Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2024-05-14, n. 202404288

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2024-05-14, n. 202404288
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202404288
Data del deposito : 14 maggio 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 14/05/2024

N. 04288/2024REG.PROV.COLL.

N. 04589/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4589 del 2022, proposto da
Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni - Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

Soc. Rete Sette Spa, A A D T, non costituiti in giudizio;
Rete Sette S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati O G, D M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio O G in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 87;

nei confronti

Comitato Regionale per le Comunicazioni presso il Consiglio Regionale del Piemonte, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Quarta) n. 2391/2022, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Rete Sette S.p.A.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Alfonso Peluso e l’avvocato O G;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per il Lazio l’odierna appellata invocava l’annullamento ella delibera n. 128/15/CSP, adottata dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il 28/7/2015 ma comunicata al ricorrente il successivo 3 agosto 2015, recante ordinanza-ingiunzione alla società Rete 7 s.p.a. per la violazione della disposizione contenuta nell’art.

5-bis, comma 3, della delibera n. 538/01/CSP.

2. Il primo giudice, anche sulla scorta della sentenza del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17) della Corte di Giustizia, valutava come fondato il secondo motivo del ricorso introduttivo con il quale veniva evidenziato il difetto di competenza dell’odierna appellante e, per l’effetto, annullava l’ordinanza impugnata assorbendo l’esame degli altri motivi di ricorso. Il TAR evidenziava che la condotta sanzionata con il provvedimento impugnato consisteva nell’omissione, durante la televendita, dell’indicazione del prezzo del prodotto offerto. Tale condotta costituiva una pratica commerciale scorretta ai sensi dell’art. 22, comma 1 e comma 4, D.lgs. 206/2005. Il giudice di prime cure sottolineava come la ripartizione delle competenze tra l’AGCom e l’AGCM, in materia di repressione delle pratiche commerciali scorrette, fosse disciplinata dall’art. 19, comma 3, del Codice del consumo secondo il quale: «in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette» prevalgono sulle disposizioni di disciplina delle pratiche commerciali scorrette «e si applicano a tali aspetti specifici». Inoltre, l’art. 27, comma 1-bis, introdotto dal decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 21, disponeva quanto segue: i) «anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (...), acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente»;
ii) «resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta»;
iii) «le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze». La regola generale era, pertanto, che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza è dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, mentre la competenza delle altre autorità di settore è residuale e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili. Da qui il radicarsi della competenza in capo all’AGCM, atteso che l’art. 5 bis, comma 3, della delibera 538/01/CSP, la cui violazione era stata sanzionata dall’AGCom con il provvedimento impugnato, prevedeva che “3. L’offerta deve essere chiara, accurata e completa quanto ai suoi principali elementi quali il prezzo, le garanzie, i servizi post-vendita e le modalità della fornitura o della prestazione. L’offerta deve altresì rispettare gli obblighi informativi in materia di diritto di recesso di cui al decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, e successive modifiche”. Tale disposizione, imponendo l’indicazione chiara, accurata e completa del prezzo, non presentava, alcun profilo di incompatibilità con le disposizioni sopra citate in materia di pratiche commerciali scorrette, che sanzionavano l’omissione di informazioni rilevanti, tra cui rientrava anche il prezzo, necessarie affinché il consumatore adottasse una scelta consapevole.

3. Avverso la pronuncia indicata in epigrafe propone appello l’AGCom, che ne lamenta l’erroneità in quanto nella pronuncia del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17), la Corte di Giustizia avrebbe precisato la portata del principio di specialità di cui all’art. 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29 in materia di Pratiche Commerciali Sleali (di seguito “Direttiva PCS”), trasposto in Italia dall'art. 19, comma 3, del Codice del consumo, con riferimento alle - sole - pratiche considerate in ogni caso aggressive e alla specifica ipotesi di possibile contrasto tra la disciplina generalista sulle pratiche commerciali sleali e la disciplina del settore delle comunicazioni elettroniche a tutela degli utenti-consumatori. La sentenza della Corte non offrirebbe, pertanto, una risposta valida per tutti i tipi di condotte astrattamente qualificabili come pratiche commerciali sleali e per tutti i settori regolati o comunque per i settori diversi da quello delle comunicazioni elettroniche. In definitiva, la sentenza della Corte di Giustizia non affronterebbe in termini generali la questione del rapporto tra la disciplina generale delle pratiche commerciali sleali e una disciplina relativa ad un settore regolato, ed in particolare il caso di concorso apparente di norme europee (quella generale e quella settoriale, entrambe preordinate alla tutela dell’utente-consumatore) in ipotesi di una condotta ritenuta da entrambe illecita e dunque passibile astrattamente di due sanzioni (l’una a titolo di pratica commerciale sleale, l’altra per violazione della regolazione di settore, anch’essa di derivazione europea). La questione, ben più ampia, del rapporto tra disciplina generale e settoriale in relazione a tutti i casi, ipotizzabili in astratto, di sovrapposizione tra le due discipline sarebbe stata risolta dallo stesso legislatore europeo nel Considerando 10 della Direttiva PCS laddove, segnatamente, ha specificato: “(…) la presente direttiva (PCS) si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore. Essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore e vieta ai professionisti di creare una falsa impressione sulla natura dei prodotti”. L’ipotesi annoverata dalla Corte di Giustizia sarebbe dunque quella di discipline fra loro incompatibili ed inconciliabili (un operatore, per adempiere ad un obbligo di una delle due discipline, violerebbe una disposizione dell’altra ovvero ne impedirebbe l’esecuzione). Questo sembrerebbe infatti il significato da attribuire alla locuzione di “complessiva divergenza di contenuti”, fra le due discipline, “che non ne consenta neppure l’astratta coesistenza”. Mentre, l’estensione dell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia ai casi in cui non si registra una incompatibilità fra disciplina generale e disciplina settoriale di origine comunitaria, ma – al contrario – un mero concorso delle due discipline nel ritenere illegittima e dunque passibile di sanzione la medesima condotta determinerebbe un sostanziale svuotamento della potestà regolatoria e sanzionatoria di AGCom in riferimento a molte condotte violative della propria regolazione di settore, adottata sulla base della normativa settoriale europea. Nei casi di concorso apparente di norme dovrebbe essere la disciplina settoriale a prevalere su quella generalista e a trovare quindi applicazione, in virtù del noto principio di specialità espresso dall’art. 3, comma 4, della direttiva PCS. E ciò, a tacere del fatto che nei casi in parola l’intervento dell’AGCom non si esaurirebbe nella tutela dell’utente-consumatore (obiettivo unico invece della disciplina sulle PCS attuata dall’AGCM), mirando alla regolazione dell’intero settore dei servizi di media audiovisivi e dunque a garantire il perseguimento di obiettivi di tutela più ampi, che ricomprendono quello della tutela degli utenti-consumatori senza tuttavia limitarsi ad esso, attraverso un sistema di controlli e sanzioni su scelte di programmazione contrastanti con gli obblighi regolamentari dettati in materia di programmazione, pubblicità e contenuti radiotelevisivi.

In subordine l’appellante invoca la rimessione ex art. 267 TFUE dinanzi alla Corte di Giustizia per la soluzione del seguente quesito: “ se il considerando 10 e l’art. 3, comma 4, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, ostino ad una normativa nazionale quale quella in rilievo nel caso di specie (l’art. 27, comma 1bis del Codice del consumo), qualora interpretata nel senso di ritenere prevalente la disciplina sulle pratiche commerciali sleali e dunque di escludere l’applicazione della disciplina dello specifico settore regolato, anche qualora le due normative non risultino fra loro in contrasto, bensì concorrenti nel ritenere illecita e dunque passibile di sanzione una determinata condotta di un operatore economico, e qualora tale condotta non sia qualificabile come pratica commerciale in ogni caso sleale ”.

4. Costituitasi in giudizio, l’originaria ricorrente. da un lato, ripropone i motivi di ricorso non esaminati dal primo giudice, dall’altro argomenta in ordine all’inammissibilità dell’appello per non avere contestato tutte le argomentazioni utilizzate dal giudice di prime cure e all’infondatezza dell’avverso gravame.

5. L’appellante dal canto suo insiste nelle proprie conclusioni, sottolineando, tra l’altro, l’ammissibilità dell’appello.

6. L’appello è infondato e non merita di essere accolto e ciò consente di non esaminare l’eccezione di inammissibilità spiegata dall’odierna appellata.

6.1. Un’attenta lettura della pronuncia del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17), della Corte di Giustizia, infatti, consente di ritenere che nella fattispecie debba ritenersi sussistente, da un lato, la competenza dell’AGCM e dall’altro, l’assenza di qualsivoglia potenziale contrasto della normativa nazionale con quella unionale. La citata pronuncia della Corte verte attorno all’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 4, degli articoli 8 e 9 nonché dell’allegato I, punto 29, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno. Secondo la Corte: “… l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 dispone che, in caso di conflitto tra le disposizioni di tale direttiva e altre norme dell’Unione che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, queste altre norme prevalgono e si applicano a tali aspetti specifici. Tale direttiva trova quindi applicazione, come confermato dal suo considerando 10, soltanto qualora non esistano specifiche norme del diritto dell’Unione che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali…Tale disposizione disciplina espressamente i casi di contrasto tra norme dell’Unione e non tra norme nazionali.

Nella fattispecie in esame non vi è una norma di derivazione unionale settoriale che regola in modo specifico la condotta sanzionata dall’Autorità appellante e, infatti, il provvedimento impugnato indica quale disposizione violata l’art. 37 comma 1 del d.lgs. 177/2005 secondo la quale: “ La pubblicità televisiva e le televendite devono essere chiaramente riconoscibili e distinguibili dal contenuto editoriale. Senza pregiudicare l'uso di nuove tecniche pubblicitarie, la pubblicità televisiva e le televendite devono essere tenute nettamente distinte dal resto del programma con mezzi ottici ovvero acustici o spaziali .”, mentre la condotta per la quale è stata irrogata la sanzione è quella vietata dall’art. 5 bis della delibera 538/01 (ossia il regolamento adottato dall’AGCom sulla pubblicità): “ 3. L'offerta deve essere chiara, accurata e completa quanto ai suoi principali elementi quali il prezzo, le garanzie, i servizi post-vendita e le modalità della fornitura o della prestazione. L'offerta deve altresì rispettare gli obblighi informativi in materia di diritto di recesso di cui al decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, e successive modifiche. ”.

Quest’ultima previsione, però, non trova un aggancio immediato nel diritto unionale dal momento che la disciplina contenuta nella direttiva n. 13/2010 (sui servizi di media audiovisivi) non contiene un’analoga prescrizione.

Da ciò deriva, da un lato, che il TAR ha correttamente individuato l’AGCM quale Autorità competente a sanzionate la condotta in questione e, dall’altro, che non è rilevante e manifestamente infondata proprio sulla scorta dei principi ricavabili dalla sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17), la questione per la quale l’appellante chiede la rimessione ex art 267 TFUE, atteso che la prospettazione illustrata dall’appellante condurrebbe alla prevalenza di un regolamento nazionale, ossia la delibera n. 538/01 dell’AGCom sulla direttiva 2005/29/Ce e sulla relativa normativa nazionale di recepimento, ossia gli artt. 18 e 22 del codice del consumo, dai quali si evince che la mancata indicazione del prezzo in una televendita rappresenta una pratica commerciale scorretta.

7. L’appello è, dunque, infondato e merita di essere respinto e ciò esime dal valutare i motivi del ricorso di primo grado non esaminati dal TAR e riproposti in seconde cure. La complessità in diritto delle questioni trattate consente di compensare le spese del presente grado di giudizio.

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