Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2012-06-19, n. 201203561

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2012-06-19, n. 201203561
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201203561
Data del deposito : 19 giugno 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08443/2000 REG.RIC.

N. 03561/2012REG.PROV.COLL.

N. 08443/2000 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8443 del 2000, proposto da:
Altinos S.r.l., rappresentato e difeso dagli avv. A V, M S, con domicilio eletto presso A V in Roma, via Fontanella Borghese, 72;

contro

Comune di Quarto D'Altino, rappresentato e difeso dagli avv. A B, F L, con domicilio eletto presso F L in Roma, via del Viminale, 43;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. VENETO - VENEZIA: SEZIONE II n. 00786/2000, resa tra le parti, concernente CONCESSIONE EDILIZIA - PAGAMENTO ONERI


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 gennaio 2012 il Cons. Antonio Bianchi e uditi per le parti gli avvocati Steccanella e Borella;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La società Cadoro S.p.A. richiedeva, nell’anno 1996, al Comune di Quarto d’Altino una concessione edilizia per realizzare una costruzione da destinare a deposito merci, in attesa del loro smistamento nei supermercati della catena Cadoro.

Il Comune, nell’assentire il progetto presentato, chiedeva alla società Cadoro il pagamento degli oneri di urbanizzazione sulla base della ritenuta destinazione commerciale dell’opera da realizzare.

A fronte di tale richiesta la società, ritenendo errata la quantificazione degli oneri sul presupposto che l’edificio da realizzare dovesse essere considerato con destinazione industriale e non commerciale, rinunciava al titolo edilizio.

Alla società Cadoro subentrava, quindi, la società Altinos S.r.l. la quale richiedeva al Comune il rilascio della stessa concessione edilizia.

L’Amministrazione comunale, con nota del 23 ottobre 1997 n. 12279, nel comunicare alla Altinos, il parere favorevole sull’istanza, richiedeva il pagamento degli oneri nel medesimo importo precedentemente preteso dalla società Cadoro, rilevando che “non sussiste alcun nesso di complementarietà del magazzino merci con annessi uffici con l’attività industriale”.

Ritenendo illegittima la predetta nota, nonché la successiva concessione edilizia nella parte in cui prevedeva a carico della concessionaria gli oneri così come predeterminati dal Comune, la Altinos proponeva ricorso al TAR del Veneto, chiedendo l’annullamento dei provvedimenti impugnati e l’accertamento della determinazione degli oneri contributivi dovuti in applicazione dell’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977.

Il giudice di prime cure respingeva il ricorso con sentenza n. 786 del 2000, compensando integralmente tra le parti le spese di giudizio.

Avverso la predetta sentenza la società Altinos S.r.l. ha interposto l’odierno appello, chiedendone l’integrale riforma con conseguente condanna dell’Amministrazione alla restituzione delle somme pagate in eccedenza a titolo di contributo di costruzione, maggiorate di interessi al tasso legale dalla data di pagamento.

Si è costituito in giudizio il Comune di Quarto d’Altino intimato, il quale ha chiesto il rigetto dell’appello siccome infondato.

Con successive memorie nei termini le parti hanno insistito nelle rispettive tesi giuridiche.

Alla pubblica udienza del giorno 17 gennaio 2012, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO


1. Il ricorso in appello è infondato.

2. Con il primo e secondo mezzo di gravame, la società appellante deduce che il giudice di primo grado avrebbe errato, laddove ha ritenuto che “l’aspetto fondamentale” dell’attività economica svolta dalla società stessa “è rappresentato da una circolazione di merci” e che “tale attività non può che definirsi commerciale, in quanto non è il livello dell’intermediazione che rileva, quanto il fatto che, in sostanza, di intermediazione si tratti” e, conseguentemente, “il deposito delle merci non può essere considerato industriale poiché la società ricorrente non riesce a dimostrare che l’attività in esso svolta sia legata con un nesso di complementarietà ad un impianto industriale in senso stretto”.

Ad avviso della società appellante, infatti, l’attività svolta, consistendo nella produzione di servizi a favore di terzi, sarebbe complementare ad altre attività ed avrebbe natura industriale. Conseguentemente il Comune di Quarto d’Altino avrebbe dovuto applicare, in sede di rilascio della concessione edilizia, le più favorevoli condizioni previste dall’art. 10, comma 1, della Legge 28 gennaio 1977 n. 10 per le costruzioni destinate ad attività industriali, invece di quelle previste dal comma 2 per le costruzioni destinate ad attività commerciali, come nella specie avvenuto.

2.1. La censura non può essere condivisa.

Ed invero, l’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977 (ora art. 19 del T.U. dell’edilizia) dispone espressamente al primo comma che: “Il permesso di costruire relativo a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione (…)”.

La predetta disposizione pone oggettivamente il problema della corretta individuazione degli impianti o costruzioni riconducibili alla attività industriale o artigianale, in quanto la terminologia utilizzata dal legislatore richiama espressamente la prestazione di servizi e non solo la trasformazione di beni, quest’ultima tipicamente caratterizzante il settore produttivo.

Così, potrebbe ipotizzarsi che un’attività volta esclusivamente ad una prestazione di servizi a terzi, pur scollegata da qualsivoglia attività industriale o artigianale diretta alla trasformazione di beni, rientri nel trattamento contributivo di maggior favore previsto dalla richiamata norma, come prospettato dall’appellante.

Ritiene il Collegio che una siffatta opzione ermeneutica non sia sostenibile.

La norma, infatti, appare oggettivamente orientata a distinguere i due trattamenti contributivi in ragione delle attività svolte.

Ed in questo senso vengono espressamente individuate e distinte le attività industriali o artigianali da quelle turistiche, commerciali e direzionali.

Ne consegue che l’elemento discriminante tra i due regimi contributivi è direttamente incentrato, in principalità, sulla tipologia di attività economica svolta, da cui non può comunque prescindersi ai fini dell’applicazione della norma.

Pertanto, l’applicazione del regime contributivo di maggior favore deve essere necessariamente riconosciuta solo in presenza di un’ attività industriale o artigianale, ovvero di un’ attività ad essa comunque collegata da un nesso di stretta funzionalità o complementarietà.

In questo senso, del resto, si è già espressa più volte la giurisprudenza della Sezione, precisando che il beneficio dell’esonero dalla corresponsione del contributo concessorio afferente ai costi di costruzione ed urbanizzazione, previsto per gli immobili nei quali si svolge attività industriale dall’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977, concerne strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sè destinati alla produzione di beni industriali, ovvero quelle opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica (cfr. decisioni 21 ottobre 1998, n. 1512;
5 settembre 1995, n. 1266;
13 luglio 1994, n. 752).

È, pertanto, da escludere l’applicabilità del trattamento contributivo di favore a magazzini per deposito e commercio ove non siano “collegati ad altro stabile adibito alla attività produttiva” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 1994, n. 752).

Conclusivamente, il beneficio dell’esonero dalla corresponsione del contributo così come previsto dall’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977 per gli immobili nei quali si svolge attività industriale, concerne solo e soltanto i fabbricati complementari e/o asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale o artigianale e non quegli edifici privi di tale nesso sostanziale e suscettibili di essere utilizzati al servizio di qualsiasi attività economica.

Tanto premesso in via di principio, osserva il Collegio come nel caso di specie l’immobile considerato non sia affatto complementare o comunque strettamente connesso ad uno stabilimento industriale o artigianale. Invero, l’attività economica svolta nel deposito per cui è causa, consistente nell’immagazzinamento, conservazione, movimentazione e deposito di merci e materiali a favore di terzi, non risulta oggettivamente complementare ad un ciclo produttivo di uno specifico impianto industriale o artigianale.

Riprova ne è il fatto che l’appellante, non solo non dimostra minimamente un qualsiasi collegamento tra il deposito per cui è causa ed un’attività industriale o artigianale, ma addirittura riconosce che la società “non svolge alcuna attività complementare”, bensì “un'unica attività corrispondente al suo precipuo ed esclusivo oggetto sociale” che, come emerge dalla visura depositata in giudizio, consiste nel deposito, conservazione, preparazione, movimentazione fisica, distribuzione e trasporto di merci.

E sul punto, la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di precisare che grava esclusivamente sull’interessato l’onere della dimostrazione dell’esistenza del nesso di complementarietà delle opere da costruire con le esigenze proprie di un impianto industriale (cfr. decisione n. 1266 del 5 settembre 1995).

Ne consegue che l’immobile per cui è causa non può essere soggetto al regime contributivo agevolato previsto dall’art. 10, comma 1, della L. n. 10/1977, come correttamente ritenuto dall’Amministrazione comunale resistente.

3. Con la terza ed ultima censura l’appellante deduce che il giudice di primo grado avrebbe errato nell’affermare che l’art. 2 delle norme di attuazione del piano di lottizzazione in cui insiste il fabbricato per cui è causa “non può svolgere alcun rilievo al fine di stabilire il regime degli oneri di urbanizzazione, in quanto si limita a definire la tipologia degli interventi consentiti”.

Ad avviso dell’appellante, infatti, l’art. 2 delle N.d.A., equiparando agli insediamenti industriali i depositi e i magazzini, assoggetterebbe questi ultimi all’applicazione del regime contributivo agevolato.

3.1. Il mezzo di gravame non può essere condiviso.

Ed invero, l’art. 2 delle N.d.A. del piano di lottizzazione si limita ad elencare le destinazioni d’uso degli insediamenti consentiti nella zona, fra i quali “depositi e magazzini compresi quelli destinati alla grande distribuzione con esclusione della vendita diretta al pubblico;
questi edifici saranno comparati a quelli produttivi”.

Dal tenore letterale della predetta disposizione, quindi, si desume in tutta evidenza come la norma sia preordinata esclusivamente a consentire la realizzazione di immobili con destinazione commerciale in zona industriale e non di certo a sottoporre ad un regime contributivo agevolato gli insediamenti commerciali realizzati in quella zona.

Del resto la giurisprudenza ha, più volte, precisato che la determinazione degli oneri di urbanizzazione deve essere effettuata con riferimento alla natura dell’edificio e non in relazione alla zona urbanistica nella quale esso è ricompreso, puntualizzando che ciò che rileva è l’effettiva destinazione economica dell’edificio stesso.

4. Le considerazioni che precedono, danno poi di per sè ragione dell’infondatezza della richiesta di accertamento degli oneri contributivi dovuti in applicazione dell’art. 10, comma 1, della L. n. 10/1977, nonché della condanna dell’Amministrazione alla restituzione all’appellante delle somme pagate a titolo di contributo di costruzione, in esecuzione della sentenza di primo grado.

5. Conclusivamente, per le ragioni esposte, il ricorso in appello è infondato e, come tale, da respingere.

Sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

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