Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2022-04-11, n. 202202682
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Testo completo
Pubblicato il 11/04/2022
N. 02682/2022REG.PROV.COLL.
N. 02793/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello numero di registro generale 2793 del 2016, proposto da
G F e B A, rappresentati e difesi dagli avvocati Francesco D’Angelo e G C, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato G T in Roma, via del Serafico, 106;
contro
Comune di Agropoli, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, rappresentato e difeso dall’avvocato G F, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato G R in Roma, via Ezio, n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sezione staccata di Salerno (Sezione seconda), n. 1898/2015, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Agropoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 10 febbraio 2022 il Cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti gli avvocati D’Angelo e Filosa;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Con provvedimento n. 21586/2008 il Comune di Agropoli, in esito al rapporto stilato dalla Polizia municipale dopo l’ispezione effettuata il 30 giugno 2008 nell’esercizio commerciale in capo a “Gelateria La Delizia di Ferro Gabriele &C. s.a.s.”, avente a oggetto esclusivo, come da denuncia di inizio attività, la vendita di gelati, ordinava al legale rappresentante della società, signor G F, di cessare l’attività di somministrazione di alimenti e bevande abusivamente esercitata nell’esercizio di vicinato, in violazione degli artt. 3 e 10 comma 1 della l. 25 agosto 1991 n. 287.
Il predetto provvedimento era annullato con sentenza n. 1559/2010, passata in giudicato, del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sezione staccata di Salerno, Sezione seconda, in accoglimento del ricorso proposto dalla società, la quale, nelle more del giudizio, si scioglieva per volontà dei soci, come da atto notarile del 16 luglio 2009.
Con successivo ricorso allo stesso T, i signori G F e Amabile Bernard, in proprio e quali ex soci accomandatario e accomandante della società, evidenziavano che il Comune di Agropoli, nel ritenere lo svolgimento di un’attività di somministrazione di alimenti e bevande anziché di mera rivendita, e nell’adottare l’illegittima misura interdittiva, aveva commesso gravi errori di fatto e di diritto, che avevano causato lo scioglimento della società a distanza di poco tempo dalla sua costituzione, stante la paralisi dell’attività e il conseguente mancato incasso degli introiti, comportante l’impossibilità di fronteggiare la situazione debitoria contratta per l’avvio dell’esercizio commerciale. Proponevano quindi nei confronti del Comune azione ex art. 2043 Cod. civ. volta all’ottenimento del risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa della condotta antigiuridica dell’Amministrazione, meglio indicati nella perizia allegata al ricorso (€ 123.610,00 per danno emergente;€ 55.690,00 per lucro cessante;€ 200.000,00 per perdita di un finanziamento richiesto a Sviluppo Italia;perdita di chance;danno esistenziale), oltre interessi e rivalutazione.
Il Comune di Agropoli si costituiva in resistenza con eccezioni di rito e di merito.
L’adito Tribunale, Sezione seconda, con sentenza n. 1898/2015:
- respingeva l’eccezione di tardività del ricorso. Rilevava, in applicazione del principio stabilito nella sentenza n. 6/2015 dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, che il termine decadenziale di 120 giorni previsto per la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi dall’art. 30 comma 3 del Codice del processo amministrativo, opposto dal Comune, non era applicabile ai fatti illeciti anteriori all’entrata in vigore dello stesso Codice, per i quali continua a valere il termine prescrizionale quinquennale di cui all’art. 2947 Cod. civ.;
- accoglieva invece la seconda eccezione preliminare del Comune, ritenendo, in applicazione di principi affermati dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, che i soci di una società cancellata dal registro delle imprese non erano legittimati all’esercizio di azioni giudiziarie la cui titolarità sarebbe spettata alla società, la quale, con la decisione di porsi in liquidazione e cancellarsi dal registro, aveva manifestato la volontà di non esperirle;
- dichiarava pertanto il ricorso inammissibile e compensava tra le parti le spese del giudizio.
Gli interessati hanno appellato la predetta sentenza, avverso cui hanno dedotto: 1) Error in iudicando ;omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio;2) Error in iudicando ;omessa, insufficiente e falsa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio;violazione e falsa applicazione degli artt. 2191, 2495, 2312 e 2324 Cod. civ.;3) Sussistenza della legittimazione passiva della pubblica amministrazione e della sua responsabilità;4) Sussistenza del nesso di causalità e quantificazione del danno e relative componenti;5) Mezzi di prova e richieste istruttorie ex artt.63, 66 e 67 Cod. proc. amm.. Hanno concluso per la riforma della sentenza impugnata, per la declaratoria dell’illegittimità e della colpevolezza della condotta del Comune di Agropoli, e per la condanna di questo al risarcimento in loro favore dei danni, patrimoniali e non, diretti e indiretti, dipendenti, conseguenti e connessi al provvedimento illegittimo, come già quantificati in primo grado o da determinarsi in via equitativa ex art.1226 Cod. civ., ovvero ancora da ragguagliarsi alla somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, con interessi e rivalutazione.
Il Comune di Agropoli si è costituito in giudizio, domandando la reiezione del gravame. A sostegno, ha esposto la correttezza della sentenza impugnata e l’infondatezza dell’appello sotto tutti i profili rilevanti in rapporto alla avanzata domanda risarcitoria.
Nel corso del giudizio il Comune ha sviluppato le sue difese in una memoria difensiva.
La causa è stata indi trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 10 febbraio 2022.
DIRITTO
1. La sentenza impugnata, nel dichiarare la inammissibilità dell’azione risarcitoria esperita nei confronti del Comune di Agropoli dagli odierni appellanti, già soci della “Gelateria La Delizia di Ferro Gabriele &C. s.a.s.”, scioltasi il 16 luglio 2009 per volontà dei medesimi, ha richiamato i seguenti principi di diritto:
“ Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali;b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato ” (Cass. civ., Sez. un., n. 6070/2013;nn. 4060, 4061 e 4062/2010;V, n. 6743/2015);
- “ Se è indiscutibile che la società medesima sarebbe stata legittimata all’esercizio di una simile azione, sta di fatto che non la ha esercitata e che, con la decisione di porsi in liquidazione e cancellarsi dal registro, ha evidentemente scelto di non farlo. Certamente un successore può esercitare un’azione spettante al suo dante causa, ma non in presenza di un pregresso comportamento di costui inequivocabilmente inteso a rinunciarvi, giacché in tal caso è venuto meno l’oggetto stesso dell’ipotizzata trasmissione successoria ” sicchè “ In caso di cancellazione di una società di persone dal registro delle imprese, singoli soci non sono legittimati all’esercizio di azioni giudiziarie la cui titolarità sarebbe spettata alla società, ma che questa ha scelto di non esperire sciogliendosi e facendosi cancellare dal registro ” (Cass., I, n. 16758/2010).
Ha quindi ritenuto sussistente nella fattispecie la preclusione sancita dalle predette pronunzie, atteso che la società, sin quando in essere, bene avrebbe potuto proporre, ai sensi dell’art. 7 comma 3 l. 1034/1971, come modificato dall’art. 7 della l. 205/2000, applicabile ratione temporis , azione di risarcimento del danno derivatole dal provvedimento comunale n. 21586/2008, ma non lo ha fatto.
2. La conclusione risulta immune dalle mede denunziate in appello.
Rileva, per un verso, che i predetti principi sono stati costantemente ribaditi dalla giurisprudenza civile, e, per altro verso, che i rilievi opposti dagli appellanti alla loro applicazione nel caso di specie non colgono nel segno.
3. Quanto al primo aspetto, si osserva che, in relazione al principio secondo cui, in caso di cancellazione di una società di persone dal registro delle imprese, i singoli soci non sono legittimati all’esercizio di azioni giudiziarie la cui titolarità sarebbe spettata alla società prima della cancellazione ma che essa ha scelto di non esperire, sciogliendosi e facendosi cancellare dal registro, comportamento che, in quanto inequivocabilmente inteso a rinunciare a quelle azioni, ha fatto venir meno l’oggetto stesso di una trasmissione successoria ai soci, la giurisprudenza ha chiarito anche più di recente che non si verifica la successione dei soci nella titolarità di mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, e di crediti ancora incerti o illiquidi che, ove non compresi nel bilancio finale di liquidazione, devono ritenersi rinunciati dalla società a favore della conclusione del procedimento estintivo, con la conseguenza che gli ex soci non hanno la legittimazione a farli valere in giudizio (Cass., I, 15 novembre 2016, n. 23269;19 luglio 2018, n. 19302).
Ciò in quanto, sotto un profilo più generale, qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno successorio, in virtù del quale si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, nè i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato (Cass., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6072).
E nel caso di specie ricorre tale condizione: la scelta della società “Gelateria La Delizia di Ferro Gabriele &C. s.a.s.” di sciogliersi senza prima intraprendere, ai sensi delle disposizioni normative allora vigenti, puntualmente indicate dal primo giudice, alcuna attività giudiziale volta all’accertamento del credito risarcitorio di cui trattasi e all’ottenimento della conseguente pronuncia di condanna dell’Amministrazione comunale, può ragionevolmente essere interpretata come univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) a favore di una più rapida conclusione del provvedimento estintivo.
3.1. Non ricorre, invece, l’opposta condizione che, sempre a termini della giurisprudenza civile (da ultimo, Cass., Sez. un., 18 dicembre 2020, n. 29108), determina l’inapplicabilità della presunzione di cui trattasi, e che consiste, in tema di credito risarcitorio da illecito extracontrattuale, nella impossibilità della società, anche con l’uso dell’ordinaria diligenza, di avere conoscenza, al tempo della cancellazione, non solo del danno, ma anche dell’illecito e della derivazione causale dell’uno dall’altro.
Invero, sul primo punto va considerato che alla data dello scioglimento (16 luglio 2009) la predetta società non poteva non essere consapevole della possibilità della declaratoria di illegittimità del provvedimento inibitorio comunale del luglio 2008, avendo essa stessa proposto la relativa azione con il ricorso pendente innanzi al T per la Campania, poi accolto con sentenza n. 1559/2010, e quindi delle conseguenze a lei favorevoli derivanti, anche sul piano risarcitorio, dall’eventuale accoglimento del gravame. Neanche può dirsi che siffatta consapevolezza si sia radicata solo con la predetta sentenza n. 1559/2010, successiva allo scioglimento. Infatti, è vero che l’accertamento definitivo dell’illegittimità dell’atto consegue solo alla pronuncia del giudice amministrativo;ma è parimenti vero che il soggetto che avvia un’azione giudiziale ne auspica l’esito favorevole fondando sugli elementi di fatto e di diritto su cui l’azione è basata. Sicchè la presunzione della volontà dismissiva nella fattispecie è rafforzata, e non attenuata, dal fatto che nell’atto di scioglimento della società - in cui, come rilevato dal Comune, i soci odierni appellanti hanno riconosciuto l’inutilità di procedere alla messa in liquidazione della società sul presupposto della inesistenza di debiti sociali da pagare o di crediti o altri beni sociali da dividere - il ricorso amministrativo pendente non è stato menzionato.
Sul secondo punto, è la stessa illustrazione effettuata nell’odierno appello, e a suo tempo nel ricorso di primo grado, che indica la misura interdittiva comunale quale causa della paralisi dell’attività sociale, del conseguente mancato incasso degli introiti necessari a fronteggiare i debiti contratti per il suo avvio, e, infine, dello scioglimento della società, ad attestare che già al tempo della cancellazione vi fosse la consapevolezza sia del danno che della sua possibile derivazione causale dall’atto amministrativo impugnato.
4. Quanto al secondo aspetto, relativo all’inidoneità dei rilievi opposti dagli appellanti a sottrarre il caso di specie dall’applicazione dei sopra richiamati principi giurisprudenziali, si rileva che:
- con il primo motivo si sostiene che il T, nel dichiarare l’inammissibilità dell’azione esperita dagli appellanti in qualità di soci della società disciolta, non si sia avveduto che i medesimi hanno proposto l’azione anche in proprio, in relazione al pregiudizio da loro direttamente sofferto sul piano patrimoniale e non.
L’obiezione non convince.
In primo luogo, il pregiudizio di che trattasi, essendo ricollegabile all’attività esercitata in forma societaria, non può che essere mediato e indiretto, e non assume quindi quel carattere personale che legittima la sua azionabilità in giudizio.
Inoltre, per le ragioni già sopra indicate, neanche può sostenersi che gli appellanti siano subentrati nei diritti spettanti alla disciolta società per effetto della sua estinzione;
- con il secondo motivo si sostiene l’irrilevanza della mancata menzione nell’atto di scioglimento della società del ricorso amministrativo pendente, in quanto, secondo gli appellanti, da un lato, l’esito di questo era ancora incerto, dall’altro la volontà dei soci di non rinunziare all’azione di annullamento e agli eventuali benefici conseguenti dal suo eventuale esito favorevole si trarrebbe dal fatto che i medesimi non hanno fatto constare in quella sede, nei modi previsti dall’art. 299 Cod. proc. civ., lo scioglimento della società, ancorchè avvenuto nelle more.
La prima censura può essere respinta alla luce di quanto già rilevato al precedente capo 3.1.
La seconda censura è priva di qualsiasi forza persuasiva.
La cancellazione di una società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio, determinando perciò un evento interruttivo del processo pendente, regolato dall’art. 299 Cod. proc. civ. e seguenti, con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 dello stesso Codice (Cass. Sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070).
Consegue che al fatto della mancata dichiarazione da parte degli appellanti dell’avvenuto scioglimento della società nel corso del giudizio amministrativo pendente, e, quindi, della perdita della sua capacità di stare in giudizio, non possono che essere ricollegati effetti di carattere esclusivamente processuale, riassumibili nella mancata declaratoria dell’evento interruttivo del processo pendente e, conseguentemente, nella mancata assunzione in capo alle parti del giudizio, tra cui gli ex soci, degli oneri che l’ordinamento processuale vigente prevede per la sua prosecuzione o riassunzione.
Infine, va respinto anche il rilievo che la giurisprudenza applicata dal T possa non attagliarsi alle società di persone, atteso che una delle sentenze richiamate nella sentenza impugnata riguarda appunto tale tipologia di società (Cass., I, 16 luglio 2010, n. 16758).
5. Accertata come sopra l’infondatezza del primo e del secondo motivo di appello, diretti a contrastare l’inammissibilità dell’azione di risarcimento ex art. 2043 Cod. civ. dichiarata dal T, non vi è luogo per l’esame degli ulteriori motivi che, entrando nel merito dell’ an e del quantum della pretesa, presuppongono la ritualità dell’azione.
6. Per tutto quanto precede l’appello deve essere respinto.
Le spese del grado, tenuto conto della peculiarità della vicenda, possono essere compensate.