Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-04-18, n. 201202279
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Testo completo
N. 02279/2012REG.PROV.COLL.
N. 05157/2007 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5157 del 2007, proposto da:
D'A Giuseppe, rappresentato e difeso dall'avv. Alfredo Zaza D'Aulisio, con domicilio eletto presso l’avv. Francesco Cardarelli in Roma, via G.P. Da Palestrina, 47;
contro
Ministero della Difesa, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I BIS n. 14076/2006, resa tra le parti, concernente RIMOZIONE DAL SERVIZIO PER MOTIVI DISCIPLINARI - ESERCITO
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2012 il Cons. Raffaele Potenza e uditi per le parti gli avvocati Filippo Lattanzi in sostituzione di Alfredo Zaza D'aulisio e Carla Colelli (avv.St.);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.- Con ricorso al TAR del Lazio il sig. Giuseppe D’A, Caporal Maggiore scelto V.S.P., impugnava il decreto n. 0203/III-9^/2006 prot. n. DGPM/III/9^/4^/00557/04, emesso dal Direttore Generale per il Personale Militare del Ministero della Difesa in data 18 luglio 2006, con il quale gli veniva comminata la sanzione della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari e, per l’effetto, l’immediata cessazione dal servizio permanente. Esponeva preliminarmente il militare che nei propri confronti, con sentenza del 16 giugno 2005, divenuta irrevocabile il 24 settembre 2005, il G.U.P. presso il Tribunale di Pordenone applicava, seguendo il rito ex art. 444 c.p.p., la pena di mesi sei di reclusione e di € 1.400,00 di multa (con conversione della pena detentiva nella pena pecuniaria di € 6.840,00) per il reato previsto dagli artt. 81, 110 c.p. e 73, comma 1 e 80 del D.P.R. 309/1990, per avere l’interessato “concorso e collaborato con altri al fine di acquistare, detenere e cedere un numero imprecisato di pastiglie di ecstasy a diversi acquirenti ed intermediari, utilizzando i proventi anche al fine dell’acquisto di altra sostanza”.
Questi i profili di censura dedotti a sostegno del ricorso:
- Violazione di legge. Violazione dell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990 n. 19. Eccesso di potere per inosservanza della circolare n. DPGM/III/7^/2057/circ-2002, emanata dalla Direzione Generale per il Personale Militare del Ministero della Difesa in data 14 febbraio 2002;
- Violazione di legge. Violazione dell’art. 3 della legge 241/1990. Violazione dei principi generali in materia di motivazione. Violazione e falsa interpretazione dell’art. 75 della legge 599/1954. Eccesso di potere. Eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione. Arbitrarietà manifesta;
- Violazione del giusto procedimento di legge. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, travisamento dei fatti.
1. 2.- Con la sentenza epigrafata il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso proposto.
2. Il sig. D’A ha tuttavia impugnato la sentenza del TAR innanzi a questo Consesso, chiedendone la riforma e svolgendo motivi ed argomentazioni riassunti nella sede della loro trattazione in diritto da parte della presente decisione. Con ordinanza cautelare (n. 3788/2007), la Sezione ha respinto la domanda di sospensione della sentenza impugnata.
L’appellata amministrazione si è costituita resistendo al gravame, specificando in memoria le proprie difese. Alla pubblica udienza del 7 febbraio 2012 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1.- La controversia sottoposta alla Sezione verte sulla legittimità di un provvedimento disciplinare irrogante la sanzione della perdita del grado per rimozione, con immediata cessazione dal servizio permanente.
1.1. Con il primo mezzo l’appello argomenta sull’erroneità della sentenza ove ha respinto la censura di violazione dall’art. 75 della legge sullo stato giuridico dei sottufficiali n. 599/1954;in quella sede si era sostenuto che l’impugnato provvedimento di perdita del grado, senza adeguata motivazione, si era discostato “in pejus” dal giudizio espresso dalla Commissione di disciplina, secondo la quale il ricorrente sarebbe stato meritevole di conservare il grado. La censura viene qui riproposta, sottolineando che l’amministrazione procedente non può limitarsi ad esporre le ragioni di dissenso ma deve concretamente individuare le circostanze eccezionali e di particolare gravità che impongono di disattendere la proposta formulata dall’organo disciplinare. La tesi non ha fondamento.
La valutazione richiesta dalla norma nel caso in esame si deve ritenere compiuta allorquando, come ha correttamente affermato il giudice di prima istanza, il provvedimento “ha esplicitato le ragioni per le quali ha ritenuto trattarsi di un caso di particolare gravità, precisando che il comportamento del ricorrente – sanzionato in sede penale per avere concorso con altri, illecitamente detenuto a fini di spaccio un numero non determinato di pastiglie di ecstasy, con l’aggravante di avere compiuto il fatto anche effettuando l’offerta o la cessione all’interno o in prossimità di due caserme site nella provincia di Pordenone – ha costituito una grave violazione del giuramento prestato e si è rivelata gravemente contraria ai doveri di responsabilità propri dello status di militare e di quello attinente al grado”.
Si tratta di una valutazione che ampia giurisprudenza della Sezione ha in analoghe fattispecie ritenuto pienamente idonea a sorreggere la sanzione disciplinare in argomento, in ragione della specificità delle funzioni assegnate al dipendente (cfr., ex multis, Cons. di Stato, IV, n. 5475/2008).
1.2.- Anche con riferimento al secondo motivo formulato (necessità di una autonoma istruttoria in caso di una sentenza di patteggiamento ex art.444 c.p.) non è condivisibile alcuna delle argomentazioni articolate a suo supporto.
Contrariamente a quanto affermato dall’appellante, infatti, deve ritenersi inesatta sia l’opinione per cui la sentenza in questione non sarebbe equiparata a tutti gli effetti ad una sentenza di condanna, sia l’affermazione che il provvedimento si è limitato ad una presa d’atto delle vicende penali culminate con la sentenza stessa. In contrario, e sotto entrambi i profili, va osservato che l’esistenza della motivazione espressa sulla gravità dei fatti posti in essere costituisce esplicita ed assorbente conferma che l’amministrazione ha oggettivamente esaminato il contenuto della pronunzia penale (ciò peraltro reca un ulteriore argomento a conferma dell’infondatezza del primo mezzo d’appello svolto), senza applicare alcun automatismo, sicchè resta nei fatti incontroverso il compimento di quell’autonoma valutazione che la natura della sentenza, richiamata dallo stesso appellante, impone. Ciò anche a voler tralasciare che, come ricordato dal TAR:
- “ai sensi dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p., la sentenza pronunziata ai sensi dell’art. 444 è equiparata a una sentenza di condanna;
- inoltre, “come precisato in giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2006 n. 2623), anche una sentenza siffatta riconosce la sussistenza del fatto” sul quale si deve poi svolgere l’autonoma valutazione dell’amministrazione a fini disciplinari.
1.3.- Non miglior sorte deve riservarsi al terzo motivo, il quale lamenta come l’autorità emanante il provvedimento disciplinare abbia disatteso il parere della Commissione di disciplina senza preavvertire l’incolpato. La tesi, che sembra voler applicare l’art. 7 della legge n. 241/1990 autonomamente alla fase terminale del procedimento, non ha fondamento. Ed invero il potere di disattendere il parere, pur collocandosi nell’ambito del procedimento disciplinare, non ha natura procedimentale ma sostanziale, prevedendo e disciplinando una facoltà dell’amministrazione e non un particolare modo di esercitarla attraverso specifiche procedure;conseguentemente non è possibile, nella sola fase di decisione, individuare un sub-procedimento autonomo che, in quanto tale, necessiti di uno specifico ed autonomo avviso da fornirsi all’incolpato; la possibilità di discostamento resta infatti un evenienza intrinseca all’esercizio del potere di emissione dell’atto terminale della vicenda disciplinare.
1.4.- In via subordinata, una quarta censura d’appello ripropone la violazione dell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990 n. 19, nella considerazione che il procedimento disciplinare sarebbe stato concluso (18.7.2006) dopo la decorrenza del termine perentorio finale di 270 giorni, emergente dalla cennata normazione. Il termine in questione dovrebbe infatti conteggiarsi, secondo l’appellante, dal 19.7.2005, poiché in tale data l’amministrazione avrebbe avuto conoscenza della decisione penale. In particolare, in primo grado, e sempre con riferimento al cennato art. 9, l’appellante aveva sostenuto (primo motivo di ricorso) che il procedimento disciplinare è stato concluso con l’impugnato provvedimento oltre i 90 giorni dalla data di contestazione degli addebiti.
Sul punto, il Collegio concorda con quanto affermato dal primo giudice, secondo il quale, messa in disparte la considerazione che “in caso di sentenza che applica il patteggiamento di condanna c.d. patteggiata, non valgono i termini previsti dal citato art. 9, ma quelli di cui al D.P.R. 3 gennaio 1957 n. 3 (cfr. Corte Costituzionale, 28 maggio 1999 n. 197;Cons. Stato, Ad. Plen., 25 gennaio 2000 n. 6)”, il predetto termine decorre non dal 19.7.2005, ma “dal giorno in cui l’Amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e, quindi, nel caso, dal giorno 6 dicembre 2006, nel quale, come affermato nel provvedimento in data 9 febbraio 2006, con cui il Comandante delle forze operative terrestri di Verona ha disposto l’inchiesta disciplinare formale nei confronti del ricorrente, e non contestato ex adverso, l’Amministrazione della Difesa ha acquisito la sentenza”. Il termine finale di conclusione del procedimento, risulta pertanto rispettato.
2- Conclusivamente l’appello deve essere respinto.
Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c).