Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2017-12-22, n. 201706038

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2017-12-22, n. 201706038
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201706038
Data del deposito : 22 dicembre 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 22/12/2017

N. 06038/2017REG.PROV.COLL.

N. 02840/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2840 del 2017, proposto da:
G S, rappresentato e difeso dall'avvocato P M, domiciliato ex art. 25 c.p.a presso Segreteria Sezionale C.d.S in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;

contro

Q B, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Gen.Le Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZIONE I n. 00245/2017, resa tra le parti, concernente provvedimento di revoca permesso di soggiorno


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Q B;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 novembre 2017 il Cons. Umberto Realfonzo e uditi per le parti gli avvocati Francesco Saulle su delega di P M e l'Avvocato dello Stato Mario Antonio Scino;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il presente gravame l’appellante chiede la riforma della sentenza con cui è stato respinto il suo ricorso diretto all’annullamento del decreto del Questore di Brescia del 12.11.2014, di revoca del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo, in quanto il ricorrente risultava indagato dalla Procura della Repubblica di Brescia per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, intermediazione lavorativa illegale e false attestazioni.

Il giudice di primo grado, dopo aver disposto una tutela monitorata in pendenza del giudizio, diretta ad assicurare il venir meno della condotta del ricorrente, valutava accuratamente la pericolosità sociale del soggetto ricorrente alla stregua del suo diritto alla vita familiare e, infine, decideva di respingere il ricorso.

L’appello è affidato alla denuncia di un’articolata rubrica di gravame con cui si lamenta l’erroneità nel merito della decisione che ha confermato la legittimità del provvedimento di revoca, per violazione e falsa applicazione di legge degli artt. 4, comma 3, 5, comma 5 e 9, comma 4, del d.lgs. n. 286/1998.

L’amministrazione si è ritualmente costituita in giudizio.

Con ordinanza n.2503 del 16.6.2016 è stata accolta l’istanza di sospensione cautelare del provvedimento al solo fine i lasciare la res adhuc integra fino alla decisione di merito.

Chiamata all’udienza pubblica di discussione, la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

L’appello è infondato.

Sul piano formale si osserva che, l’appellante, erroneamente, pretenderebbe di capovolgere l’onere della prova addossando all’amministrazione l’obbligo di dimostrare l’effettivo svolgimento di una “nuova attività lavorativa regolare”.

Al contrario, l’ordinanza cautelare del Tar Brescia n. 771, del 12 maggio 2015, aveva specificamente posto tale obbligo a carico dell’interessato, ed in conseguenza egli avrebbe dovuto “ utilizzare questo prolungamento della permanenza per cercare di raggiungere un reale inserimento sociale lavorativo ”.

Di tale inserimento, in realtà, è mancata ogni prova.

Del tutto esattamente, dunque, la sentenza del giudice di prime cure ha sottolineato negativamente la mancata produzione da parte dell’interessato di una documentazione idonea a comprovare, successivamente alla ricordata pronuncia cautelare, l’effettivo inizio di una nuova attività lavorativa regolare da parte del ricorrente.

In questo quadro, anzi, il riferimento alla precedente attività della ditta dell’interessato, che era stato lo strumento con cui attuare le attività illecite addebitategli, costituisce la dimostrazione diretta del suo rifiuto a modificare i propri comportamenti antigiuridici e del venir meno dei requisiti per l’ingresso di cui all’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286/1998.

Nella fattispecie, l’impresa esercitata dalla parte ricorrente, denominata “Singh is King”, celava la realizzazione, in associazione con altri, di vaste attività illecite dirette a favorire l’immigrazione clandestina, al reclutamento ed allo sfruttamento di manodopera ed immigrati, compresi minori in età non lavorativa, che di conseguenza portavano il suo titolare a dichiarare al fisco guadagni estremamente elevati.

Il giudizio di pericolosità sociale, riferisce il suo momento giustificativo anche a comportamenti o situazioni non ancora concretizzati in fatti o circostanze tali da rappresentare addebiti più puntuali e specifici, ed ha, quindi, riferimento ad una valutazione indiziaria fondata su circostanze di portata generale e di significato tendenziale e su contesti significativi nel loro complesso.

Il Tar, in presenza di un siffatto quadro indiziario, contraddistinto da circostanze univoche di allarme sociale ed emergente dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari, condotte a carico dell’odierna parte appellante, con riguardo al caso di specie, ha applicato correttamente il disposto degli artt. 9, comma 4 e 5, comma 5, del d.lgs. n. 286/1990.

Nel caso in esame non si è legittimato alcun automatismo espulsivo, ma si è fatto luogo ad un'effettiva ponderazione comparativa tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'ordine nonché della sicurezza ed alla posizione ponderata dello straniero sulla base di indici di integrazione sociale, quali l'esistenza di legami familiari solidi, di un lavoro stabile, di un conseguente adeguato reddito, di una dimora fissa, e di tutte le numerose situazioni che comprovino un effettivo e pacifico radicamento sul territorio italiano in conformità alle regole fondamentali del nostro ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22 maggio 2017, n. 2382).

Tale valutazione negativa della situazione dell’appellante appare logicamente ancorata alle prolungate, gravi e riprovevoli condotte del ricorrente, finalizzate al reclutamento ed allo sfruttamento dei propri connazionali, attraverso intimidazioni, approfittamento dello stato di bisogno, rilascio di false dichiarazioni di emersione del lavoro irregolare ed altro.

In conseguenza, la sentenza impugnata appare del tutto esente dalle dedotte censure poiché la concreta e persistente pericolosità di un extracomunitario ha legittimamente indotto l'Amministrazione competente a respingere la sua istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto l'esistenza di vincoli familiari e la lunga permanenza sul territorio nazionale non possono prevalere sulle esigenze di sicurezza (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 10 aprile 2017, n. 1648).

Non potrebbe ritenersi così violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare, posto che l’espulsione di uno straniero non sempre comporta l'impossibilità di mantenere i legami con i figli affidati alla sola madre all’interno del paese da cui è disposta l’espulsione, ed inoltre, non rappresenta una chiara violazione dell'articolo 8 della CEDU quando “ necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui ”.

Inoltre, proprio la Corte di Strasburgo ha precisato in più di un’occasione che la presenza di familiari (inclusi i minori) non è sempre un elemento in grado di impedire l’espulsione (cfr. CEDU, Sez.I, 14 febbraio 2012, ricorso n. 26940/10), a maggior ragione se si accerta che la presenza di legami familiari non abbiano svolto un’ “efficace azione di deterrenza” (cfr. Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2013, n. 2309, id., 13 maggio 2012, n. 2576;
T.A.R. Liguria, 22 aprile 2016, n. 411;
T.A.R. Campania, Napoli, 16 gennaio 2015, n. 346;
T.A.R. Lombardia, Brescia, 18 aprile 2013, n. 375).

Pertanto, anche volendo inquadrare la fattispecie nell’ambito dei principi di cui alla sentenza della Gran Camera della Corte EDU, del 23 giugno 2008, “ex plurimis” ricorsi nn. 43517/09, 46882/09), appare dunque evidente che essa, a prescindere dalle conseguenze penali dei fatti emersi a partire dal 2008, porta a dover concludere come esattamente il Tar ha giudicato legittimo il giudizio della Questura con cui è stata ritenuta la sussistenza di una peculiare ed eccezionale situazione di pericolosità sociale per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato.

In definitiva, la sentenza appare esente sul piano logico giuridico dalle dedotte mende ed in conseguenza il ricorso deve quindi essere respinto.

Le spese possono tuttavia essere compensate tra le parti a causa della particolarità delle questioni esaminate.

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