Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-05-16, n. 202203809

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-05-16, n. 202203809
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202203809
Data del deposito : 16 maggio 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 16/05/2022

N. 03809/2022REG.PROV.COLL.

N. 08632/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8632 del 2015, proposto dal Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici domicilia ope legis , in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

contro

Immacolata F, rappresentata e difesa dall’Avvocato R V, con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Roma, corso Vittorio Emanuele II n. 269;

per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania (sezione quarta) n. 1957 del 2015, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio di Immacolata F;

visto l’appello incidentale;

visti tutti gli atti della causa;

relatore, nell’udienza pubblica del giorno 12 aprile 2022, il Cons. Pier Luigi Tomaiuoli e viste le conclusioni delle parti come da verbale.


FATTO e DIRITTO

1.- La dott.ssa Immacolata F, dipendente del Ministero dell’interno promossa a viceprefetto, impugnava innanzi al Tar Campania il decreto del Ministero dell’interno del 12 febbraio 2014, di attribuzione del trattamento economico con effetto del 1° gennaio 2011, nonché tutti gli atti connessi, ivi compreso il parere della Ragioneria generale dello Stato 7 agosto 2012, prot. 69772, chiedendo, altresì, l’accertamento del suo diritto alla percezione della retribuzione spettante a norma del d.P.R. 23 maggio 2011, n. 105, e la conseguenziale condanna dell’Amministrazione resistente al pagamento delle somme a tale titolo dovute.

2.- Le doglianze della ricorrente erano rivolte, in particolare, avverso l’omesso adeguamento stipendiale della componente tabellare di base, in ragione dell’applicazione dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, convertito nella legge n. 122 del 2010, e avverso l’individuazione del dies a quo dell’adeguamento stipendiale relativo alla retribuzione di posizione e di risultato nel 18 dicembre 2012, data di conferimento formale dell’incarico seguito all’attribuzione della qualifica superiore, anziché dal 1° gennaio 2011, data di conseguimento di tale qualifica.

A sostengo della sua domanda, la ricorrente deduceva: 1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, poiché il «blocco stipendiale» da esso disposto «per le progressioni di carriera comunque denominate» non riguarderebbe la promozione a viceprefetto, che costituisce «l’esito di un procedimento complesso» e non automatico;
nonché la disparità di trattamento rispetto ai prefetti parimenti nominati a partire dal 1° gennaio 2011 e ai dirigenti del corpo dei Vigili del fuoco e della Polizia di Stato, tutti non assoggettati alle citate disposizioni di legge;
2) l’illegittima applicazione, per gli stessi motivi, del blocco stipendiale anche per l’anno 2014, in forza dell’art. 16, comma 1, lettera b ), del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 111 del 2011, così come attuato dall’ art. 1, comma 1, lettera a ), del d.P.R. n. 122 del 2013, e, in ogni caso, l’illegittimità costituzionale del citato art. 16 per violazione dell’art. 76 Cost.;
3) in via subordinata al primo e al secondo motivo, l’illegittimità costituzionale della menzionate norme di legge che hanno disposto, e poi prorogato, il blocco stipendiale per violazione degli artt. 3, 36 e 38 Cost., poiché esso comporterebbe ricadute permanenti sul trattamento di fine rapporto e su quello di quiescenza, specie in un regime previdenziale, quale quello attuale, di natura contributiva, e inciderebbe sull’adeguatezza e proporzionalità della retribuzione e della pensione alla qualità e quantità del lavoro prestato, come declinate, per i viceprefetti, dal d.lgs. n. 139 del 2000;
4) la violazione e falsa applicazione degli artt. 7, comma 4, 19, 20, 21, 26, 27, 28 e 29 del citato d.lgs. n. 139 del 2000, per avere l’Amministrazione, con il decreto impugnato, fatto decorrere l’adeguamento delle componenti stipendiali relative alla posizione e al risultato dalla data di effettivo conferimento dell’incarico, invece che dalla data di conseguimento della qualifica superiore (1° gennaio 2011), per come previsto dalle norme invocate, così peraltro facendo gravare sulla ricorrente il ritardo dell’Amministrazione stessa nella conclusione delle procedure relative alle «promozioni»;
5) in via subordinata al quarto motivo, l’illegittimità del decreto impugnato per non avere riconosciuto la spettanza delle indennità di posizione e di risultato dalla data del 1° gennaio 2011, perché la ricorrente, sin dalla nomina a viceprefetto, aveva comunque svolto le relative funzioni in regime di reggenza.

Si costituiva il Ministero dell’interno, eccependo l’incompetenza territoriale del Tar adito in favore del Tar Lazio e, nel merito, la non fondatezza delle domande avversarie.

Con la sentenza in epigrafe indicata il Tar Campania, rigettata l’eccezione di incompetenza territoriale, accoglieva il ricorso limitatamente al quarto motivo (con assorbimento del quinto e rigetto dei primi tre), condannando, per l’effetto, l’Amministrazione resistente al pagamento, in favore della ricorrente, a titolo di retribuzione di posizione e di risultato, della somma di euro 21.044,00, oltre rivalutazione ed interessi, e compensava le spese di lite.

2- Avverso la sentenza di primo grado ha proposto appello l’Amministrazione resistente, lamentandone l’erroneità: 1) nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale in favore del Tar Lazio, poiché la ricorrente in primo grado, oltre al decreto ministeriale di attribuzione della retribuzione, ha impugnato anche un parere della Ragioneria generale dello Stato, menzionato dal citato decreto e destinato ad avere effetti su tutto il territorio nazionale, in quanto recante «puntualizzazioni» sull’applicazione anche ai viceprefetti dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010;
tale circostanza, peraltro, disvelerebbe un secondo profilo di illegittimità della statuizione in parola, perché, essendo impugnato un atto della Ragioneria dello Stato, il ricorso avrebbe dovuto essere notificato anche al Ministero dell’economia, con conseguente sua inammissibilità per omessa integrazione del contraddittorio;
2) nella parte in cui ha accolto la domanda della ricorrente di condanna dell’Amministrazione alla corresponsione della retribuzione di posizione e di risultato dal momento dell’attribuzione della nuova qualifica e non da quello di effettiva attribuzione dell’incarico, poiché il d.P.R. n. 105 del 2011, su cui il primo giudice ha fondato la statuizione in parola, avrebbe efficacia solo per il biennio 2008-2009, e poiché, in ogni caso, gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 139 del 2000 dimostrerebbero che, mentre il trattamento economico tabellare spetta solo ed esclusivamente in ragione del possesso di ciascuna delle qualifiche che caratterizzano la carriera prefettizia, le altre componenti della retribuzione sono inscindibilmente collegate allo specifico incarico conferito;
3) nella parte in cui ha riconosciuto la spettanza, sulle somme liquidate a titolo di indennità accessorie, di interessi e rivalutazione, in violazione del divieto di cumulo di cui all’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994.

Si è costituita l’appellata, ricorrente in primo grado, resistendo all’appello avversario e spiegando appello incidentale avverso i capi della sentenza che hanno respinto i motivi volti a contestare l’applicabilità ai viceprefetti del blocco stipendiale sulla retribuzione base e la legittimità costituzionale delle norme che lo hanno disposto e poi prorogato, secondo le traiettorie argomentative già illustrate nel ricorso in primo grado. L’appellante incidentale ha riproposto, altresì, il quinto motivo di ricorso rimasto assorbito dall’accoglimento del quarto, relativo alla decorrenza della retribuzione di risultato e di posizione.

All’udienza del 12 aprile 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.

3.- Per effetto dei contrapposti appelli il thema decidendum del primo grado è interamente riemerso nel presente giudizio di secondo grado, sicché, per semplicità espositiva, le questioni verranno esaminate nel loro ordine logico già seguito dal Tar Campania.

4.- È pregiudiziale l’esame dell’eccezione di incompetenza in favore del Tar Lazio sollevata dall’Amministrazione resistente e riproposta con il primo motivo di appello.

Il primo giudice ha osservato, al riguardo, che «la natura della controversia […] è direttamente circoscritta all’attribuzione del trattamento economico della ricorrente e riguarda, cioè, una pretesa individuale inerente al rapporto di lavoro ed alle modalità della sua retribuzione. La circostanza che il medesimo decreto ministeriale attribuisca il trattamento economico ad altri dipendenti pubblici, versanti nelle medesime condizioni, non crea alcun rapporto di inscindibilità fra le rispettive pretese, le quali devono essere considerate quale fascio omogeneo di rapporti fra il datore di lavoro pubblico e ciascun vice-prefetto destinatario dell’atto».

Alla luce di tali considerazioni, il Tar Campania ha ritenuto la propria competenza in forza dell’art. 13, comma 2, c.p.a., secondo cui «[p]er le controversie riguardanti pubblici dipendenti è inderogabilmente competente il tribunale nella cui circoscrizione territoriale è situata la sede di servizio».

Secondo il Ministero appellante, tale motivazione non sarebbe condivisibile, perché il petitum della ricorrente in primo grado ricomprenderebbe l’annullamento di un parere della Ragioneria generale dello Stato, ossia di un atto generale destinato a spiegare effetti su tutto il territorio nazionale, dal che conseguirebbe la riespansione del criterio generale di competenza legato all’efficacia dell’atto impugnato e, a ben vedere, anche l’inammissibilità del ricorso in primo grado per non integrità del contraddittorio.

Il motivo è infondato.

Nonostante il ricorso in primo grado rechi la richiesta di annullamento di tutti gli atti presupposti e, tra questi, del menzionato parere della Ragioneria generale dello Stato, la sua impugnazione è tale solo formalmente, poiché la ricorrente non muove alcuna censura a quell’atto, che ha natura di circolare meramente interpretativa, e nelle stesse conclusioni la richiesta di annullamento è rivolta esclusivamente al decreto ministeriale.

La domanda della ricorrente, piuttosto, è chiaramente volta, in via principale, all’attribuzione di emolumenti retributivi, e quindi incentrata sulla dedotta spettanza di diritti soggettivi, come si ricava anche dal rilievo che la stessa impugnazione del decreto ministeriale è proposta a fini meramente «cautelativi».

Lo stesso d.m. impugnato, poi, non cita alcun passaggio di quella circolare e si fonda direttamente sulle disposizioni del d.l. n. 78 del 2010 che hanno disposto il contestato blocco stipendiale.

5.- Nel merito, è corretta la statuizione della sentenza impugnata che ha respinto i motivi di ricorso, riproposti con l’appello incidentale, volti a fare valere la non applicabilità ai viceprefetti dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 e della sua proroga fino al 31 dicembre 2014 recata dall’art. 16 del d.l. n. 98 del 2011, e, in subordine, la loro illegittimità costituzionale.

5.1.- Come osservato dal primo giudice, l’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, «con la locuzione “progressioni di carriera comunque denominate”, fa riferimento a tutti i tipi di avanzamento di carriera, ricomprendendo anche quelli che presuppongono l’esercizio di una elevata discrezionalità nella scelta tra i candidati provenienti dai gradi inferiori», sicché «non vi è dubbio che la norma censurata trovi applicazione in tutti i rapporti d’impiego con le pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte che li disciplina» (Corte costituzionale, sentenza n. 304 del 2013).

Tale conclusione, successivamente alla sentenza di primo grado, è stata espressamente ribadita dalla Corte costituzionale proprio con riferimento alla categoria dei viceprefetti: «si devono ritenere infondate le eccezioni presentate dagli intervenienti circa la non applicabilità dell’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, alle promozioni a viceprefetti, in quanto derogato dalla speciale disciplina che regola la carriera prefettizia e, in particolare, dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139 (Disposizioni in materia di rapporto di impiego del personale della carriera prefettizia, a norma dell’articolo 10 della L. 28 luglio 1999, n. 266). Quest’ultimo, piuttosto che un’eccezione alla regola sancita dalla disposizione impugnata – che, come già ritenuto da questa Corte, trova applicazione “in tutti i rapporti di impiego con le pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte che li disciplina” (sentenza n. 304 del 2013) – indica una delle situazioni in cui si producono gli effetti economici delle progressioni di carriera e prevede la decorrenza degli stessi “dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze”» (Corte costituzionale, sentenza n. 96 del 2016).

5.2.- Con le sentenze citate la Corte costituzionale ha poi dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar Lazio con riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 Cost. e in parte riproposte dall’odierna appellante incidentale (nello stesso senso, anche le sentenze n. 254 del 2014, n. 310 del 2013 e l’ordinanza n. 113 del 2014), sicché in questa sede, per continenza espositiva e in applicazione del principio di sinteticità degli atti di cui all’art. 3 c.p.a., si rinvia alle motivazioni di quelle sentenze.

Manifestamente infondata, ancora, è l’ulteriore eccezione, pure formulata dalla ricorrente in primo grado, di illegittimità costituzionale delle norme in questione per violazione dell’art. 38 Cost., poiché esse comporterebbero ricadute permanenti sul trattamento di fine rapporto e su quello di quiescenza, specie in un regime previdenziale, quale quello attuale, di natura contributiva, e, per tale via, inciderebbero sull’adeguatezza e la proporzionalità di quei trattamenti.

L’assunto di fondo da cui muove l’appellante incidentale, ossia che essa «subisca a tempo indeterminato il rigore della regola censurata che congela solo temporaneamente gli incrementi retributivi», non può essere condiviso, poiché «[q]uesta prospettazione avrebbe una sua plausibilità solo se la regola posta dalla disposizione censurata fosse quella di un prelievo straordinario sulle retribuzioni in caso di progressione di carriera» (Corte costituzionale, sentenza n. 200 del 2018), il che è già stato escluso dal giudice delle leggi con le già citate sentenze n. 154 del 2014 e n. 304 del 2013.

In ogni caso, «una volta che non si dubita dell’adeguatezza della retribuzione spettante al pubblico dipendente “promosso”, la stessa varrà anche sul piano (contributivo e) previdenziale, al fine di quantificare il trattamento pensionistico al quale il dipendente stesso ha diritto, quale che sia il sistema di calcolo, se contributivo o ancora residualmente retributivo» (sentenza n. 200 del 2018;
nello stesso senso, sentenza n. 92 del 2021).

6.- Parimenti corretta è la statuizione della sentenza gravata, contestata dal Ministero appellante, che ha accolto il quarto motivo di ricorso (e conseguenzialmente assorbito il quinto, proposto in via subordinata), volto all’accertamento del diritto della ricorrente a percepire le retribuzioni di risultato e di posizione dal 1° gennaio 2011, data di conseguimento della qualifica di viceprefetto.

Il primo giudice ha affermato, al riguardo, di non condividere «il criterio utilizzato dal Ministero per il riconoscimento delle più favorevoli voci accessorie (retribuzione di posizione e di risultato) connesse al concreto espletamento di uno specifico incarico (fermo restando il limite di cui all’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010) solo a far data dallo svolgimento effettivo delle funzioni ad esso riconnesse. Ed invero, una volta stabilito che le voci accessorie, in quanto legate alla specificità delle funzioni assegnate (anche se non ancora svolte), fuoriescono dalla logica del congelamento retributivo, deve ritenersi che la ordinaria regola (retroattività del riconoscimento al momento del conferimento dell’incarico nella misura minima prevista per la nuova qualifica acquisita – art. 7 d.lvo n. 139 del 2000 ed art. 5 del d.P.R. n. 105 del 2011) si riespande nella sua interezza».

6.1.- L’appellante non contesta che le voci accessorie di cui si discute, previste dagli artt. 20 e 21 del d.lgs. n. 139 del 2020, fermo restando il limite di cui all’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, non siano assoggettate al congelamento retributivo previsto dall’art. 9, comma 21, del medesimo d.l., secondo cui, per quanto qui rileva, «le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici» (il che – concordano le parti – si desumerebbe anche dal punto 4 del considerato in diritto della sentenza n. 96 del 2016 della Corte costituzionale e dal punto 3 del considerato in diritto della sentenza n. 304 del 2013).

Sostiene, invece, in primo luogo, che non possa trovare applicazione l’art. 5, comma 3, del d.P.R. n. 105 del 2011, a mente del quale «[a]i funzionari della carriera prefettizia, per il periodo intercorrente tra la data di conseguimento della qualifica superiore, e quella del conferimento dell’incarico connesso alla nuova qualifica, competono la retribuzione di posizione e la retribuzione di risultato nelle misure minime previste per la qualifica acquisita, salvo recupero delle maggiori somme corrisposte in caso di mancato superamento del corso», perché il d.P.R., ai sensi del suo art. 2, avrebbe efficacia solo «per il periodo dal 1° gennaio 2008 al 31 dicembre 2009».

L’assunto non è condivisibile.

È vero che il d.P.R. in parola recepisce il contenuto della contrattazione collettiva relativa al biennio 2008-2009, ma è anche vero che, ai sensi dell’art. 26, comma 3, del d.lgs. n. 139 del 2000, quel d.P.R. (entrato in vigore a biennio ampiamente scaduto), secondo un meccanismo di ultrattività ben conosciuto nella materia sindacale, «conserva efficacia fino alla data di entrata in vigore del decreto successivo», che nel caso di specie è intervenuto solo nell’anno 2018 (per regolare il biennio 2016-2018).

6.2- L’appellante deduce, in secondo luogo, che gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 139 del 2000 dimostrerebbero che, mentre il trattamento economico tabellare spetta solo ed esclusivamente in ragione del possesso di ciascuna delle qualifiche che caratterizzano la carriera prefettizia, le altre componenti della retribuzione, qui in contestazione, sono inscindibilmente collegate allo specifico incarico conferito, in assenza del quale esse non potrebbero essere dunque corrisposte.

Anche tale assunto non può essere condiviso.

È innegabile che le retribuzioni di posizione e di risultato, essendo correlate agli incarichi esercitati e ai risultati conseguiti nel loro espletamento, presupporrebbero ex se il conferimento degli specifici incarichi ai dipendenti.

È tuttavia parimenti innegabile che, in un’evidente ottica di maggior favore per i dipendenti, anch’essa non estranea ai normali meccanismi di contrattazione collettiva, il citato art. 5, comma 3, prevede proprio per il periodo precedente al conferimento dell’incarico (e successivo al conseguimento della qualifica superiore) «la retribuzione di posizione e la retribuzione di risultato nelle misure minime previste».

7.- Il rigetto del secondo motivo dell’appello principale sopra illustrato comporta l’assorbimento del motivo di appello incidentale (che veicola il quinto motivo di ricorso spiegato in primo grado e rimasto assorbito), volto ad accertare la spettanza delle retribuzioni accessorie in ragione, comunque, dell’espletamento di funzioni di reggenza, e proposto solo per il caso di accoglimento della censura avversaria.

8.- È per contro fondato l’ultimo motivo di appello, con cui il Ministero lamenta l’erroneità della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha riconosciuto la spettanza, sulle somme liquidate a titolo di indennità accessorie, di interessi e rivalutazione, in violazione del divieto di cumulo di cui all’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994.

È noto, infatti, che, in forza di quest’ultima disposizione, sulle somme spettanti ai dipendenti pubblici a titolo retributivo (oltre che previdenziale ed assistenziale) non spetta il cumulo tra rivalutazione ed interessi, a meno che non venga provato il maggior danno (da ultimo, con riferimento finanche a crediti risarcitori originati dal rapporto di pubblico impiego, si veda Cass. civ., ss.uu., 2 luglio 2020, n. 13624), che, nel caso di specie, non è stato neanche dedotto.

9.- Conclusivamente, l’appello incidentale deve essere respinto, mentre l’appello principale deve essere accolto limitatamente all’ultimo motivo.

Per l’effetto, in parziale riforma della sentenza gravata, alla ricorrente in primo grado devono essere riconosciuti, sulle somme liquidate a titolo di spettanze retributive, i soli interessi legali, dalla maturazione sino all’effettivo soddisfo, con esclusione della rivalutazione monetaria.

La sentenza di primo grado, per il resto, deve essere confermata.

10.- La soccombenza reciproca giustifica la compensazione integrale delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

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