Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-08-26, n. 201404277

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-08-26, n. 201404277
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201404277
Data del deposito : 26 agosto 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 09723/2007 REG.RIC.

N. 04277/2014REG.PROV.COLL.

N. 09723/2007 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9723 del 2007, proposto da:
Comune di San Benedetto del Tronto, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. A G, con domicilio eletto presso A G in Roma, via Salaria, 95;

contro

R L, rappresentato e difeso dall'avv. S G, con domicilio eletto presso lo Studio Satta &
Associati in Roma, via Pierluigi da Palestrina, 47;

nei confronti di

Dirigente del settore assetto del territorio del Comune di S. Benedetto del Tronto, non costituito;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. MARCHE - ANCONA: SEZIONE I n. 01194/2007, resa tra le parti, concernente rilascio di autorizzazioni edilizie in sanatoria


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 luglio 2014 il Cons. G C e uditi per le parti gli Avvocati Stoppelli, per delega dell'Avv. Galvani, e Pannunzio, per delega dell'Avv. Gabrielli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con unico ricorso, il signor Luigi R ha impugnato:

- l’autorizzazione edilizia in sanatoria, rilasciata dal Comune di San Benedetto del Tronto in data 3 febbraio 2003, per un capannone artigianale costruito prima del 1° settembre 1967;

- l’autorizzazione edilizia in sanatoria, rilasciata dallo stesso Comune in data 2 aprile 2003, per una tettoia aperta al piano terreno a protezione delle piante di un vivaio, realizzata in epoca anteriore al 1° settembre 1967.

Il signor R contesta le autorizzazioni in sanatoria nella parte in cui considerano le opere “a carattere precario”. Così disponendo, i provvedimenti comunali avrebbero un contenuto diverso rispetto a quanto richiesto, riferito a opere comportanti una duratura trasformazione del territorio, e configurerebbero un immotivato e sostanziale diniego delle domande di concessione in sanatoria, così come a suo tempo proposte dal dante causa del ricorrente.

Respinta un’eccezione di inammissibilità, formulata dall’Amministrazione comunale sul rilievo che il ricorso avrebbe avuto a oggetto atti distinti e non collegati, il T.A.R. per le Marche, sez. I - con sentenza 25 luglio 2007, n. 1194 - ha accolto il ricorso.

Contro la sentenza il Comune ha interposto appello.

1. In primo luogo, l’Amministrazione rinnova la censura di inammissibilità del ricorso introduttivo. I provvedimenti impugnati si configurerebbero come decisioni finali rispetto a istanze separate, frutto di sequenze procedimentali e istruttorie del tutto distinte. L’unico elemento comune sarebbe quello soggettivo (il proprietario richiedente), mentre, da un punto di vista dei beni implicati, le opere edilizie in questione sarebbero oggettivamente differenti, poste in zone diversamente classificate del P.R.G., e realizzate l’una (il capannone) in presenza di un titolo autorizzativo, l’altra (la tettoia) in assenza. L’analogia delle questioni e delle censure e la mancanza di elementi di confusione o di compromissione della difesa comunale, su cui il Tribunale regionale ha fatto leva nel respingere l’eccezione, non renderebbero invece ammissibile il ricorso cumulativo, anche alla luce delle obiettive differenze nelle fattispecie (afferma il Comune che per il solo capannone sarebbe esistita una precedente autorizzazione “in precario”).

2. Nel merito, l’appellante denuncia il travisamento dei fatti, l’erroneità dei presupposti, il difetto di istruttoria che vizierebbero la sentenza impugnata. Questa si sarebbe limitata a riprendere l’impostazione dell’originario ricorrente, trascurando la ricostruzione operata dall’Amministrazione.

3. In particolare, quanto al capannone artigianale, l’appello ricorda che già nel 1964 l’allora proprietario avrebbe inoltrato un’istanza al Comune. Consapevole però che la zona era destinata dal P.R.G. a via urbana di scorrimento, si sarebbe impegnato a realizzare il manufatto con materiale prefabbricato facilmente rimuovibile e a smantellarlo su semplice richiesta del Comune. Da ciò, dunque, l’autorizzazione provvisoria n. 11093 del 1° agosto 1964, che il proprietario avrebbe omesso di ricordare nella domanda di concessione in sanatoria ex art. 31 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, nella quale anzi si affermerebbe la mancanza di qualsiasi previo titolo abilitativo. Nell’esaminare la domanda, i tecnici comunali, comparando l’opera come descritta nell’istanza di condono con quella prevista dal titolo del 1964, ne avrebbero accertato l’avvenuta realizzazione con materiale provvisorio, ma con dimensioni diverse da quelle previste. Di conseguenza, il Comune avrebbe autorizzato a mantenere l’opera in sanatoria a carattere precario nella sua concreta e diversa struttura.

3.1. Il T.A.R. avrebbe errato nel non avere approfondito nel dettaglio la situazione edilizia: gli “interventi successivamente attuati”, che avrebbero modificato strutturalmente il manufatto, non sarebbero mai avvenuti, dato che questo sarebbe rimasto nella sua conformazione dal 1966 a oggi, come dichiarato dalla stessa parte privata là dove ne affermerebbe l’ultimazione in tale anno. La tamponatura perimetrale, valorizzata dal giudice di primo grado, non è contestata dal Comune: essa sarebbe però propria dell’opera sin dall’origine e non avrebbe natura portante. A tale tamponatura il Tribunale regionale avrebbe dato peso determinante, come esempio di quegli interventi successivi che avrebbero avuto rilievo sulla natura dell’opera, pur escludendo - in modo contraddittorio - che essi abbiano avuto incidenza sulla struttura dell’edificio.

3.2 Dalla decisione impugnata discenderebbe poi uno stravolgimento della logica ispiratrice del condono edilizio, volto a sanare opere realizzate in assenza o in difformità da un titolo edilizio, che nella fattispecie invece esisteva.

Se il condono tende al recupero e al consolidamento delle opere edilizie con le caratteristiche funzionali e strutturali esistenti al 1° ottobre 1983, esso non potrebbe essere utilizzato per fare acquisire all’installazione il carattere della durevolezza.

4. Quanto poi alla seconda autorizzazione impugnata, il Comune ricorda che il privato avrebbe chiesto la concessione edilizia in sanatoria per una tettoia realizzata senza alcun titolo. Nella documentazione successivamente prodotta, l’opera sarebbe stata descritta come l’insieme di due corpi di fabbrica utilizzati per attività agricola di tipo vivaistico. L’istruttoria svolta dai tecnici comunali avrebbe accertato trattarsi di semplice tettoia aperta a protezione delle piante del vivaio, priva di elementi portanti (tale non sarebbe il muro posto sul fronte ovest, che avrebbe solo funzione di contenimento) e non costituente volume edilizio. Da ciò, dunque, il rilascio dell’autorizzazione a mantenere l’opera a carattere precario e non la concessione edilizia.

A tale riguardo, il T.A.R. avrebbe fatto uso di un metro di giudizio diverso da quello utilizzato per il capannone. Per quello, avrebbe considerato determinante la rimovibilità o no della struttura;
per la tettoia, pur ammettendo che essa sarebbe stata realizzata con tipologia e materiali tali da farne ritenere agevole la rimozione, avrebbe considerato determinante lo scopo non transitorio cui l’opera sarebbe destinata. Il ragionamento del Tribunale regionale, dunque, sarebbe intrinsecamente contraddittorio.

Il signor R si è costituito in giudizio per resistere all’appello, del quale contesta in primo luogo l’ammissibilità, per essere stato proposto dal Sindaco in assenza della preventiva autorizzazione della Giunta comunale.

L’appellato replica poi all’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo, formulata dal Comune. A tal fine, richiama l’art. 104, primo comma, c.p.c. e sostiene che, anche ad ammettere un’interpretazione più restrittiva dei presupposti del ricorso cumulativo, questi sussisterebbero nel caso di specie, essendo identici l’Amministrazione emanante, gli atti impugnati, il destinatario, gli interessi implicati, la situazione riguardata e la prospettazione del ricorrente. Inoltre, l’azione a suo tempo proposta avrebbe sostanziale carattere di azione di accertamento, per la quale neppure sussisterebbero i limiti tipici del giudizio impugnatorio.

Nel merito, la parte privata contesta la ricostruzione dei fatti proposta dal Comune.

In ordine al capannone artigianale, questo sarebbe stato costruito sin dall’inizio (e comunque entro il 1966, anno indicato nella domanda di condono) in un luogo, con una destinazione d’uso e con materiali (chiaramente stabili e permanenti) diversi da quelli previsti dall’autorizzazione del 1964. Ne seguirebbe perciò la necessità della concessione edilizia e la possibilità di farne richiesta in sanatoria: l’interesse relativo non sarebbe escluso dalla mancata adozione di provvedimenti di riduzione in pristino o rimozione, che - sul presupposto del carattere provvisorio dell’autorizzazione - potrebbero sempre intervenire in futuro.

Dal canto suo, anche la c.d. tettoia avrebbe comportato una modifica duratura del territorio (l’appellato contesta l’affermazione del T.A.R. secondo cui l’opera sarebbe stata costruita in modo tale da poter essere facilmente rimossa) e sarebbe stata finalizzata a un uso niente affatto precario, cioè a sede stabile di attività ortofrutticola e vivaistica.

Infine, le autorizzazioni impugnate sarebbero illegittime anche per ragioni ulteriori, dedotte in primo grado e non prese in considerazione dal T.A.R.:

il Comune avrebbe adottato provvedimenti in difformità dalle istanze del privato, violando l’obbligo di pronunziarsi espressamente su di queste;

mancherebbe uno specifico riferimento alla normativa che si assumerebbe in contrasto con le domande di condono;

l’istruttoria svolta sarebbe viziata da contraddittorietà;

anche secondo la normativa regionale, i fabbricati in questione richiederebbero la concessione edilizia.

Nel replicare alle argomentazioni della parte privata, il Comune contesta anzitutto l’eccezione di inammissibilità del proprio appello, deciso dal dirigente di settore in conformità alle prescrizioni della normativa comunale e all’ispirazione di fondo della legge sull’ordinamento degli enti locali, secondo cui decisioni del genere, estranee all’indirizzo politico-amministrativo generale dell’Ente, apparterrebbero non ai soggetti politici, ma a quelli amministrativi.

L’Amministrazione ribadisce poi l’eccezione di inammissibilità dell’originario ricorso cumulativo.

Nel merito, quanto al capannone, l’appellante ripete le proprie tesi e considera inammissibili, in quanto nuove, alcune affermazioni della controparte (diversità dell’ubicazione e della destinazione d’uso del manufatto rispetto a quello autorizzato).

Riguardo alla tettoia, il Comune contesta l’ammissibilità della relazione tecnica depositata dal signor R per la prima volta in appello.

Sostiene poi che il condono non si applicherebbe a opere di carattere precario, che diverrebbero così durevoli;
ciò sarebbe particolarmente vero là dove - come nel caso del capannone - un titolo preesista.

Sarebbero poi infondate le altre censure. In particolare, la normativa regionale richiamata non sarebbe citata correttamente.

Con successiva memoria, la parte appellata insiste nel controbattere all’eccezione di inammissibilità del ricorso originario. Il codice di procedura civile, richiamato dall’art. 39 c.p.a., ammetterebbe il cumulo di domande connesse non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente. In concreto, sussisterebbero i presupposti richiesti dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato per dare ingresso al ricorso cumulativo.

All’udienza pubblica del 15 luglio 2014, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

DIRITTO

In via preliminare, occorre prendere in esame le eccezioni processuali che le parti reciprocamente si oppongono.

La società appellata contesta l’ammissibilità dell’appello, perché non preceduta da una conforme deliberazione della Giunta comunale.

L’eccezione non ha pregio.

In via ordinaria - ai sensi degli art. 35 e 36 della legge 8 giugno 1990, n. 142, poi trasfusi negli artt. 48 e 50 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 - la decisione di agire e resistere in giudizio e il conferimento al difensore del mandato alle liti spettano al rappresentante legale dell'ente (cioè al Sindaco), senza bisogno di autorizzazione della Giunta o del dirigente competente ratione materiae . All’autonomia statutaria (legittimata a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio) è però conservata la possibilità di prevedere l'autorizzazione della Giunta ovvero di richiedere una preventiva determinazione del dirigente ovvero ancora di postulare l'uno e l'altro intervento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 7 febbraio 2012, n. 650).

Tale è appunto il caso di specie, perché il Comune ha potuto dimostrare che - secondo la propria normativa (in particolare: l’art. 42, comma 5, dello statuto), non contestata e tanto meno impugnata - ferma restando la legale rappresentanza in giudizio dell’ente in capo al Sindaco, sono di competenza dei dirigenti le decisioni in materia di “promozione e resistenza alle liti di qualsiasi tipo”. Nessuna delibera di Giunta avrebbe dunque dovuto precedere la proposizione dell’appello.

Dal canto suo, l’Amministrazione rinnova un’eccezione già formulata in primo grado e disattesa dal T.A.R.: nella misura in cui avrebbe a oggetto situazioni bensì analoghe, ma sostanzialmente del tutto distinte, il ricorso introduttivo, proposto uno actu contro i due provvedimenti comunali di autorizzazione in precario, ricordati in narrativa, sarebbe inammissibile.

Tale eccezione è fondata.

Il codice di rito disciplina il cumulo delle domande all’art. 32, comma 1, e all’art. 43, comma 1;
si aggiunge l’art. 70, che vede però la vicenda dal punto di vista del giudice. Da una parte, dunque, manca nel codice del processo amministrativo quella lacuna che - ai sensi dell’art. 39, comma 1, c.p.a. - legittimerebbe il richiamo alle disposizioni del codice di procedura civile (come invece vorrebbe l’appellato nella memoria del 12 giugno scorso);
dall’altra, nulla - né nei lavori preparatori e tanto meno nel corpo normativo - indica che il legislatore abbia inteso in alcun modo modificare l’orientamento consolidato, secondo il quale nel processo amministrativo vale la regola, discendente da un’antica tradizione, per cui il ricorso deve essere diretto contro un solo provvedimento, salvo che tra gli atti impugnati esista una connessione procedimentale o funzionale tale da giustificare un unico giudizio.

A differenza che nel processo civile, in cui il cumulo delle domande può essere giustificato tanto da una connessione oggettiva, quanto da una connessione soggettiva, nel processo amministrativo impugnatorio di legittimità assume rilevanza soltanto la prima forma di connessione. La connessione soggettiva, al contrario, in base al ricordato indirizzo interpretativo, non consentirebbe l'impugnativa con un unico ricorso di provvedimenti diversi, a meno che sussista anche un collegamento oggettivo tra di essi. In altri termini, nel giudizio amministrativo occorre che le domande siano o contemporaneamente connesse dal punto di vista oggettivo e soggettivo, oppure semplicemente connesse dal punto di vista oggettivo.

La ragion d’essere delle linee ricostruttive del sistema, esposte nei termini ora riassunti, si fonda:

- sull'esigenza di evitare la confusione tra controversie diverse con conseguente aggravio dei tempi del processo;

- sulla necessità di impedire l'elusione delle disposizioni fiscali, atteso che con il ricorso cumulativo il ricorrente chiede più pronunce giurisdizionali provvedendo, però, una sola volta al pagamento dei relativi tributi.

Muovendosi all'interno delle sopra illustrate coordinate, la connessione oggettiva è stata tradizionalmente ravvisata dalla giurisprudenza:

- quando fra gli atti impugnati viene ravvisata quantomeno una connessione procedimentale di presupposizione giuridica o di carattere logico, in quanto i diversi atti incidono sulla medesima vicenda;

- quando le domande cumulativamente avanzate si basino sugli stessi presupposti di fatto o di diritto e siano riconducibili nell'ambito del medesimo rapporto o di un'unica sequenza procedimentale;

- quando sussistano elementi di connessione tali da legittimare la riunione dei ricorsi (cfr., per tutti, Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1564;
Id., sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8251;
Id., sez. V, 17 gennaio 2011, n. 202;
Id., sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6537).

Vero è che, nella giurisprudenza più recente, si colgono talvolta anche impostazioni più liberali, favorevoli - in omaggio a esigenze di giustizia sostanziale - a riconoscere più cospicuo margine di operatività al ricorso cumulativo (ma sempre, si badi, in situazioni particolarmente complesse - ad esempio in tema di disciplina del territorio e di tutela ambientale - che nel caso concreto non ricorrono affatto).

Basti però osservare che queste impostazioni ampliano l'ammissibilità dal ricorso cumulativo collegandola alla effettività di tutela dell'(unica) posizione sostanziale intercettata da più atti amministrativi lesivi (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36) per concludere che, nella vicenda controversa, non vi è alcun motivo per discostarsi dall’insegnamento tradizionale.

Certamente, le due vicende portate assieme al giudizio del T.A.R. presentano aspetti di analogia: si tratta pur sempre di provvedimenti che accordano autorizzazioni in precario in luogo delle concessioni in sanatoria richieste.

Ma, ciò detto, pare evidente che le situazioni sostanziali dedotte non hanno effettivamente nulla in comune.

Infatti:

- solo in uno dei due casi preesisteva un titolo edilizio;

- le opere interessate si trovano in aree diverse e distanti fra di loro, cui il P.R.G. imprime destinazioni diverse;

- differenti sono stati le istanze, le sequenze procedimentali, gli sviluppi istruttori.

- lo stesso Tribunale territoriale ha, in un caso, motivato sul carattere obiettivamente permanente dell’opera, mentre nell’altro ne ha valorizzato la destinazione funzionale, mettendone da parte la caratteristiche strutturali, al punto tale da accennare - in termini non del tutto nitidi e comunque non compiutamente sviluppati - anche a una possibile inammissibilità del ricorso in parte qua per difetto di interesse.

I provvedimenti comunali impugnati, in definitiva, meritavano di essere valutati caso per caso, alla luce delle particolarità della situazione di fatto su cui ciascuno di essi veniva a incidere. Essi, pertanto, avrebbero dovuto essere impugnati con separati ricorsi e non con un ricorso cumulativo che, per le ragioni ora dette, il Collegio ritiene inammissibile.

La tesi dell’appellato, secondo cui le regole prima riassunte varrebbero per il giudizio impugnatorio e non per quello di accertamento, quale sarebbe quello presente, è apodittica e contraddittoria in termini, giacché - come appare dalla sentenza - il ricorso originario risulta essere stato proposto per l’annullamento degli atti gravati.

Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello comunale è fondato e va dunque accolto, con annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.

Tuttavia, apprezzate le circostanze, le spese di entrambi i gradi di giudizio possono essere compensate fra le parti.

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