Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2014-02-20, n. 201400791

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2014-02-20, n. 201400791
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201400791
Data del deposito : 20 febbraio 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 09613/2003 REG.RIC.

N. 00791/2014REG.PROV.COLL.

N. 09613/2003 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9613 del 2003, proposto dai Sig.ri B B, V F, V E, V I, P S, V G, V E, tutti rappresentati e difesi dall'avvocato R G, con domicilio eletto presso Maurizio Canfora in Roma, viale Giulio Cesare, 71;

contro

Comune della Spezia, non costituito;

nei confronti di

la Sig.ra Cozzani Elisabettta, ed il Sig.re Maggi Maurizio, entrambi nella qualità di amministratori pro tempore del Condominio di Corso Cavour, n. 416, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Stefano De Ferrari e Carlo De Ferrari, con domicilio eletto presso il signor Gian Marco Grez, in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LIGURIA – GENOVA, SEZIONE I, n. 727/2002, resa tra le parti, concernente una autorizzazione edilizia per lavori di manutenzione straordinaria;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Maggi Maurizio;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 gennaio 2014 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e udito per le parti l’avvocato R G;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Gli odierni appellanti proponevano due distinti ricorsi (n. 612 del 1996 e n. 184 del 2001) dinanzi al TAR per la Liguria, al fine di ottenere l’annullamento, rispettivamente:

a) dell'autorizzazione edilizia per lavori di manutenzione straordinaria (in particolare per l’installazione all'interno di un edificio di un ascensore finalizzato al superamento delle barriere architettoniche), rilasciata dal Sindaco del Comune della Spezia, n.5 del 12.1.1996, conosciuta a far data dall'8.3.1996, con ogni atto ad essa presupposto e connesso, con particolare riferimento al parere della C.E.C.;

b) della comunicazione del Comune della Spezia -Area 3- Servizi tecnici ed OO.PP.- Serv. Ed., prot. n.15111 dell'11.10.2000, conosciuta a far data dal 20.11 successivo, avente ad oggetto il procedimento di valutazione della necessità di annullamento in autotutela dell'autorizzazione edilizia del 12.1.1996, n.5 (conferma della legittimità dell'autorizzazione a suo tempo rilasciata per la costruzione dell'ascensore in questione e intenzione dell'amministrazione di non procedere, analogamente a quanto deciso dall'amministrazione provinciale della Spezia, all'annullamento del titolo abilitativo medesimo), con la quale è stata assentita ai sensi della legge n.13/89 la costruzione di un ascensore nel Condominio di Corso Cavour 416- p.e. n.20140, con ogni atto presupposto o connesso.

2. Il TAR per la Liguria, riuniti i ricorsi, li respingeva rilevando che:

a) quanto al primo ricorso non fosse fondato l'unico motivo di censura prospettato, con il quale si deduce che l'amministrazione comunale ha assentito l'opera con il procedimento autorizzatorio anziché tramite D.I.A., come previsto dall'art.8, c.7, lett. d, dell'allora vigente D.L. 25.11.1995, n.498 (reiterativo dell'omologo art. 8 del D.L. 20.9.1995, n.400), nella parte in cui veniva modificato l'art.7 della legge 9.1.1989, n.13, che disciplinava il regime autorizzatorio concernente gli interventi edilizi per la costruzione di ascensori idonei al fine dell'abbattimento delle barriere architettoniche. Ciò in quanto la volontaria rinuncia ad una norma più favorevole, che prevede la possibilità di utilizzare la DIA, non poteva ritorcersi contro l'interesse dell'amministrato sino al punto di non consentirgli l'alternativa di ricorrere alla procedura normale. Il primo Giudice traeva ulteriore conforto a tale conclusione dalla circostanza che la norma invocata dai ricorrenti veniva poi modificata dalla normativa urbanistica sopravvenuta (cfr. il D.L. 24.1.1996, n.30 e l'art.2, comma 60. 7, lett. b, della legge 23.12.1996, n.662), che riconfermava la non obbligatorietà della procedura di DIA per gli interventi de quibus ;

b) quanto al secondo ricorso, secondo il Tribunale, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il Comune non aveva l’obbligo di accogliere la sua istanza di autotutela conformandosi al dictum della Provincia, pur in presenza di parere negativo (ma irrilevante) del responsabile del procedimento. Né poteva condividersi l'obiezione del ricorrente secondo cui il Comune per discostarsi dalle valutazioni della Provincia avrebbe dovuto impugnare il relativo provvedimento, dal momento che, a prescindere dal fatto che la Provincia non avesse comunque ritenuto di annullare l'autorizzazione, se mai spettava al ricorrente medesimo impugnarlo, visto che era stato quest’ultimo insieme agli altri litisconsorti a chiederne l'intervento. Del pari non, poteva ritenersi fondata la critica del ricorrente secondo cui, non essendo ancora terminata l'opera ed essendosi trasferita in altro luogo l'unica portatrice di handicap del condominio, il Comune non avrebbe avuto alcuna ragione, nemmeno di interesse pubblico, per mantenere in vita l'ascensore. Infatti, a parte la circostanza che l'ascensore era già funzionante e che l'edificio in questione ospitava condomini affetti da malattie cardiache, la realizzazione di interventi finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici con le agevolazioni consentite con la legge n. 13/1989 prescindeva dalla presenza o meno di handicappati, dovendosi rinvenire la ratio legis nel consentire la frequentabilità degli edifici medesimi a tutti, compresi i portatori di handicap.

3. Con atto d’appello notificato il 26 settembre 2003, depositato il 24 ottobre 2003, gli originari ricorrenti invocano la riforma della pronuncia del primo Giudice, richiamando l’attenzione del Consiglio sulla circostanza di fatto che l’ascensore oggetto degli impugnati provvedimenti sarebbe situato all’esterno nel cortile condominiale, ed affidano la propria richiesta ai seguenti motivi:

a) il provvedimento autorizzatorio sarebbe illegittimo, perché rilasciato sulla base di una norma abrogata;

b) l’intervento edilizio non sarebbe conforme al regolamento edilizio vigente, né alla legge 13 del 1989, che vieterebbero di eseguire innovazioni che possano recare danno alle parti comuni. Non vi sarebbe conformità dell’opera alla disciplina urbanistica, quindi, le opere non sarebbero tutelabili ex art. 6, l. 47/1985. Da qui l’impossibilità del Comune di rilasciare un’autorizzazione edilizia in sanatoria. Né assumerebbe rilievo la non obbligatorietà della procedura di d.i.a. introdotta con la normativa sopravvenuta rappresentata dall’art. 2 comma 60, l. 662/1996. Il provvedimento, infatti, violerebbe numerose disposizioni della legge 13/89, quali l’art. 1, comma 3, lett. d) e comma 4, perché per raggiungere l’ascensore sarebbe comunque necessario utilizzare dei gradini;
l’art. 2, comma 3, che vieterebbe innovazioni che rendono talune parti dell’edificio inservibili all’uso o ledono i diritti dei singoli, nel caso in questione il cortile condominiale e limitazione della luce e dell’area di alcuni appartamenti;
l’art. 3 comma 2 per il mancato rispetto delle distanze di mt. 3 dalle pareti finestrate e dalle vedute, mentre il Comune avrebbe ritenuto di attribuire al testo della legge il significato di superficie di proprietà o di uso condominiale. Il contestato provvedimento violerebbe, inoltre, l’art. 40 del regolamento edilizio e l’art. 7 punto 1 delle N.T.A. del prg vigente (ex art. 9, punto 1, d.m. 1444/68) in quanto non rispetterebbe la distanza minima di 10 mt dalle pareti finestrate.

c) La Provincia avrebbe agito correttamente, ritenendo di non dover adottare un annullamento in autotutela, perché chiamata a valutare il solo interesse alla conservazione della situazione esistente;
mentre il potere di autotutela del Comune avrebbe dovuto essere esercitato ponendo in primo piano l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto invalido;

d) vi sarebbe mancata motivazione sul diniego di autotutela a fronte di un parere contrario da parte del responsabile del procedimento (art. 4, d.l. 398/1993 convertito con l. 493/1993).

4. In data 24 novembre 2003 si costituiscono in giudizio gli odierni appellati, che chiedono il rigetto dell’appello in esame evidenziando come i decreti legge che avevano sostituto la possibilità di utilizzare la d.i.a. in luogo del provvedimento espresso non sono stati convertiti e quindi ex art. 77, comma terzo, Cost. avrebbero perso efficacia ex tunc . Inoltre, sarebbe intervenuta l’autorizzazione in sanatoria n. 17/97, nella vigenza della l. 662/1996. Non vi sarebbe violazione della legge N. 13 del 1989, dovendosi distinguere tra edifici già esistenti ed edifici da costruire. Inoltre, l’art. 3, l. n. 13 del 1989 consentirebbe una deroga alla disciplina sulle distanze. Né per le modalità realizzative vi sarebbe danno ai condomini. La stessa amministrazione provinciale, infine, avrebbe ritenuto veniale la riscontrata delle difformità dell’opera.

5. In data 10 maggio 2012, il Consiglio di Stato emette decreto di perenzione, che viene revocato in data 31 luglio 2012.

6. All’udienza del 14 gennaio 2014, la causa viene trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e va respinto, risultando destituite di fondamento le doglianze proposte a corredo del gravame.

2. Quanto alla prima censura, infatti, risulta corretta la conclusione raggiunta dal primo Giudice che ha posto in luce come la scelta dell’amministrazione e del richiedente di seguire la via dell’adozione di un provvedimento espresso, piuttosto che quella più rapida della denuncia di inizio di attività, non può essere contestata dal controinteressato, giacché quest’ultimo non può che risultare maggiormente tutelato dall’adozione di un provvedimento esplicito che cristallizza le ragioni dell’amministrazione, rendendole più agevolmente ‘aggredibili’.

Inoltre, rileva la disciplina contenuta prima nell’art. 8, comma 7, lett. d), d.l. 400/1995 ed in seguito nel d.l. 498/1995, che non è stata oggetto di conversione, pertanto la stessa deve ritenersi avere perso efficacia con effetto ex tunc in forza della lettera dell’art. 77, comma terzo, Cost., sicché, in assenza di una disciplina espressa che detti una disciplina ad hoc per le vicende amministrative intervenute nelle more della vigenza del decreto legge decaduto, non può ritenersi illegittimo l’atto amministrativo che risulti difforme dalla disciplina contenuta nel d.l. non convertito, ma conforme alla normativa in vigore precedentemente ed a quella successivamente rilevante.

La mancata conversione del d.l. con la conseguente perdita di efficacia ex tunc , infatti, determina un’illegittimità sopravvenuta dell’atto amministrativo emanato durante il suo temporaneo vigore, che se non lo fa automaticamente venir meno (Cons. St., Sez. V, 19 maggio 1998, n. 633), non potendo lo stesso essere considerato come un atto nullo, legittima senz’altro l’amministrazione ad adottare un provvedimento di autotutela per rimuovere gli effetti del provvedimento qualora lo stesso, pur conforme alla normativa dettata dal suddetto d.l., risulti difforme dalla normativa successivamente rilevante (cfr. Cons. St., Sez. V, 2 luglio 2001, n. 3594).

Al contrario, deve affermarsi che all’amministrazione è inibito l’esercizio del potere di annullamento in autotutela laddove l’atto amministrativo risulti difforme rispetto alla normativa contenuta nel d.l. non convertito, ma sia conforme a quella della disciplina in vigore successivamente.

3. Neppure risulta fondato il secondo motivo di gravame nelle sue articolazioni, non ravvisandosi alcuna violazione della disciplina contenuta nella l. 13 del 1989, nella l. 47 del 1985, nel regolamento edilizio e nelle N.T.A. del p.r.g., ratione temporis vigenti.

3.1. Il punto di partenza nella ricostruzione della disciplina applicabile è da individuarsi nella pronuncia della Corte costituzionale n. 251 del 4 luglio 2008, che ha chiarito come: “ In relazione al contenuto dei diritti costituzionalmente riconosciuti ai disabili, si deve ritenere: a) che la socializzazione (superandosi la vecchia concezione di una loro radicale irrecuperabilità) è un elemento essenziale per la salute degli interessati, tale da assumere una funzione sostanzialmente terapeutica, alla pari con le pratiche di cura e riabilitazione;
b) che la legislazione in loro favore (specie LL. 9 gennaio 1989 n. 13 e 5 febbraio 1992 n. 104), oltre ad innalzare il livello di tutela personale, ha segnato un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi degli handicappati, assunti come nodi dell'intera collettività, per esempio a proposito della costruzione di nuovi edifici e della ristrutturazione di quelli preesistenti, intese ad eliminare comunque le barriere architettoniche, indipendentemente dal più o meno probabile utilizzo da parte dell'invalido
”.

Come appare evidente dalle indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale, la disciplina della l. 13 del 1989 rappresenta un modello di riferimento per conformare tutti gli spazi secondo caratteristiche che ne consentano l’utilizzo anche da parte di soggetti disabili senza necessità che l’intervento edilizio de quo sia subordinato all’effettiva e comprovata fruizione da parte di un portatore di handicap.

L’importanza dell’interesse costituzionalmente tutelato è tale, inoltre, che una lieve difformità rispetto alla disciplina urbanistica non potrebbe in ogni caso comportare un obbligo per l’amministrazione di intervenire in autotutela.

3.2. Ancora risulta del tutto infondata la ipotizzata violazione dell’art. 1, comma 3, lett. d), e comma 4, l. 13/1989, atteso che anche un’eliminazione parziale delle barriere architettoniche risulta comunque meritevole di tutela. Inoltre, sebbene l’eliminazione delle barriere architettoniche non risulti totale, l’interesse fatto valere dagli odierni appellanti non è certo quello ad un ampliamento dell’opera realizzata, quanto all’eliminazione tout court del provvedimento sulla scorta del quale la stessa è realizzata, risultando contestata con l’iniziativa giurisdizionale in esame in radice l’edificabilità, sicché una siffatta censura oltre che infondata si palesa inammissibile.

3.3. Priva di fondamento è anche la dedotta violazione dell’art. l’art. 2, comma 3, della l. 13/1989, nella parte in cui richiama l’art. 1120, comma secondo, c.c., che vieta le innovazioni che possano rendere talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

Infatti, non solo non risulta provato che l’intervento in questione abbia provocato un danno agli appellanti, ma va considerato che la realizzazione di un intervento di eliminazione delle barriere architettoniche comporta un sicuro aumento del valore dell’immobile, poiché tutti i condomini ne traggono un vantaggio, senza considerare che, rendendo fruibile ogni parte dell’immobile servita dall’innovazione ad un maggior numero di persone, lo stesso risulta commercialmente più appetibile. Ancora l’innovazione in questione aumenta il godimento della parti comuni che serve, posto che le rende più facilmente raggiungibili.

3.4. Del pari non è rilevante la violazione della disciplina sulle distanze, considerato che la normativa contenuta nella l. 13/1989, pacificamente applicabile anche ai condomini (Cons. St., Sez. V, 19 novembre 1994, n. 1344), all’art. 3, comma 1, prevede espressamente che: “ Le opere di cui all'articolo 2 possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati ”, ossia proprio per la situazione esistente nella fattispecie de qua .

Ed, infatti, utilizzando il metro interpretativo offerto dal D.M. 236/1989, recante il regolamento attuativo della l.13/89, il cortile di un condominio non può valutarsi alla stregua di uno spazio di uso pubblico. L’art. 2 del D.M. 236/1989, dispone che: “ F) Per spazio esterno si intende l'insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell'edificio o di più edifici ed in particolare quelli interposti tra l'edificio o gli edifici e la viabilità pubblica o di uso pubblico ”.

Lo spazio di uso pubblico va equiparato alla viabilità pubblica, quindi, ad uno spazio che non è di pertinenza del condominio. Il cortile del condominio, invece, rappresenta una parte comune, che connette funzionalmente più unità immobiliari all’interno del condominio stesso.

Pertanto, il riferimento operato nell’atto di gravame all’art. 3, comma 2, l. 13/89, non appare pertinente. Conseguentemente, risulta infondata la prospettata violazione dell’art. 40 del regolamento edilizio e dell’art. 7, punto 1, delle N.T.A. del prg vigente.

4. Quanto al terzo motivo di appello, non risulta illegittima la scelta dell’amministrazione comunale di non adeguarsi al dictum della Provincia, poiché i suddetti organi sono preposti alla tutela di interessi diversi, senza che possa configurarsi la presenza di un rapporto di sovra ordinazione gerarchica o di direttiva, tale che la manifestazione della volontà della Provincia possa incidere sull’esercizio del potere discrezionale rimesso all’amministrazione comunale.

Allo stesso tempo, quest’ultima non aveva l’obbligo secondo la disciplina ratione temporis vigente di motivare la scelta di discostarsi dalla proposta del responsabile del procedimento, né dal parere elaborato dalla Commissione edilizia, trattandosi di procedimento avviato in sede di autotutela al quale non può ritenersi applicabile l’art. 4, d.l. 398/1993.

In sede di autotutela il responsabile del provvedimento, infatti, deve mettere a confronto l’interesse pubblico con gli interessi privati intercettati dall’azione amministrativa, dando il giusto peso all’affidamento medio tempore intervenuto. Questa valutazione, in presenza della necessità di tutelare interessi di rilievo costituzionale, quali quello della tutela dei portatori di handicap, può condurre anche a ritenere di non dover intervenire per la rimozione di un atto illegittimo.

Pertanto, nella fattispecie non si ravvisa un uso disfunzionale dell’esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione comunale.

5. L’appello, in definitiva, deve essere respinto.

6. Le spese seguono il principio della soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

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