Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2019-02-26, n. 201901363
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Pubblicato il 26/02/2019
N. 01363/2019REG.PROV.COLL.
N. 08575/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8575 del 2018, proposto da
M B, rappresentato e difeso dall'avvocato G C, con domicilio digitale pec come da registri di giustizia;
contro
Università degli Studi di Padova, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, rappresentata e difesa dagli avvocati M S, R T, S V, con domicilio digitale pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio della prima in Padova, riviera Tito Livio, n. 6;
nei confronti
E C, non costituita in giudizio;
per l’esecuzione
della decisione di cui al decreto del Presidente della Repubblica emesso in data 2/7/2015, resa tra le parti, concernente l’annullamento degli atti conclusivi di una procedura selettiva per l’assegnazione di un assegno di ricerca.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Padova;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio 2019 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati G C, R T e M S;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con bando in data 6/2/2012 l'Università degli Studi di Padova ha indetto una procedura selettiva per il conferimento di un assegno (pari a € 19.367/00 annui) per lo svolgimento di un’attività di ricerca, della durata massima di 24 mesi, in materia di filosofia, settore disciplinare di estetica.
A conclusione delle operazioni valutative il dott. M B si è classificato al secondo posto dietro la dr.ssa E C, la quale, con provvedimento del Direttore del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia 12/3/2012 n. 25 è stata dichiarata vincitrice.
In data 10/4/2012 è stato poi stipulato tra l’Università e la dr.ssa C il contratto per l’attribuzione dell’assegno finalizzato allo svolgimento dell’attività di ricerca.
Avverso l’esito della selezione il dott. B ha proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il quale lo ha accolto con decreto 2/7/2015 emesso sulla base del parere dalla II Sezione del Consiglio di Stato 03133/2013 reso nelle adunanze del 18 giugno – 19 novembre 2014.
Non avendo l’Università spontaneamente eseguito la decisione di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica il dott. B ha agito in ottemperanza chiedendo in via principale il risarcimento dei danni ex art. 112, comma 3, del c.p.a. e in via subordinata l’esecuzione in forma specifica.
Ha domandato inoltre la nomina di un commissario ad acta per il caso di ulteriore inadempimento e la fissazione di una penalità di mora ex art. 114, comma 4, lett. e), del c.p.a.
Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l’Università degli Studi di Padova.
Con successive memorie le parti hanno ulteriormente argomentato le rispettive tesi difensive.
Alla camera di consiglio del 7/2/2019 la causa è passata in decisione.
Merita accoglimento, nel senso e nei limiti di seguito meglio specificati, la domanda, proposta in via principale, con cui il ricorrente chiede, ai sensi dell’art. 112, comma 3, del c.p.a., il risarcimento dei danni connessi all’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica della decisione.
Quest’ultima, infatti, come riconosciuto dalla stessa amministrazione universitaria (si veda memoria depositata in data 21/1/2019), non è più possibile, atteso che l’attività di ricerca ha avuto inizio il primo maggio 2012 e si è conclusa in data 30 aprile 2014, esaurendo così il sottostante interesse scientifico connesso all’attuazione del progetto di studio.
I tratti caratteristici dell’azione risarcitoria connessa all’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica sono stati delineati dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato con sentenza 12/5/2017, n. 2, di cui conviene riportare i passaggi salienti.
<< Il legislatore ha qualificato espressamente questo rimedio in termini di "azione di risarcimento dei danni", evocando, così, l'istituto della responsabilità civile. Tuttavia, rispetto al tradizionale risarcimento del danno, l'azione in esame presenta significativi profili di peculiarità.
In primo luogo, il presupposto del rimedio è individuato nell'esistenza di un danno (anche solo) "connesso all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato". È significativo evidenziare che l'art. 112, comma 3, c.p.a. distingue il danno "connesso" all'impossibilità (o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica del giudicato) da quello derivante dalla violazione o elusione del giudicato, indicato, subito dopo, come distinto presupposto per l'esercizio dell'azione.
Rispetto alla formulazione originaria dell'art. 112, comma 3, c.p.a. (prima della novella introdotta dal decreto legislativo n. 195 del 2011), il principale profilo di novità è proprio questo: l'avere, cioè, esteso il rimedio alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è comunque "connesso" all'impossibilità di ottenerne l'esecuzione in forma specifica.
Il legislatore, dunque, ha fatto riferimento ad una impossibilità di esecuzione che trova la sua causa in un fatto diverso dalla violazione o elusione del giudicato, prevedendo l'azione di risarcimento del danno -e non un semplice indennizzo- anche nel caso in cui, pur non configurandosi un inadempimento, non è comunque possibile attuare il giudicato.
15. Da questo punto di vista, la norma ha una portata non solo processuale (che si traduce nell'ammissibilità, nelle ipotesi indicate, dell'azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche quando questa si svolge in unico grado dinnanzi al Consiglio di Stato), ma anche sostanziale, perché, in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile, ammette una forma di responsabilità che prescinde dall'inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato.
La deroga, in particolare, è al regime della responsabilità da inadempimento dell'obbligazione, come delineato dall'art. 1218 cod. civ.
Dal giudicato amministrativo, infatti, almeno quando esso, come nel caso di specie, riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all'amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un'obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere "in natura" (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza. E che si tratti di obbligazione il cui inadempimento è assoggettabile al regime dell'inadempimento contrattuale è confermato dalla prescrizione decennale della relativa azione.
In base all'art. 1218 c.c., il debitore si libera dall'obbligazione se prova che l'inadempimento è stato determinato da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La disciplina dell'art. 1218 c.c. trova riscontro nell'art. 1256 c.c., secondo cui l'obbligazione si estingue, invece, quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore.
Rispetto alla disciplina civilistica dell'inadempimento dell'obbligazione cosi sommariamente richiamata, l'art. 112, comma 3, c.p.a. introduce un elemento di specialità, perché dispone che l'impossibilità derivante da causa non imputabile (non dovuta cioè a violazione o elusione del giudicato) non estingue l'obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura "risarcitoria", avente ad oggetto l'equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato.
16. Quella che la norma presuppone è, dunque, una forma di responsabilità che, nei casi di impossibilità non imputabile a violazione o elusione del giudicato, presentata i caratteri della responsabilità oggettiva, perché non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell'elemento soggettivo (dolo o colpa), che, invece, necessariamente connota le ipotesi di violazione o elusione del giudicato;potendo la responsabilità essere esclusa solo per la insussistenza (originaria) o il venir meno del nesso di causalità, il cui onere probatorio grava sul debitore medesimo.
Viene così in rilievo un rimedio che assume una connotazione tipicamente compensativa: una sorta, in altri termini, di ottemperanza per equivalente (già conosciuta, del resto, nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale anteriore alla novella del 2011) che sostituisce l'ottemperanza in forma specifica nei casi in cui questa non sia più possibile. Essa si traduce nel riconoscimento dell'equivalente in denaro del bene della vita che la parte vittoriosa avrebbe avuto titolo di ottenere in natura in base al giudicato. Si ha, quindi, un rimedio alla impossibilità di esecuzione in forma specifica della sentenza, in un'ottica, per l'appunto, "rimediale" della tutela, quale si è andata delineando a partire dalle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte costituzionale.
La funzione sostitutiva del rimedio giustifica, allora, la scelta del legislatore sia di prevederne l'ammissibilità in sede di ottemperanza, anche in un unico grado, in quanto "connessa" all'impossibilità oggettiva di esecuzione del giudicato, sia di slegarla dal requisito della colpa, sia pure intesa, in tema di illecito della pubblica amministrazione, nella lettura "oggettiva" che ne dà la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea: trattandosi di una tutela che sostituisce l'ottemperanza non più possibile in forma specifica, essa soggiace, sia sul piano del rito, sia sul piano dei presupposti sostanziali, alle stesse regole dell'azione di ottemperanza (in forma specifica), che pure si caratterizza come rimedio "oggettivo", sganciato dalla prova del dolo o della colpa. È, in altri termini, una ragionevole scelta del legislatore in tema di allocazione del rischio della impossibilità di esecuzione del giudicato.
17. La nascita dell'obbligazione risarcitoria ex lege in conseguenza dell'impossibilità di eseguire il giudicato presuppone, comunque, la presenza, se non dell'elemento soggettivo, degli altri elementi minimi ed essenziali ai fini della configurazione di un illecito.
18. Tali elementi essenziali, significativamente necessari anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, sono il rapporto di causalità e l'antigiuridicità della condotta.
Affinché sorga il rimedio di cui all'art. 112, comma 3, c.p.a., dunque, è necessario e al tempo stesso sufficiente che l'impossibilità di ottenere in forma specifica l'esecuzione del giudicato sia riconducibile, sotto il profilo causale, alla condotta del soggetto dal quale si pretende il risarcimento e che tale condotta non risulti assistita da una causa di giustificazione, la cui presenza precluderebbe l'insorgenza della responsabilità e, dunque, la nascita dell'obbligazione risarcitoria ex lege.
19. Ai fini del riscontro del nesso di causalità nell'ambito della responsabilità civile, si deve muovere dall'applicazione di princìpi generali dell'illecito, oggetto di particolare elaborazione nel diritto penale e che trovano, in quel codice, positiva espressione negli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che nell'accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa) vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. rispettivamente Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 577 e Cass. pen. Sez. un. n. 30328 del 2002).
Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova, peraltro, il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall'art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
20. Venendo al regime probatorio, deve rilevarsi che in materia di responsabilità da inadempimento dell'obbligazione (quale è, come si è detto, la responsabilità da impossibilità di esecuzione del giudicato che riconosce la spettanza del bene della vita), il creditore ha il solo onere - ex art. 1218 c.c. - di allegare e provare l'esistenza del titolo (in questo caso rappresentato dal giudicato), e di allegare l'esistenza di un valido nesso causale tra la condotta della parte obbligata e la mancata attuazione del giudicato (cfr. Cass. Sez. Un. 30 ottobre 2001, n. 13533).
Spetta, viceversa, alla parte "debitrice", l'onere di provare il caso fortuito (inteso come specifico fattore capace di determinare autonomamente il danno), comprensivo del fatto del terzo (che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno), rimanendo a suo carico il fatto ignoto in quanto inidoneo a eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell'accadimento >>.
Alla luce dei trascritti principi di diritto è possibile ora dar conto delle ragioni che militano a favore dell’accoglimento, nei limiti più sotto specificati, della domanda proposta dal ricorrente.
Occorre precisare che in base al parere del Consiglio di Stato recepito nel decreto di accoglimento del ricorso straordinario, il ricorrente sarebbe risultato vincitore della selezione.
Infatti il citato parere ha ritenuto, tra l’altro, fondato il primo motivo di gravame col quale era stato dedotto come alla dr.ssa C fossero stati illegittimamente attribuiti 15 punti per il “ Curriculum scientifico pertinente ”.
Detratto alla controinteressata il punteggio riconosciuto per tale voce il dr. B si sarebbe classificato al primo posto e avrebbe pertanto avuto titolo a svolgere l’attività scientifica oggetto di selezione e a percepire l’assegno previsto come corrispettivo.
Il mancato conseguimento del detto assegno è quindi immediatamente riconducibile alla condotta antigiuridica dell’ateneo patavino che ha reso oggettivamente impossibile l’esecuzione in forma specifica della decisone.
Va, pertanto, riconosciuto al ricorrente il diritto a ottenere, a titolo risarcitorio, la somma di € 38.734/00, corrispondente alle due annualità dell’assegno di ricerca attribuito a seguito della procedura annullata con l’ottemperanda decisone.
Sul punto l’intimata Università obietta che in ordine alla durata biennale della ricerca non sussisterebbe alcuna certezza posto che, in base all’art. 34, commi 1 e 2, del regolamento di ateneo, l’attività dell’assegnista, a conclusione del primo anno, dev’essere sottoposta a valutazione, che, ove negativa, comporta la risoluzione del rapporto.
Da ciò discenderebbe la necessità di decurtare l’importo dovuto.
L’obiezione non convince.
Al riguardo basta rilevare che la possibilità di svolgere la ricerca e di farne valutare i suoi risultati al termine del primo anno è stata preclusa al ricorrente dalla condotta antigiuridica dell’amministrazione universitaria che quindi ne deve sopportare integralmente le conseguenze.
Resta confermato che al dr. B spetta, a titolo di capitale, la somma di € 38.734/00.
Trattandosi di debito di valore, occorre, inoltre, riconoscere al danneggiato (dalla data del decreto del Presidente della Repubblica della cui ottemperanza si tratta) sia la rivalutazione monetaria (secondo l'indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall'Istat) che attualizza al momento della liquidazione il danno subito, sia gli interessi compensativi (determinati in via equitativa assumendo come parametro il tasso di interesse legale) calcolati sulla somma periodicamente rivalutata, volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno, sia, infine, gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della pubblicazione della sentenza (che con la liquidazione del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta) sino al soddisfo (cfr. citato Cons. Stato A.P. n. 2/2017).
Nulla spetta, invece, a titolo di danno curriculare.
Per un verso non risulta comprovato che dall’omesso svolgimento dell’attività di ricerca per cui è causa sia derivato al ricorrente un ritardo nell’accesso o nello sviluppo della carriera universitaria.
Per altro verso, come emerge dalle stesse affermazioni del dr. B, egli ha acquisito nel 2015 la posizione di assistant professor presso la University of Chicago , segno evidente che il mancato conseguimento del titolo (assegnista junior ) che avrebbe acquisito ove avesse collaborato nella ricerca finanziata dall’Università di Padova non gli ha impedito di ottenere il prestigioso inquadramento di cui sopra presso la suddetta Università statunitense. Né, peraltro, risulta comprovato che nella descritta situazione, il titolo di assegnista junior avrebbe arricchito in modo significativo il curriculum accademico dell’odierno istante.
La domanda è altresì infondata con riguardo alla pretesa di ottenere:
a) il ristoro di quanto speso per la ricerca di un collocamento accademico alternativo a quello offerto dall’assegno in parola e per il trasferimento all’estero;
b) il danno derivante dalla mancata progressione nella carriera accademica;
c) i danni non patrimoniali e morali.
Con riguardo ai danni di cui alle lett. a) e b) la richiesta è generica e comunque del tutto sfornita di prova.
Né il difetto di prova può essere superato attraverso la richiesta rivolta al giudice di procedere alla liquidazione in via equitativa, atteso che questa, per pacifica giurisprudenza, è ammessa solo nell’ipotesi, che nella specie non ricorre, in cui l’assolvimento dell’onere probatorio si presenti oggettivamente impossibile o estremamente difficile.
L’esistenza del danno di cui alla lett. b) è inoltre smentita dalla brillante carriera fatta dal ricorrente presso la University of Chicago .
Relativamente ai danni indicati sotto la lett. c) occorre, invece, rilevare che gli stessi sono risarcibili solo nel caso (estraneo alla fattispecie) in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona o derivi da fatto costituente reato.
Anche tale componente di danno, inoltre, costituendo pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, non potendo mai considerarsi in re ipsa (Cons. Stato, Sez. IV, 12/11/2015, n. 5143;15/12/2011 n. 6608 e Sez. VI, 22/9/2014 n. 4781;Cass. Civ., Sez. III, 8/10/2007 n. 20987 e Sez. Lav. 25/8/2014 n. 18207).
Nella specie la detta dimostrazione è mancata.
La domanda di condanna dell’Università degli Studi di Padova al pagamento di una penalità di mora per ogni ritardo nell’ottemperare al decreto decisorio del Presidente della Repubblica va, invece, respinta.
La non elevata entità delle somme da corrispondere in esecuzione del giudicato renderebbe manifestamente iniqua la fissazione di una somma da versare a titolo di astreinte .
Il ricorso va, in definitiva, accolto nei limiti più sopra indicati.
La nomina di un commissario ad acta va, invece, riservata al caso di ulteriore inadempimento da parte dell’amministrazione intimata oltre il termine fissato in dispositivo.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Sussistono eccezionali ragioni per disporre l’integrale compensazione di spese e onorari di giudizio.