Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-11-05, n. 201806250

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-11-05, n. 201806250
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201806250
Data del deposito : 5 novembre 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 05/11/2018

N. 06250/2018REG.PROV.COLL.

N. 04909/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4909 del 2010, proposto da Comune di Rivolta d’Adda, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati D V e B S, con domicilio eletto presso lo studio D V in Roma, Lungotevere Marzio, 3;

contro

M N, W C e R M, rappresentati e difesi dagli avvocati M A S e B D R, con domicilio eletto presso lo studio M A S in Roma, corso Vittorio Emanuele, 349;

nei confronti

Corte Maria Luisa s.r.l., non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per la Lombardia – Sezione staccata di Brescia, Sez. I n. 871 del 22 febbraio 2010, resa tra le parti, concernente permesso di costruire.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di M N, W C e R M;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 ottobre 2018 il Cons. Luca Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Corbyons su delega di Santamaria e De Rosa;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso avanti il T.a.r. per la Lombardia – Sezione staccata di Brescia – i signori N, C e M hanno impugnato il permesso di costruire n. 58 rilasciato dal Comune di Rivolta d’Adda in data 14 maggio 2007 a favore della società Corte Maria Luisa s.r.l. per la realizzazione, in zona “ B – residenziale di completamento ”, di un compendio immobiliare a destinazione mista direzionale (uffici) e commerciale (supermercato) contiguo al fabbricato ad uso residenziale di loro proprietà.

1.1. I ricorrenti, fra l’altro, hanno lamentato che la volumetria effettiva del complesso de quo sarebbe pari a mc 9.607,40, ben superiore a quella massima (mc 4.476,00) in tesi assentibile sulla base dell’indice fondiario previsto per la zona (1,20 mc/mq).

1.2. Il Comune, ritualmente costituitosi, ha eccepito, in proposito, di avere fatto applicazione dell’art.

5.10 delle N.T.A. del P.R.G., secondo cui “ il volume delle costruzioni … è da ricavarsi convenzionalmente moltiplicando la superficie lorda di pavimento per l’altezza virtuale di 3,00 mt., indipendentemente dalla loro altezza effettiva ”: pertanto, ha osservato l’Ente, del tutto correttamente il titolo edilizio ha computato una volumetria di mc 4.000,80, ottenuta prendendo a riferimento l’altezza convenzionale di metri 3,00, benché il fabbricato si sviluppi in altezza per metri 7,60.

2. Con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r., previa reiezione di una preliminare censura svolta dai ricorrenti (afferente all’esegesi da riconoscere all’espressione “ superficie ” utilizzata dall’art. 15 delle N.T.A. con riferimento alle strutture di vendita), ha ritenuto fondata la doglianza in esame ed ha accolto il ricorso, assorbendo le restanti censure.

2.1. Il Tribunale, in particolare, ha sostenuto, anche sulla base delle argomentazioni svolte in una precedente sentenza in tesi afferente ad una fattispecie analoga (T.a.r. per la Lombardia – Sede di Milano – Sez. II, 29 dicembre 2008, n. 6188), che “ l’interpretazione da dare alle norme talora inserite dai Comuni negli strumenti urbanistici che prevedono altezze convenzionali per il calcolo della volumetria ” deve tener presente il principio per cui “ il volume virtuale non può essere sganciato da quello fisico fino al punto da alterare sensibilmente il dato reale ”: invero, “ ove le singole Amministrazioni fossero libere di fissare per il computo del volume criteri del tutto avulsi da una base reale, la norma primaria (art. 41-quinquies, sesto comma, legge n. 1150 del 1942), e il decreto ministeriale applicativo (art. 7 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444), che pongono limiti di densità edilizia valevoli su tutto il territorio nazionale senza stabilire criteri uniformi per il calcolo della volumetria, verrebbero diversamente applicati e sostanzialmente vanificati ”.

2.2. Poiché, dunque, “ l’applicazione indiscriminata del criterio virtuale finirebbe per alterare la regola posta dalla norma primaria fino al punto di ammettere volumetrie del tutto avulse dalla realtà ”, il Tribunale ha ritenuto che disposizioni siffatte abbiano “ la finalità – esattamente opposta a quella per cui è stata utilizzata nel caso in esame – di impedire che colui il quale costruisce realizzi un edificio con un’altezza interpiano molto ridotta riuscendo in questo modo ad insediare più unità immobiliari con lo stesso indice di fabbricabilità ”.

2.3. In sostanza, ha concluso il Tribunale, laddove “ gli strumenti urbanistici prevedono un’altezza convenzionale di 3 m. che prescinde dall’effettiva altezza interpiano ”, ciò fanno al diverso fine di “ evitare di lasciare al costruttore la possibilità di agire sul requisito dell’altezza interpiano per aumentare il carico insediativo rispetto a quello previsto in sede di pianificazione ”: norme del genere, in definitiva, forniscono “ un parametro costante da applicare in modo omogeneo in tutto il territorio comunale, che consente di impedire di sfruttare l’altezza interpiano per eludere i carichi insediativi decisi in sede di pianificazione ”. Del resto, l’opposta interpretazione coltivata dal Comune condurrebbe ad affidare “ al solo parametro dell’altezza massima di zona il limite massimo di ampliamento indiscriminato dei carichi urbanistici sul territorio ”.

3. Il Comune ha interposto appello.

3.1. In rito, l’Ente ha censurato l’inammissibilità del ricorso di prime cure per mancata impugnazione delle N.T.A., in tesi configuranti atto amministrativo generale e, dunque, non suscettibili di disapplicazione officiosa.

3.2. Nel merito, il Comune - premesso che la sentenza citata dal T.a.r. afferirebbe ad “ una fattispecie relativa ad un intervento residenziale ” e, quindi, non “ paragonabile a quella per cui è causa ” - ha sostenuto che “ la previsione di un’altezza virtuale rappresenta un modo per non penalizzare eccessivamente chi deve realizzare … strutture adibite ad ipermercati e simili … che necessariamente presuppongono una certa altezza ”, di talché, “ se si pretendesse di computare il volume effettivo, ne risulterebbe l’impossibilità di localizzare e realizzare simili strutture, poiché le stesse supererebbero sempre i limiti di densità edilizia di cui al d.m. (specie in questo caso in cui l’immobile è localizzato in area B, e, quindi, in una zona già densamente edificata, in cui risulta difficile reperire una superficie fondiaria di notevole estensione), il che sarebbe illogico e contrario … all’art. 15 delle N.T.A., che prevede espressamente la possibilità di realizzare medie strutture di vendita in area B ”.

3.3. La previsione de qua , in altre parole, non favorirebbe intenti speculativi ma, al contrario, consentirebbe tipologie di edificazioni altrimenti de facto precluse: del resto, a “ presidio di un limitato dimensionamento effettivo ” la pianificazione urbanistica avrebbe previsto “ un’altezza fisica massima di 10 metri ”.

3.4. Di converso, l’opzione interpretativa coltivata dal T.a.r. – oltre a “ tradursi in una violazione dell’autonomia decisionale e della potestà regolamentare dei Comuni in materia di assetto del proprio territorio ” – sarebbe “ impossibile, perché non considera che 2,70 mt. di altezza è la misura minima consentita e che a questa deve aggiungersi la soletta interpiano, avente uno spessore di almeno 30-40 cm., per un’altezza totale di 3 mt. ”.

3.5. Infine, da un lato il T.a.r. non avrebbe tenuto conto del “ notorio principio secondo cui gli indici e gli standard relativi ai fabbricati produttivi non vengono computati in volume, ma con riferimento alla s.l.p., e quindi mediante l’applicazione del criterio mq/mq ”, dall’altro non avrebbe considerato che “ le disposizioni di cui all’art. 41-quinquies, commi 6-7, della legge 1150/42 e dell’art. 7 del d.m. 1444/68 possono essere derogate dalla disciplina di PRG ”, in quanto non poste a tutela di interessi fondamentali dell’ordinamento.

4. L’istanza cautelare svolta dal Comune è stata rigettata con ordinanza n. 3203 del 14 luglio 2010, recante la seguente motivazione: “ Considerato, nei limiti di delibazione propri della presente fase e fatti salvi i necessari approfondimenti propri della sede di merito, che l’appello appare privo di fumus;

Considerato infatti che l’unica interpretazione ragionevole delle nta appare quella valorizzata dal Tribunale;

Rilevato altresì che – in difetto di costituzione della società che gestisce l’esercizio commerciale - il danno per l’ente locale che ha rilasciato il titolo edilizio appare obiettivamente limitato ”.

5. Si sono, quindi, costituiti i ricorrenti in prime cure.

6. In vista dell’udienza di discussione le parti hanno versato in atti difese scritte.

6.1. In particolare, il Comune ha ribadito criticamente le argomentazioni svolte in ricorso, mentre i signori N, C e M hanno sostenuto:

- in rito, che in primo grado il Comune avrebbe eccepito l’inammissibilità del ricorso con riferimento al profilo dell’assunta carenza di legittimazione attiva, non alla mancata impugnazione delle N.T.A.: la censura in questa sede svolta, pertanto, sarebbe nuova e, come tale, inammissibile;

- nel merito, che l’indice fondiario nelle zone “B”, a differenza delle zone “D”, sarebbe espresso dal P.R.G. nel solo rapporto mc/mq: tale criterio non potrebbe essere in alcun modo pretermesso, anche perché altrimenti si consentirebbe, in prospettiva, che con un successivo procedimento di cambio d’uso la debordante volumetria possa diventare ad uso residenziale.

7. Il ricorso, trattato alla pubblica udienza del 4 ottobre 2018, non merita accoglimento.

8. Il Collegio rileva, preliminarmente, che l’oggetto del presente giudizio è limitato alla questione sopra esposta: i signori N, C e M, infatti, non hanno né impugnato la reiezione espressa, da parte del T.a.r., dell’altro motivo di ricorso speso in prime cure (in ordine al quale v. supra , sub § 2), né riproposto, con i modi ed entro i termini di legge, le restanti doglianze svolte dinanzi al Tribunale ed ivi dichiarate assorbite.

9. Ciò premesso, il Collegio osserva che la censura di inammissibilità del ricorso di prime cure per mancata impugnazione delle N.T.A. è infondata: può, dunque, prescindersi dal delibare l’eccezione di novità svolta, in proposito, dai signori N, C e M.

9.1. L’art.

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