. 4841/2006, cit.).

Orbene, nel caso di specie, lungi dal volersi sostituire all'Amministrazione nell'esercizio del potere discrezionale di valutazione dei fatti ai fini dell'accertamento e della dichiarazione di responsabilità disciplinare, nonché della puntuale individuazione della sanzione da irrogare, il primo Giudice, dopo aver rilevato che l'Amministrazione stessa non aveva dato conto della diversa valutazione effettuata in sede disciplinare dei fatti oggettivi accertati in sede penale, ha correttamente ritenuto che, di conseguenza, l'Amministrazione fosse pervenuta alla irrogazione della massima sanzione disciplinare in assenza di specifico apprezzamento (soggetto poi ai noti limiti della logicità e congruità) di elementi oggettivi rilevanti;
in altri termini, la contestata irrogazione non si rivela errata in sé, ma per il fatto che non si basa sulla corretta e completa valutazione dei fatti (il che integra, all'evidenza, la violazione del principio di gradualità della sanzione).

2.4. La Sezione condivide tale statuizione del TAR, la quale è coerente con la normativa che, in materia disciplinare, attribuisce rilievo alla oggettiva gravità dei fatti commessi ed alla recidiva.

Per la più recente giurisprudenza di questo Consiglio (Sez. IV, 16 ottobre 2009, n. 6353;
Sez. IV, 21 agosto 2009, n. 5001), sussiste il vizio di eccesso di potere quando il provvedimento disciplinare appare ictu oculi sproporzionato, nella sua severità, rispetto ai fatti accertati, pur se essi abbiano dato luogo ad una condanna in sede penale.

Infatti, per qualsiasi dipendente (anche per il militare che abbia prestato il giuramento di fedeltà), un isolato comportamento illecito può giustificare la misura disciplinare estintiva del rapporto di lavoro, quando si possa ragionevolmente riconoscere che i fatti commessi siano tanto gravi da manifestare l’assenza delle doti morali, necessarie per la prosecuzione dell’attività lavorativa.

Per il principio della graduazione delle sanzioni e tenuto conto delle regole riguardanti la recidiva (per le quali i fatti acquistano una maggiore gravità, in quanto commessi dal dipendente già incorso in una precedente sanzione), l’Amministrazione non può considerare automaticamente giustificata l’estinzione del rapporto di lavoro per il solo fatto che il dipendente abbia commesso per la prima volta un reato doloso.

In sede disciplinare, infatti, deve esservi la specifica valutazione dei fatti accaduti, poiché la loro lievità può giustificare una sanzione diversa da quella massima (salve le più severe valutazioni, in presenza dei relativi presupposti, se il dipendente commetta ulteriori reati): altrimenti opinando, qualsiasi reato doloso potrebbe essere posto a base della misura disciplinare del rapporto di lavoro, ciò che non si può affermare, in considerazione della prassi amministrativa e del principio di proporzionalità, affermatosi nella pacifica giurisprudenza.

Nella specie, la Sezione ritiene che il TAR abbia correttamente ritenuto sussistente il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione violazione del principio di proporzionalità, perché (come emerge dalla documentazione) l’appellato non risulta aver commesso altri reati o mancanze disciplinari, a parte quella in questione, caratterizzata dal ritardo con il quale ha attivato gli adempimenti, dovuti dopo la consegna del portafogli smarrito, ritrovato dal cittadino.

3. - In conclusione, l'appello deve essere respinto, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.

Poiché il giudice amministrativo ben può individuare quali sono i principi cui si deve attenere l’amministrazione, ai sensi dell’art. 26 della legge n. 1034 del 1971, ritiene la Sezione che nella specie, trattandosi dell’annullamento di un provvedimento incidente su un interesse legittimo, non si applicano gli art. 88 ss. del testo unico n. 3 del 1957 e i principi sulla restituito in integrum (rilevanti per legge solo nel caso di proscioglimento dell’incolpato).

Pertanto, a parte il potere di rnnovare il procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 119 del medesimo testo unico, nel caso di richiesta dell’interessato, l’amministrazione sarà comunque tenuta a valutare la domanda tenendo conto del fatto che la mancata prestazione dell’attività lavorativa è risultata comunque la conseguenza di un fatto illecito del dipendente, giustificativo dell’esercizio del potere disciplinare, anche se nella specie è stato esercitato in violazione del principio di proporzionalità.

Pertanto, la relativa quantificazione dei danni dovrà essere effettuata tenendo conto della particolare efficienza causale del comportamento del dipendente, malgrado questi abbia titolo alla reimmissione in servizio sulla base della presente decisione.

Nulla è da statuirsi circa le spese del presente grado di giudizio, non essendosi in esso costituita parte appellata.

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