Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2011-07-04, n. 201103963

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2011-07-04, n. 201103963
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201103963
Data del deposito : 4 luglio 2011
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05774/2006 REG.RIC.

N. 03963/2011REG.PROV.COLL.

N. 05774/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5774 del 2006, proposto dal Ministero dell'interno, in persona del Ministro p.t., e dal Capo della Polizia di Stato, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio per legge presso la sede della stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

sig. C A, rappresentato e difeso dagli avv. F L e P M L, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via del Viminale, 43;

per la riforma della sentenza del T.A.R. TOSCANA, sezione seconda n. 2211 del 2005;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 maggio 2011 il consigliere. B R P e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Nicoli e l’avv. Meloni, per delega dell’ avv Lorenzoni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1). Con ricorso proposto al T.A.R. per la Toscana, l’agente scelto della Polizia di Stato Agostino C impugnava i seguenti provvedimenti emessi nei suo confronti in applicazione del regolamento di disciplina;

- provvedimento del Capo della Polizia di Stato in data 10 giugno 2002, di irrogazione, in conformità alla deliberazione del Consiglio provinciale di disciplina istituito presso la Questura di Firenze in data 4 aprile 2002, della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per la durata di mesi sei;

- determinazione del Dirigente della Sezione della Polizia Stradale di Grosseto in data 26 giugno 2002, con la quale si è data applicazione alla sospensione dal servizio;

- ogni altro atto del procedimento disciplinare conclusosi con la sanzione della sospensione dal servizio.

Con la sentenza n. 2211 del 2005, il T.A.R. adito accoglieva il ricorso.

Il primo giudice, in particolare, riconosceva, ai sensi dell’art. 120 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, l’estinzione del procedimento disciplinare per inattività protrattasi per la durata di novanta giorni sul rilievo che l’amministrazione aveva disposto, con atto del 21 dicembre 2001, l’annullamento di tutti gli atti del procedimento a partire dalla trattazione orale, avvenuta il 26 settembre 2001.

Il nuovo atto di impulso procedimentale (nota del Questore di Firenze in data 13 febbraio 2002, recante la richiesta di notizie alla Procura della Repubblica del tribunale di Siena circa lo stato del procedimento penale che vedeva coinvolto l’inquisito per fatti oggetto dell’inchiesta disciplinare) risultava, quindi, emesso oltre il lasso temporale di 90 giorni, rispetto all’ultimo atto di esercizio dell’azione disciplinare non oggetto di annullamento, risalente alla riunione del Consiglio di disciplina del 13 settembre 2001 con la convocazione dell’inquisito per la trattazione orale, verificandosi pertanto l’effetto di estinzione del procedimento secondo quanto previsto dall’art. 120 del d.P.R. n. 3 del 1957, prima richiamato.

Avverso detta sentenza ha proposto appello il Ministero dell’interno, sostenendo la valenza interruttiva di ogni inerzia procedimentale dell’atto di autotutela, volto al presidio della legalità e del buon andamento dell’azione amministrativa, con la conseguenza che il dies a quo del termine di 90 giorni va fatto decorrere dalla data di adozione dell’annullamento d’ufficio e non, come ritenuto dal T.A.R., dall’ultimo atto del procedimento disciplinare non inciso dall’annullamento.

Il sig. C si è costituito in giudizio ed ha insistito all’udienza di trattazione per la reiezione dell’appello, reiterando, con dichiarazione assunta a verbale, i motivi di impugnativa non esaminati per assorbimento dal giudice di primo grado.

2). Il Ministero appellante fondatamente contesta la statuizione del T.A.R. che ha negato la riconducibilità all’esercizio della potestà disciplinare della determinazione del Capo della Polizia di annullamento di precedenti atti del procedimento, riconosciuti viziati sotto il profilo del difetto di istruttoria.

Osserva il Collegio che il riesame in via di autotutela della legittimità di precedenti provvedimenti è finalizzato a garantire, con l’adozione del contrarius actus , i principi di legalità, efficacia, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. L’attività di riesame si colloca, in via speculare, all’interno dello stesso potere nel cui esercizio è stato emesso l’atto che si riconosce affetto da vizi di legittimità.

Il decreto adottato dal Capo della Polizia del 22 dicembre 2001 costituisce anch’esso esercizio della potestà disciplinare, ancorché nei limiti della verifica della legittimità delle fasi pregresse del procedimento;
come tale costituisce atto impeditivo dell’effetto di perenzione per inattività per il periodo di 90 giorni previsto dall’art. 120 del t.u. n. 3 del 1957, ove si consideri che alla statuizione di annullamento ha fatto seguito il contestuale impulso nei confronti della Commissione provinciale di disciplina a procedere alla rinnovazione degli atti dell’inchiesta disciplinare a partire dalla fase di trattazione orale.

Il decreto di annullamento del 21 dicembre 2001 esplica, quindi, effetto interruttivo del termine di perenzione, risultando emesso in data 26 settembre 2001 l’ultimo atto del procedimento disciplinare (delibera del Consiglio provinciale disciplina di irrogazione della sanzione della sospensione della qualifica per la durata di mesi sei).

2.1). Diversamente da quanto ritenuto dal T.A.R., non possono considerarsi tamquam non essent gli atti del procedimento disciplinare incisi dall’annullamento d’ufficio, così che agli effetti del computo del termine di perenzione per inattività debba risalirsi all’ultimo atto non oggetto di ritiro.

Sul piano funzionale, in base al principio tempus regit actum, resta, infatti, fermo l’impulso procedimentale di ogni atto pregresso, con il connesso effetto impeditivo della prescrizione dell’azione disciplinare.

3). All’udienza di trattazione il difensore dell’appellato ha riproposto con dichiarazione assunta a verbale i motivi dedotti in primo grado e non esaminati dal T.A.R. per assorbimento.

Osserva la Sezione che il loro esame debba avere luogo in questa sede, poiché l’appello è stato proposto prima dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo.

3.1). Diversamente da quanto dedotto dal ricorrente originario con l’atto introduttivo del giudizio, il procedimento disciplinare non si è estinto per inattività nel periodo che va dall’atto di contestazione degli addebiti notificato il 7 maggio 2001 e la convocazione della Commissione provinciale di disciplina, avvenuta il 13 settembre 2001, perché nel periodo intermedio con atto del 27 giugno 2001 il funzionario istruttore aveva rassegnato al Questore le proprie conclusioni.

Si tratta di un adempimento espressamente previsto dall’art. 19, comma sesto, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, nel procedimento per l’irrogazione della sanzione della sospensione dal servizio o della destituzione, cui segue l’effetto interruttivo del termine di perenzione invocato dal ricorrente.

3.2). Ad analoga conclusione deve pervenirsi per il periodo che va dal 21 dicembre 2001 (data di adozione del provvedimento del Capo della Polizia di annullamento di ufficio di precedenti atti del procedimento disciplinare) e la convocazione del Consiglio provinciale di disciplina del 22 marzo 2002.

Tale ultimo atto è stato, infatti, preceduto dalla nota istruttoria della Questura di Firenze del 13 febbraio 2002, diretta ad acquisire notizie sulla stato del procedimento penale che vedeva coinvolto il ricorrente, restando anche in questo caso esclusa l’estinzione del procedimento per inattività.

3.3). Anche con riguardo alla prima fase del procedimento disciplinare, poi annullata con decreto del Capo della Polizia 4 settembre 2000, non si è verificata l’estinzione del procedimento nel periodo che va dal 7 aprile 2000 (data di adozione del primo decreto di annullamento) e il 2 settembre 2000 (data di contestazione degli addebiti).

Nel periodo intermedio con atto del Questore del 22 giugno 2000 è stata disposta la nomina del funzionario istruttore nella persona del dott. Sergio Vannini, poi sostituito nell’incarico dal dott. Giorgio Grassi con determinazione del 13 luglio 2000. Si tratta di atto che, nella sua scansione temporale e nel suo apporto funzionale all’interno del procedimento disciplinare, è specificatamente previsto dall’art. 19, secondo comma, del d.P.R. n. 737 del 1981 ed esplica, quindi, effetto impeditivo dell’invocata estinzione del procedimento.

3.4). L’appellato - sempre a sostegno dell’illegittimità dell’atto finale di irrogazione della sanzione della sospensione dal servizio per l’indebita protrazione nel tempo del procedimento disciplinare – in primo grado ha qualificato, inoltre, come perentori il termine di 45 giorni, stabilito dall'art. 19, comma 5, del d.P.R. n. 737 del 1981, per la definizione dell’inchiesta disciplinare, ed il termine di 10 giorni, fissato dall’art. 21, comma terzo ( recte quarto), del d.P.R. predetto, per la comunicazione del decreto emesso dal Capo della Polizia a conclusione del procedimento..

Va al riguardo ribadito l’indirizzo della giurisprudenza che, nell’ambito del procedimento disciplinare, qualifica come perentori i soli termini posti a garanzia dei diritti di difesa dell’inquisito, quali quelli inerenti alla presentazione delle giustificazioni, alla presa visione degli atti dell’inchiesta, al preavviso di convocazione avanti alla commissione di disciplina. I restanti termini assolvono funzione ordinatoria quanto alle cadenze temporali del procedimento e la loro inosservanza non esplica effetto invalidante dall’atto che irroga la sanzione disciplinare (cfr. A.P. n. 4 del 25 gennaio 2000;
Sez. VI^, n. 80 del 17 gennaio 2008).

Ha, quindi, carattere ordinatorio e non perentorio il termine di 45 giorni per la conclusione dell'inchiesta disciplinare, che per la complessità dell’istruttoria può richiedere tempi eccedenti la durata ritenuta dalla norma regolamentare in via generale congrua per la sua definizione (cfr. A.P. n. 10 del 27 giugno 2006;
Sez. VI^, n. 2506 del 3 maggio 2010).

Ad analoga conclusione deve pervenirsi quanto al termine di 10 giorni per la comunicazione del decreto del Capo della Polizia. Il suo superamento non esplica alcun effetto invalidante la sanzione disciplinare, anche alla luce del noto principio in base al quale asseriti vizi afferenti agli adempimenti di comunicazione dell’atto amministrativo non esplicano effetto viziante del provvedimento di cui è data partecipazione all’interessato.

3.5). L’interessato lamenta, inoltre, che - malgrado la pendenza di procedimento penale per i medesimi fatti per i quali è stata avviata l’azione disciplinare - in violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 737 del 1981 non è stata la sospensione del procedimento conclusosi con la sanzione impugnata.

Sulla questione se il procedimento disciplinare non possa essere iniziato o, se iniziato, vada sospeso, solo dopo l'esercizio dell'azione penale, o anche in pendenza delle indagini preliminari, si è pronunciata l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato (A.P n. 1 del 29 gennaio 2009), che ha interpretato l'art. 11 del d.P.R. n. 737 del 1981 in combinato disposto con l'art. 117 del t.u. n. 3 del 1957, concludendo che il dovere dell'Amministrazione di non dare inizio al procedimento disciplinare o di sospendere il procedimento già avviato sorge solo nel momento in cui viene esercitata l'azione penale (con gli atti tipizzati dal vigente c.p.p. cui segue l’assunzione della qualità di imputato), anche quando i fatti suscettibili in astratto di costituire un reato sono stati rilevati e denunciati all'autorità giudiziaria ad iniziativa della stessa amministrazione di appartenenza dell’inquisito.

L’esercizio dell’azione penale si realizza, quindi, ai sensi degli artt. 60 e 405 del c.p.p., con la richiesta del pubblico ministero del rinvio a giudizio a norma dell’art. 406 o con gli altri atti con il quali si formula richiesta al giudice di decidere sulla pretesa punitiva.

Con riguardo alla fattispecie di cui è causa, prima della conclusione del procedimento disciplinare il sig. C non ha assunto la qualità di imputato, in virtù di atti di esercizio dell’azione penale secondo le modalità previste dall’art. 60 c.p.p. - essendo in corso in sede penale la fase delle di indagini preliminari dopo il rigetto da parte del g.i.p., ai sensi dell’art. 409, comma secondo, c.p.p., delle richiesta di archiviazione per i fatti denunziati – e non sussistevano, quindi, gli estremi per la sospensione del procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. n. 737 del 1981, secondo l’interpretazione di cui all’ A.P. n. 1 del 2009.

3.6). L’interessato deduce, inoltre, che la commissione di disciplina, dopo il decreto di annullamento del Capo della Polizia del 21 dicembre 2001, non ha effettuato un supplemento di istruttoria, in adempimento di quanto stabilito nel decreto medesimo.

Osserva il Collegio che la Commissione di disciplina ha provveduto, in riedizione delle fasi del procedimento oggetto di annullamento, al riesame delle acquisizioni istruttorie, in contraddittorio e con audizione dell’incolpato, pervenendo alla conclusione “ che un eventuale supplemento istruttorio non comporterebbe l’acquisizione di ulteriori elementi di giudizio ”.

Si tratta di una valutazione di merito (peraltro del tutto ragionevole) che si riconduce all’ordinaria sfera di discrezionalità dell’organo chiamato a provvedere circa la sufficienza dei mezzi istruttori. Essa non si pone in contrasto con quanto sollecitato dal Capo della Polizia, le cui valutazioni operano su un piano strettamente propulsivo e non si sostituiscono alla sfera di poteri deliberativi assegnati al consiglio di disciplina dall’art. 21 del d.P.R. n. 737 del 1981, che si caratterizzano per autonomia sia nel momento decisorio in ordine alla sussistenza o meno degli estremi di responsabilità, sia in sede di valutazione dell’adeguatezza e congruità dei mezzi istruttori ai fini dell’esercizio dell’azione disciplinare.

3.7). Con un ultimo ordine argomentativo il ricorrente nega la sussistenza dei presupposti per l’assoggettamento alla sanzione della sospensione dal servizio per l’ipotesi prevista dall’ art. 4, n. 18 , del d.P.R. n. 737 del 1981, cui rinvia l’art. 6, n. 1, del d.P.R. medesimo.

Il richiamato art 4, n. 18, prende in considerazione, agli effetti della responsabilità disciplinare, “ qualsiasi altro comportamento anche fuori servizio (anche se non espressamente qualificato come illecito disciplinare) comunque non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza ”.

Osserva il collegio che la regola del codice di disciplina determina una proiezione nell’ambito della vita sociale e di relazione della peculiare posizione di status rivestita dall’appartenente ai ruoli della Polizia di Stato.

L’appartenenza al corpo di polizia impone di uniformare la propria condotta, anche al di fuori servizio, ad uno stile di vita che sia irreprensibile quanto al decoro, all’immagine offerta ai consociati, all’osservanza dei valori ordinariamente percepiti dalla comunità sociale.

Spetta alla valutazione di merito dell’ Amministrazione la determinazione della soglia oltre le quale una specifica condotta, al di fuori del servizio, possa configurarsi non conforme alle funzioni dell’appartenente al corpo di polizia.

Il giudizio di riprovevolezza, cui segue l’esercizio dell’azione disciplinare, è pertanto suscettibile di solo sindacato esterno, nei limiti del vizio di eccesso di potere nei profili dell’ insussistenza dei presupposti del provvedere, della ragionevolezza e della proporzionalità della misura adotta.

Nella specie, avuto riguardo agli addebiti ascritti (riguardanti, in particolare, l’essersi appartato con una collega durante il turno di vigilanza al corpo di guardia e in un’altra particolare situazione), e poiché non vengono in rilievo giudizi morali sulla vita privata del dipendente, ma i soli riflessi esterni di una specifica condotta nei profili pregiudizievoli del decoro e dell’immagine dell’appartenente al corpo di polizia, ritiene la Sezione che il provvedimento disciplinare impugnato in primo grado non si configuri né irragionevole, né sproporzionato.

4) Per le considerazioni che precedono, l’appello va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il ricorso di primo grado.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in favore del Ministero dell’interno in euro 2000,00 (duemila/00) per i due gradi di giudizio,

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi