Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2013-11-08, n. 201305346
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N. 05346/2013REG.PROV.COLL.
N. 04629/2006 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4629 del 2006, proposto da:
Comune di Terni, rappresentato e difeso dall'avv. A A, con domicilio eletto presso la Segreteria Sezionale del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
contro
D E, P N, rappresentati e difesi dall'avv. M D P, con domicilio eletto presso la Segreteria Sezionale del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. UMBRIA - PERUGIA n. 00150/2006, resa tra le parti, concernente negata retrocessione da esproprio per mancata utilizzazione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 ottobre 2013 il Cons. Giuseppe Castiglia e udito per parte attrice l’avvocato Antonio Lirosi (in sostituzione A A);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
I signori Vito Paolucci (o Paulucci) ed Eva Diomedi, proprietari di alcune aree nel territorio di Terni, ne hanno fatto cessione al Comune - con atto del 15 settembre 1989 - nell’ambito di una procedura espropriativa per la realizzazione di un P.E.E.P..
Successivamente la stessa signora Diomedi e la signora Nadia Paolucci, in qualità di eredi di Vito, hanno chiesto al Comune la restituzione degli immobili, sul presupposto che questi non fossero stati utilizzati per il fine pubblico (“realizzazione di una strada e di un parcheggio”), in vista del quale la procedura ablatoria era stata avviata.
Avendo il Comune negato la retrocessione (con provvedimento n. 131460 del 4 novembre 2004), hanno impugnato il provvedimento negativo, chiedendone l’annullamento.
Con sentenza 25 maggio 2006, n. 150, il T.A.R. per l’Umbria, sez. I, dopo aver ritenuto la giurisdizione del Giudice amministrativo sulla base dell’art. 53 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (testo unico sull’espropriazione per pubblica utilità;d’ora in poi: t.u.) ha accolto il ricorso, identificando la pretesa sostanziale dedotta in giudizio come intesa a dichiarare il diritto delle ricorrenti alla retrocessione dei beni.
Contro la sentenza, il Comune ha interposto appello.
Il Comune deduce che:
1. il ricorso di primo grado sarebbe inammissibile per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo. La qualificazione della domanda introduttiva, come volta alla retrocessione totale del bene e non all’annullamento dell’atto, sarebbe errata e apodittica, perché le stesse ricorrenti avrebbero ammesso l’avvenuta sostanziale attuazione del P.E.E.P. nel comparto in cui si trovano le aree cedute. Nel muovere da tale (contestato) presupposto, la sentenza sarebbe comunque erronea, poiché, venendo in questione il diritto soggettivo del proprietario a ottenere la restituzione del bene (in tesi) inutilmente espropriato, la pretesa relativa sarebbe tutelabile innanzi al Giudice ordinario. Infatti, l’art. 53 t.u. non sarebbe in sé applicabile per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, che lo avrebbero dichiarato costituzionalmente illegittimo in parte qua;
2. anche ad ammettere in via di ipotesi l’astratta applicabilità dell’art. 53 t.u. (come pure degli artt. 46 e 48), ad essa osterebbe l’art. 57, comma 1, t.u., secondo il quale le disposizioni del testo unico non si applicherebbero comunque “ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza” e, come nel caso di specie, il passaggio è avvenuto con l’accordo di cessione bonaria stipulato nel 1989;
3. le aree controverse, acquisite nell’ambito di un P.E.E.P., sarebbero entrate definitivamente a far parte del patrimonio indisponibile del Comune – a norma dell’art 35, secondo e terzo comma, della legge 22 ottobre 1971, n. 865 –;sarebbero perciò soggette solo al regime degli artt. 826 e 828 c.c. e non sarebbero suscettibili di retrocessione;
4. essendo stato realizzato il P.E.E.P. nel comparto di riferimento, con la sola eccezione delle aree di proprietà delle appellanti, la vicenda andrebbe inquadrata in un’ipotesi di retrocessione parziale, l’accertamento della quale avrebbe richiesto un’istruttoria che invece appare mancante;
5. l’accordo di cessione delle aree, non essendo limitato a determinare l’importo del corrispettivo, costituirebbe un ordinario negozio di compravendita di diritto privato, per il quale non sarebbe dato richiamare gli istituti propri dell’espropriazione;
6. il nuovo strumento urbanistico avrebbe mantenuto la precedente destinazione per le particelle contestate. Del tutto irragionevolmente, dunque, queste verrebbero restituite solo per essere poi nuovamente espropriate. Nel qualificare la domanda in termini di retrocessione totale, la sentenza avrebbe sottratto la considerazione di tali circostanze al giudizio naturale dell’autorità preposta a emanare il decreto di inservibilità nel caso di retrocessione parziale.
Le ricorrenti in primo grado si sono costituite in giudizio per resistere all’appello, sostenendo che:
1. l’operazione ricostruttiva operata dalla sentenza impugnata sarebbe corretta: verrebbe in questione il diritto soggettivo alla restituzione del bene, per il quale – ai sensi del testo unico più volte citato – sarebbe indiscutibile la giurisdizione del Giudice amministrativo;
2. l’art. 57 t.u. si applicherebbe solo alle procedure espropriative in itinere e non avrebbe alcun rilievo nell’individuazione del Giudice competente;d’altronde, la devoluzione della materia dell’espropriazione alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo sarebbe ben anteriore al testo unico;
3. la destinazione delle aree nell’ambito del P.E.E.P. non ne impedirebbe la retrocessione, posto che l’art. 58 t.u. avrebbe abrogato espressamente l’art. 3, comma 1, della legge 27 ottobre 1988, n. 458, che escludeva la possibilità di retrocessione con riguardo ai terreni utilizzati per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata;solo per un difetto di coordinamento si sarebbe mantenuta la disposizione dell’art. 35 della legge n. 865 del 1971;in questo senso sarebbe la giurisprudenza più recente;
4. si verterebbe al di fuori dell’ambito della retrocessione parziale, presupposto della quale – a norma dell’art. 47 t.u. – sarebbe l’utilizzazione solo parziale del bene espropriato, laddove, secondo lo stesso Comune, le aree in questione non sarebbero state ancora per nulla utilizzate;
5. l’accordo di cessione di bonaria sarebbe una forma semplificata e agevolata di definizione del procedimento espropriativo, cosicché sarebbe a esso applicabile, in linea di massima, la disciplina relativa;
6. il nuovo P.R.G. sarebbe stato solo adottato e non ancora definitivamente approvato;l’art. 127 delle N.T.A. prevedrebbe comunque un’opera pubblica (verde pubblico) diversa da quella in origine prevista (strada e parcheggio).
In seguito il Comune ha depositato documenti (attestanti che il nuovo P.R.G., approvato con delibera n. 307 del 15 dicembre 2008, destinerebbe le aree a parcheggio e viabilità) e memorie.
Con ordinanza 5 giugno 2013, n. 3107, la Sezione, ritenuto che il decreto di fissazione dell’udienza non risultava essere stato comunicato alla parte appellata, ha disposto la rimessione della causa sul ruolo.
Le parti private hanno in seguito depositato una memoria difensiva, nella quale sottolineano che la parte attuata del P.E.E.P. sarebbe stata del tutto estranea all’area controversa, che – secondo il P.R.G. vigente – sarebbe destinata solo a verde e di fatto sarebbe stata abbandonata dal Comune. Ripropongono poi le difese svolte in precedenza.
Con successiva memoria, le medesime parti dichiarano di opporsi sin d’ora a eventuali repliche del Comune alla memoria difensiva precedente, che violerebbero il principio del contraddittorio e non sarebbero a questo punto ammissibili, secondo la corretta lettura che occorrerebbe dare dell’art. 73 c.p.a. in relazione al principio della “parità delle armi” (ex art. 2 c.p.a.).
Alla pubblica udienza del 22 ottobre 2013, l’appello è stato chiamato trattenuto in decisione.
DIRITTO
In limine, il Collegio è dell’avviso di prescindere da una specifica analisi del punto concernente la titolarità della giurisdizione, perché questa – per le ragioni di cui si dirà subito appresso – appartiene senz’altro al Giudice amministrativo.
Negli atti di parte, la questione è discussa con riferimento alla configurazione che la sentenza impugnata ha dato della vicenda controversa, cioè quella di una retrocessione c.d. totale.
Si tratta di una configurazione che il Collegio non condivide.
Non è contestato che il P.E.E.P. di cui si tratta abbia avuto effettiva attuazione (l’appello del Comune richiama ripetutamente, a questo proposito, le affermazioni contenute alla pag. 2 del ricorso introduttivo delle controparti);sarebbero rimaste però inutilizzate le aree delle appellate, che pertanto ne chiedono la retrocessione.
Senonché, quando l'espropriazione di uno o più beni rientri nell'ambito di una più vasta dichiarazione di pubblica utilità, come quella relativa a un piano di edilizia economica e popolare, l'effettiva esecuzione dell'opera pubblica o di interesse pubblico deve essere riferita all'intero complesso dei beni da quest'ultima interessati e non a singoli beni eventualmente rimasti inutilizzati allo scadere dell'efficacia di tale dichiarazione. Ne consegue che la mancata realizzazione di una o più delle opere previste dal piano, per le quali sia stato emesso il decreto di esproprio non fa sorgere il diritto alla retrocessione degli immobili a tal fine ablati, ma solo l'interesse legittimo all'accertamento della inservibilità dei beni, cui consegue il diritto alla restituzione (cfr. Cass. civ., sez. I, 29 novembre 2001, n. 15188).
Queste notazioni non mutano quando - come nel caso in oggetto - i beni siano stati acquisiti dall’Amministrazione in forza non di un provvedimento espropriativo, ma di una cessione volontaria, venendo in tal caso in questione uno strumento che, sebbene formalmente negoziale, mantiene la connotazione di atto autoritativo, dato che il fine pubblico può essere perseguito anche attraverso la diretta negoziazione del provvedimento finale (appare inequivoco l’art. 45, comma 4, t.u., e la giurisprudenza è costante;da ultimo, v. Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4179, e ivi riferimenti ulteriori).
E neppure mutano quando il carattere parziale della realizzazione dell’opera pubblica abbia concretamente escluso in toto le aree di cui i privati chiedano la restituzione. E’ ben vero che l’art. 47 t.u. parla di ”restituzione della parte del bene … che non sia stata utilizzata” (comma 1;e v. anche comma 3). E su questa dizione fa leva la difesa delle appellate, sottolineando l’area di proprietà di queste ultime sarebbe rimasta per intero inutilizzata. “Cosa sia avvenuto per le abitazioni da realizzare in zona P.E.E.P.” aggiunge “è, ai nostri fini, assolutamente irrilevante” (memoria di costituzione del 19 luglio 2006, pag. 10).
Tuttavia, un’interpretazione razionale indice a porre il discrimine tra retrocessione totale e retrocessione parziale in termini, per così dire, oggettivi e non soggettivi. La differenza, cioè, non risiede nel presupposto – a ben vedere, casuale – che il bene del singolo privato non sia stato utilizzato in tutto o in parte, bensì piuttosto nella circostanza che l’opera pubblica o di pubblica utilità non sia stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni (cfr. art. 46, comma 1, t.u.) ovvero realizzata entro tale termine, ma senza completa utilizzazione dei fondi espropriati.
D’altronde, lo stesso art. 60 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 ricollegava la retrocessione a ciò, che, dopo l’esecuzione di un’opera di pubblica utilità, qualche fondo a tal fine acquistato non avesse ricevuto “in tutto o in parte” la preveduta destinazione. E nulla indica che l’art. 47 t.u., che degli artt. 60 e 61 della legge del 1865 ha preso il posto, in un nesso di sostanziale continuità, abbia inteso in qualche modo innovare sotto il profilo specifico.
Da quanto sopra esposto deriva che:
nella fattispecie, si verte in materia di retrocessione c.d. parziale;
la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo;
i privati sono titolari di un interesse legittimo;
tale interesse deve essere fatto valere nel rispetto delle procedure previste dalla legge (artt. 60 e 61 della legge n. 2359 del 1865;in seguito, art. 47 t.u.), che hanno il loro fulcro nella dichiarazione - da parte del Prefetto prima e della Regione oggi - della inservibilità dei beni rispetto all’opera pubblica da compiere.
Nulla di ciò è avvenuto nella presente controversia. Al contrario, il Comune ha depositato documenti (il nuovo P.R.G.) che - con riguardo a due delle tre particelle interessate (744 e 745;nulla si dice della 743) - attestano il permanere dell’interesse pubblico alla destinazione delle aree a parcheggio e viabilità.
Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello del Comune è fondato e va pertanto accolto, con annullamento della sentenza impugnata e conferma del provvedimento oggetto del ricorso di primo grado.
Ogni altro motivo o eccezione non espressamente esaminati sono stati dal Collegio assorbiti in quanto ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.
La complessità delle questioni, con particolare riguardo all’inquadramento della fattispecie, giustificano la compensazione fra le parti delle spese del doppio grado di lite.