Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2012-07-09, n. 201204007

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2012-07-09, n. 201204007
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201204007
Data del deposito : 9 luglio 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08369/2007 REG.RIC.

N. 04007/2012REG.PROV.COLL.

N. 08369/2007 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8369 del 2007, proposto da:
E M, rappresentata e difesa dall'avvocato F V, con domicilio eletto presso F V in Roma, via Giovanni Antonelli, 15;

contro

Università degli Studi di Lecce e Ministero dell’Università e della Ricerca, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso cui domiciliano per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE I n. 4511/2006, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio degli appellati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 maggio 2012 il Cons. Claudio Boccia e uditi per le parti l’avvocato Leozappa per delega dell’avvocato Vanni e l’avvocato dello Stato Lumetti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con D.M. in data 18 marzo 1983 la professoressa Margherita E veniva nominata, avendo superato il giudizio d’idoneità, professore universitario associato confermato per la lingua francese presso l’Università degli studi di Lecce.

Con Decreto Rettorale n. 1031 del 2 ottobre 1987 veniva disposto il suo inquadramento nella VI classe stipendiale, con decorrenza dal 10 marzo 1983 (data della sua effettiva assunzione in servizio), previo riconoscimento dei servizi pregressi, in applicazione dell’art. 103 del d.P.R. n. 382 del 1980.

Con istanza del 9 settembre 1997 al Rettore dell’Università di Lecce la professoressa E chiedeva che, ai sensi dell’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 382 del 1980, così come sostituito dell’art. 8 della legge 9 dicembre 1985, n. 705, le venisse attribuita, in base all’anzianità riconosciutale, la VII classe stipendiale, con conseguente ricostruzione di carriera e corresponsione degli arretrati.

Non avendo ottenuto alcuna risposta adiva, con ricorso notificato in data 14 luglio 1998, il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia al fine di ottenere il predetto riconoscimento economico.

Con Decreto Rettorale del 28 agosto 1998 n. 2129, in applicazione del principio di autotutela, l’Università di Lecce modificava il precedente Decreto Rettorale n. 1031 del 2 ottobre 1987, provvedendo ad inquadrare la professoressa E nella classe richiesta.

Con un ulteriore Decreto Rettorale del 5 marzo 1999 n. 481, l’Università annullava il precedente Decreto Rettorale n. 2129 del 1998, in considerazione di quanto disposto dall’art. 26 della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

Con il ricorso n. 1192 del 1999 la professoressa E si rivolgeva al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, per chiedere l’annullamento del richiamato decreto rettorale n. 481 del 1999.

Con la sentenza in epigrafe impugnata il ricorso veniva respinto dal Tribunale adito.

2. Avverso detta sentenza la professoressa E ha proposto appello (ricorso n. 8369 del 2007) chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi: I) Errore e vizio di motivazione della sentenza. Errore nella valutazione dei presupposti di fatto e di diritto ostativi al provvedimento di revoca. Violazione degli artt. 1372, 1965 e 1969 del cod. civ.;
II) Violazione dell’art. 26 della legge n. 448 del 1996. Motivazione illogica e contraddittoria. Errore nei presupposti di fatto e di diritto. Illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 448 del 1996 ove intesa come “interpretativa” per contrasto con gli artt. 3, 24, 36, 97 e 101 della Costituzione;
III) Violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990. Difetto assoluto di motivazione;
IV) Violazione degli artt. 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere per violazione del principio del giusto procedimento;
V) Violazione di legge. Eccesso di potere per erroneità dei presupposti in fatto e in diritto. Violazione del principio dell’efficacia della legge nel tempo;
VI) Violazione dell’art. 26 della legge n. 448 del 1998. Eccesso di potere per erroneità dei presupposti in fatto e in diritto. Violazione del diritto soggettivo agli stipendi previsti per legge. Violazione del principio del giusto indennizzo;
VII) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del D.M. n. 352 del 1998;
VIII) Illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 448 del 1998 per disparità di trattamento.

L’appellante ha, altresì, depositato in data 13 aprile 2012 una memoria, ex art. 73, comma 1, cod. proc. amm., nella quale sono state ulteriormente precisate e motivate le censure contenute nel ricorso in appello.

3. Con il primo motivo l’appellante deduce che ha errato il giudice di prime cure nel non ritenere che il Decreto Rettorale del 28 agosto 1998, n. 2129 (con il quale era stata accolta la richiesta d’inquadramento dalla medesima avanzata) avesse natura transattiva e che quindi fosse sostanzialmente immodificabile nonostante “il successivo orientamento giurisprudenziale e quello interpretativo ex lege 448/98”. Il decreto rettorale, infatti, era stato emanato dall’Università “al fine evitare le conseguenze di giudizi in cui l’Amministrazione sarebbe [stata] certamente soccombente” ed aveva, pur in assenza dello specifico nomen juris , tutte le caratteristiche di un atto transattivo di cui all’art. 1965 del cod. civ., avendo l’Amministrazione rinunciato all’inquadramento originariamente effettuato dell’interessata ed avendo quest’ultima rinunciato all’azione proposta nei confronti dell’Università di Lecce.

Aggiunge l’appellante che la sentenza del giudice di prime cure sarebbe errata anche laddove sostiene che gli accordi transattivi sarebbero nulli in quanto, con l’entrata in vigore dell’art. 31 del d.Lgs. 31 marzo 1998 n. 80, trasfuso nell’art. 65 del d.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (poi abrogato dall’art. 31, comma 9, della legge 4 novembre 2010, n. 183), anche nel pubblico impiego è stato introdotto il principio del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, senza distinzione alcuna relativamente alla materia oggetto del contendere.

Inoltre, a giudizio dell’appellante, la sentenza del giudice di primo grado, disconoscendo il carattere transattivo del decreto rettorale n. 2129 del 1998, non avrebbe tenuto conto neanche del fatto che tale decreto rappresentava il risultato di un complesso iter procedimentale nel corso del quale lo stesso rettore aveva concordato il contenuto dell’atto interloquendo direttamente con l’interessata;
che, a seguito di tale provvedimento, era cessato il contenzioso in atto, ciò che peraltro rientrava fra le finalità per cui il decreto era stato emanato;
che il provvedimento di revoca dei benefici riconosciuti alla professoressa E si era tradotto in un atto contrario ai principi di buona fede e correttezza negoziale nonché di imparzialità, proporzionalità e buon andamento dell’Amministrazione;
che, infine, gli emolumenti percepiti dalla professoressa E, a seguito della ricostruzione della sua posizione giuridico-economica, non potevano esserle richiesti, avendoli la medesima percepiti nella convinzione che le spettassero di diritto.

3.1. Osserva il Collegio che - a parte ogni considerazione sulla circostanza che il relativo motivo non risulta svolto con il ricorso di primo grado - al Decreto Rettorale n. 2129 del 1998 non può essere attribuita natura transattiva perché emanato, come si evince dalla sua lettura testuale, in base al principio di autotutela, al precipuo fine di evitare “le conseguenze di giudizi in cui l’Amministrazione sarebbe (stata) certamente soccombente”. Ciò data la giurisprudenza del Consiglio di Stato (risalente agli inizi degli anni ’90) che si era formata in ambito di applicazione dell’art. 37 del d.P.R. n. 382 del 1980, come modificato dall’art. 8 della legge n. 705 del 1985;
giurisprudenza la quale riconosceva il diritto all’inquadramento dei professori associati, esonerati dal giudizio di conferma, nella seconda classe stipendiale, intesa in senso assoluto anziché nella seconda classe dopo quella iniziale considerata come classe zero.

Successivamente l’art. 26 della legge n. 448 del 1998, dal titolo “norme di interpretazione autentica, di utilizzazione del personale scolastico e trattamento di fine rapporto”, ha chiarito come doveva essere interpretato l’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 382 del 1980, in base al quale l’Università di Lecce aveva disposto in autotutela l’inquadramento della professoressa E, imponendo alla medesima Università di rivedere tale inquadramento in quanto non conforme al disposto in esso contenuto.

Quanto sopraesposto trova conferma anche in recenti indirizzi giurisprudenziali della sezione, secondo cui “il trattamento di attività dei pubblici dipendenti riceve disciplina da disposizioni di legge e non da atti di autonomia negoziale dell’Amministrazione;
al mutamento delle norme che regolano il rapporto di impiego segue l’obbligo dell’amministrazione di darvi attuazione, anche con determinazioni modificative di propri precedenti provvedimenti ove, per la continuità degli effetti, essi si pongano in contrasto con il nuovo quadro normativo. In tali ipotesi l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio dell’illegittimo inquadramento è in re ipsa e non richiede specifica motivazione, in quanto l’atto oggetto di autotutela produce un danno per l’Amministrazione consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo, con vantaggio ingiustificato per il dipendente” (Cons. di Stato, Sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8215 e Sez. V, 22 marzo 2010, n. 1672).

Né può ritenersi che il D.R. de quo “si sostanzi(a) ineludibilmente in un accordo raggiunto fra l’appellante e l’Università degli studi di Lecce”, essendo prevista in base alla vigente normativa anche per le controversie in materia di pubblico impiego la possibilità di ricorrere al tentativo di conciliazione.

Prescindendo dalla considerazione che da quanto emerso nel corso della causa non risulta che tale “accordo” abbia avuto luogo con le modalità previste dalle norme in vigore per il tentativo di conciliazione, il Collegio osserva, conformandosi, anche in questo caso, all’orientamento giurisprudenziale della sezione, che la transazione “non può riguardare lo stato giuridico del dipendente e gli avanzamenti di carriera, in quanto determinati per legge,…può invece essere conclusa dall’amministrazione col proprio dipendente quando abbia per oggetto il diritto soggettivo alla retribuzione, con riferimento agli emolumenti che nel frattempo siano maturati a titolo di arretrati o risultino comunque dovuti in base ad una decisione resa in sede di giustizia amministrativa, anche di primo grado…. Infatti in sede di esecuzione di tale decisione (sia essa divenuta immutabile o meno), l’amministrazione ben può concludere una transazione, che giunga ad un accordo sul quantum dovuto, che ponga fine al contenzioso e comporti il rapido pagamento dell’importo concordato” (Cons. di Stato, Sez.VI, 24 gennaio 2005, n. 107).

Per quanto sin qui esposto, il Collegio ritiene che le censure contenute nel motivo di appello in esame non siano da condividere e che, pertanto, correttamente il giudice di primo grado abbia rilevato che “l’intervento della p.a. aveva carattere solo unilaterale ed allo stesso la parte prestava, nella sostanza, una mera adesione, tale da non determinare alcun vincolo per la controparte”.

Quanto alla disposta (da parte dell’Università) restituzione delle somme erogate, essa è conseguente all’emanazione dell’impugnato provvedimento di annullamento in autotutela, dato che l’affidamento incolpevole dell’interessata può comportare solo la rateizzazione ma non impedisce la restituzione dell’indebito.

4. Con il secondo motivo l’appellante censura la mancata delibazione, da parte del giudice di primo grado, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, commi 1 e 2, della legge n. 448 del 1998 per contrasto con gli articoli 3, 23, 36, 97 e 101 della Costituzione, trattandosi di norma innovativa e non interpretativa poiché introduce una sostanziale riorganizzazione del sistema mediante l’abbinamento della figura del professore straordinario con quella dell’associato in attesa di conferma.

4.1. Il Collegio ritiene che l’art. 26, commi 1 e 2, della legge n. 448 del 1998 comporti non un mutamento di regime normativo ma solo una interpretazione autentica delle norme di cui agli artt. 36 e 37 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, volta a chiarire definitivamente il contrasto registratosi nella materia de qua fra l’applicazione di tali norme posta in essere dall’Amministrazione e le varie pronunce giurisdizionali di segno opposto che sulle medesime norme hanno avuto luogo nel corso degli anni. Si tratta in altri termini di un intervento chiarificatore e non innovatore della normativa de qua , per quanto sopradetto necessario, volto a precisare, con effetto retroattivo proprio al fine di evitare situazioni di disparità di trattamento, la posizione economica da attribuire ai soggetti di cui agli artt. 36 e 37 del citato d.P.R..

In particolare, l’intervento ermeneutico del legislatore - di cui all’art. 26, commi 1 e 2, della legge n. 448 del 1998 - lungi dall’essere incompatibile con il significato delle norme di cui agli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 382 del 1980, si pone sulla stessa linea di quello realizzato con l’art. 8 della legge n. 705 del 1985 (di sostituzione del comma 3 del citato art. 37), con il quale era stato introdotto un chiarimento normativo per l’intera vicenda delle classi stipendiali;
chiarimento non accolto dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato risalente ai primi anni ’90.

In base a queste precisazioni il Collegio ritiene che la censura d’incostituzionalità rivolta all’art. 26 della legge n. 448 del 1998 sia priva di fondamento e che pertanto tale norma, con i suoi effetti retroattivi, possa essere applicata per disciplinare la vicenda che coinvolge la professoressa E.

5. Con il terzo e quarto motivo l’appellante lamenta il difetto di motivazione del provvedimento n. 481 del 1999 di revoca dei benefici concessi alla professoressa E, nonché il fatto che il medesimo sia stato emanato contravvenendo all’obbligo di dare preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento.

In proposito il Collegio osserva che la motivazione con cui l’Università di Lecce ha provveduto ad emanare il provvedimento di revoca è contenuta nello stesso provvedimento nella parte in cui si fa riferimento all’art. 26 della legge n. 448 del 1998, che reca una interpretazione autentica degli artt. 36 e 37 del D.P.R. n. 382 del 1980 (norme assunte a base del provvedimento n. 2129 del 1998), e, conseguentemente, ritiene necessario annullare i decreti direttoriali alla luce dell’interpretazione delle disposizioni del D.P.R. n. 382 del 1980 fornita dall’art. 26 della legge n. 448 del 1998 (Cons. di Stato, Sez.VI, 24 novembre 2010, n. 8215).

Per ciò che concerne la seconda censura il Collegio ricorda che l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 consente di non dare comunicazione dell’avvio del procedimento quando il provvedimento che da esso consegue non può avere natura diversa da quella dell’atto emanato. Fattispecie che ben si adatta alla circostanza oggetto della presente causa nella quale l’Amministrazione, anche osservando la regola di partecipazione, per quanto sin qui detto non avrebbe potuto porre in essere altro comportamento se non quello di annullare il provvedimento in contrasto con la predetta norma di interpretazione autentica.

6. Per quanto riguarda il quinto motivo relativo all’illegittimità della pretesa dell’Amministrazione di ottenere la restituzione delle somme relative alle differenze retributive percepite dalla professoressa E, rinviando a quanto già detto al precedente n. 3, il Collegio rileva, uniformandosi agli orientamenti giurisprudenziali della sezione, che la ripetizione di somme erogate in eccedenza si configura come atto dovuto ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., salvo il limite della prescrizione e della rateizzazione, onde non incidere per condizioni di onerosità sulle esigenze di vita dell’interessato e non richiede una puntuale motivazione sulle ragioni d’interesse pubblico del recupero (Cons. di Stato, Sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8215).

7. Con il sesto motivo l’appellante rileva che la professoressa E era stata inquadrata correttamente in base alle norme in vigore al momento in cui tale procedura era stata posta in essere e che, pertanto, non è possibile richiedere alla medesima la restituzione delle somme percepite poiché queste ultime non sono state erroneamente percepite in quanto corrisposte in base ad un corretto inquadramento dell’appellante avvenuto tramite l’applicazione delle norme al momento in vigore.

Anche per tale censura non può che farsi rinvio ai precedenti nn. 3 e 6.

Va ribadito, come avvalorato dalla norma di interpretazione prima richiamata e, da ultimo, da Cons. Stato, sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8215, che la mancanza di numerazione del trattamento economico iniziale (stipendio base, c.d. classe "zero") non impedisce di considerarla sostanzialmente (in assoluto) prima classe;
sicché quella che formalmente viene denominata "prima classe" sarà necessariamente la seconda classe (in assoluto) (Cfr. Sez. VI, 1 ottobre 2009, n. 5903;
3 aprile 2008, n. 1379;
19 luglio 2006, n. 4586;
9 giugno 2005, n. 3005;
30 marzo 2004, n. 1705;
30 ottobre 2001, n. 5679;
9 dicembre 2003, n. 8084).

Inoltre, la ripetizione di somme pur percepite in buona fede è un atto dovuto, costituendo il relativo esborso comunque un danno per l’Amministrazione.

Quanto alla pretesa all’indennizzo previsto dall’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990 essa è infondata, dato che la norma si riferisce alla “revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea” mentre, nella specie, il provvedimento impugnato in primo grado è un atto di annullamento emesso ai sensi dell’art. 21-octies della medesima legge.

8. Con il settimo motivo l’appellante rileva che, non essendo gli insegnanti ricompresi nelle categorie di cui al D.M. n. 352 del 1998, dai medesimi non può essere preteso il pagamento degli interessi sulle somme corrisposte.

Anche questo motivo è privo di pregio poiché, come si evince dal titolo e dall’art. 1 del citato decreto ministeriale, le norme in esso contenute si applicano ai dipendenti pubblici in servizio ed in quiescenza e quindi anche alla professoressa E.

9. Con il nono e ultimo motivo viene sollevata la questione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 448 del 1998 con riferimento all’art. 3 della Costituzione.

Rinviando a quanto detto al precedente n. 4, in questa sede è opportuno precisare che anche tale doglianza è priva di pregio poiché l’illogica applicazione di trattamenti economici differenziati lamentata dall’appellante deriverebbe non dal dato normativo in sé, che non differenzia né discrimina le posizioni dei professori associati di esso destinatari, ma da “un’ipotizzata prassi applicativa non uniforme in tutti gli atenei, da cui può discendere solo una possibile responsabilità contabile e amministrativa degli organi di amministrazione che non abbiano assicurato la corretta applicazione della censurata disposizione” (in tal senso Cons. di Stato, Sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8215).

10. Per quanto fin qui detto il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.

11. In relazione ai profili giuridici della causa le spese della presente fase di giudizio possono essere compensate fra le parti.

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