Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2015-04-16, n. 201501945

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2015-04-16, n. 201501945
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201501945
Data del deposito : 16 aprile 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07796/2011 REG.RIC.

N. 01945/2015REG.PROV.COLL.

N. 07796/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7796 del 2011, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avvocato G C M, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato F T, in Roma, Via Lovanio, 16;

contro

INAIL - Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati L L P e L R, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, Via IV Novembre, 144;
-OMISSIS-, non costituita in giudizio nel presente grado;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PIEMONTE - TORINO, SEZIONE II, n. 146/2011, resa tra le parti e concernente: risarcimento danni da mobbing lavorativo;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte appellata;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 4 novembre 2014, il Cons. Bernhard Lageder e uditi, per le parti, gli avvocati Muccio ed Emilia Favata, quest’ultima per delega dell’avvocato Romeo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il T.a.r. per il Piemonte respingeva il ricorso n. 1500 del 2008, proposto – in riassunzione dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Un. Civ., 23 aprile 2008, n. 10453, affermativa della giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia originariamente introdotta, nel giugno 1999, dinanzi al Tribunale ordinario di Asti – dalla signora -OMISSIS- nei confronti dell’ Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro - INAIL in qualità di datore di lavoro, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni da mobbing subiti dalla ricorrente nel periodo dal novembre 1993 al luglio 1995 per effetto della condotta persecutoria e vessatoria posta in essere dalla preposta gerarchica -OMISSIS-, all’epoca dirigente della sede INAIL di Asti, dove la ricorrente era in servizio quale assistente amministrativa.

Il T.a.r. adìto – dichiaratamente prescindendo dall’esame dell’eccezione di inammissibilità delle domande sollevata dall’INAIL, sotto il profilo dell’intervenuta decadenza ex art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 (rispettivamente ex art. 45, comma 17, d.lgs. n. 80 del 1998) – respingeva le domande proposte dalla ricorrente sulla base del rilievo dirimente che la stessa non avrebbe fornito la prova degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità datoriale da mobbing quali elaborati dalla giurisprudenza. In particolare, sarebbe rimasta sfornita di prova la sussistenza dell’intento persecutorio diretto ad emarginare la dipendente attraverso una pluralità di atti e comportamenti legati da un disegno unitario finalizzato a vessarla e a distruggerne la personalità e la figura professionale. Infatti, dall’acquisito materiale istruttorio sarebbe soltanto emersa una « situazione sicuramente conflittuale, ma non per questo necessariamente persecutoria o volutamente preordinata ad emarginarla o estrometterla dalla struttura organizzativa » (v. così, testualmente, sub § 23.1. dell’impugnata sentenza), con conseguente inconfigurabilità del dedotto illecito.

2. Avverso tale sentenza interponeva appello l’originaria ricorrente, deducendone l’erroneità per illegittima inversione dell’onere della prova, manifesta illogicità e contraddittorietà di motivazione, travisamento dei fatti e delle prove, nonché, in subordine, « assoluta carenza istruttoria e dell’esame documentale », in quanto, contrariamente a quanto assunto dal T.a.r., dovevano ritenersi integrati e comprovati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di mobbing datoriale e della correlativa pretesa risarcitoria. L’appellante chiedeva pertanto, in accoglimento dell’appello e in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento del ricorso (in riassunzione) di primo grado, comprese le subordinate richieste istruttorie.

3. Si costituiva in giudizio l’appellato INAIL, espressamente riproponendo l’eccezione di decadenza ex art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 (rispettivamente ex art. 45, comma 17, d.lgs. n. 80 del 1998) – per essere la chiamata in giudizio dell’INAIL, nell’ambito della causa civile sfociata nella citata pronuncia della Corte regolatrice, affermativa della giurisdizione del giudice amministrativo, avvenuta con atto notificato in data successiva al termine di decadenza del 15 settembre 2000 – e contestando, nel merito, la fondatezza dell’avversario appello.

4. All’udienza pubblica del 4 novembre 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.

5. Infondata è l’eccezione di decadenza ex art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 (rispettivamente ex art. 45, comma 17, d.lgs. n. 80 del 1998), espressamente riproposta dall’INAIL nella memoria di costituzione in appello depositata il 23 novembre 2011 (quindi tempestivamente, entro il termine di cui all’art. 46, comma 1, cod. proc. amm.), per gli effetti di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. amm..

5.1. L’INAIL, a sostegno della propria eccezione, assume che l’odierna appellante, nell’ambito della causa civile promossa dinanzi al Tribunale ordinario civile di Asti – definita dalla sentenza affermativa della giurisdizione del giudice amministrativo della Corte di Cassazione, Sez. Un. Civ., n. 10453 del 23 aprile 2008, con cui era stato respinto il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino n. 768 del 21 giugno 2005 che, in riforma della sentenza di accoglimento del giudice del lavoro presso il Tribunale di Asti n. 209 del 29 novembre 2004, aveva declinato la giurisdizione del giudice ordinario –, aveva originariamente proposto domanda da responsabilità extracontrattuale nei confronti della sola preposta gerarchica-OMISSIS-(con atto di citazione notificato il 22 giugno 1999), mentre aveva formulato la domanda risarcitoria da responsabilità contrattuale nei confronti dell’ente datoriale solo con atto di chiamata in causa ex art. 269 cod. proc. civ., notificato all’INAIL il 27 febbraio - 1 marzo 2001.

Pertanto, secondo l’assunto dell’INAIL, l’azione risarcitoria da responsabilità contrattuale per mobbing sarebbe stata esercitata, nei confronti dell’ente datoriale, oltre il termine di decadenza del 15 settembre 2000 stabilito dall’art. 45, comma 17, d.lgs. n. 80 del 1998 (come sostituito dall’art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001), secondo cui, in tema di lavoro pubblico cosiddetto privatizzato, il trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario opera per le questioni attinenti al periodo del rapporto successivo al 30 giugno 1998, restando devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative a questioni concernenti il periodo anteriore a tale data, purché introdotte, a pena di decadenza, prima del 15 settembre 2000 .

5.2. La Corte regolatrice, con la citata sentenza, è pervenuta alla declaratoria della giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla domanda proposta nei confronti dell’INAIL, con sequela di rimessione delle parti dinanzi al T.a.r. per il Piemonte per la prosecuzione del relativo giudizio (v. la parte dispositiva di detta sentenza) e con espressa « salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda » (v. p. 11 della citata sentenza), sulla base dei seguenti rilievi:

- la condotta lesiva denunciata dall’odierna appellante riguardava episodi risalenti al periodo dal novembre 1993 al luglio 1995, e dunque al periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30 giugno 1998;

- la soluzione della questione del riparto di giurisdizione era strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, nel senso che, qualora fosse fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente datore di lavoro, la cognizione della domanda rientrava nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se fosse stata dedotta la responsabilità extracontrattuale, la giurisdizione spettava al giudice ordinario;

- al fine di tale accertamento, assumeva rilevanza decisiva l’elemento materiale dell’illecito dedotto in giudizio, costituito da una condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva si fosse esplicata esclusivamente in danno di soggetti legati ad essi da un rapporto di impiego, nel senso che l’ingiustizia del danno non fosse altrimenti configurabile che come conseguenza delle violazioni di taluna delle situazioni giuridiche in cui il rapporto medesimo si era articolato e svolto (a differenza dall’ipotesi in cui l’idoneità lesiva della condotta dell’amministrazione si fosse esplicata indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini, nel qual caso il rapporto di lavoro avrebbe costituito mera occasione dell’evento dannoso);

- nel caso di specie, era stata dedotta in giudizio una responsabilità dell’ente datore di lavoro derivante dai comportamenti posti in essere da una dipendente dello stesso ente (la dirigente-OMISSIS-), con espresso riferimento alla violazione dei comuni principi che regolano il contratto e il rapporto di lavoro, con conseguente identificazione della natura contrattuale di tale responsabilità attraverso gli elementi oggettivi della denunciata condotta dannosa che, proprio in quanto imputabile all’ente, non presentava un nesso meramente occasionale con il rapporto d’impiego, ma costituiva la diretta conseguenza della dedotta violazione dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore, garantite dall’art. 2087 cod. civ.;

- la fattispecie di responsabilità andava così ricondotta alla violazione, da parte del datore di lavoro, di specifici obblighi contrattuali – derivanti dal menzionato principio di protezione delle condizioni di lavoro –, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiedeva il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute) che trovavano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio.

5.3. Sebbene l’atto di citazione, con cui era stata introdotta la causa civile dinnanzi al Tribunale di Asti – ed a cui, per effetto della natura conservativa degli effetti della domanda proposta dinanzi a giudice privo di giurisdizione, conseguente alla translatio iudicii , si ricollega il momento determinante la litispendenza –, fosse stato, originariamente (il 22 giugno 1999), notificato alla sola preposta gerarchica-OMISSIS-, la causa, in seguito alla contestazione della responsabilità da parte di detta convenuta, su istanza dell’attrice è stata estesa nei confronti dell’INAIL in forza dell’ordinanza (del 12 gennaio 2001) di autorizzazione alla chiamata in causa, eseguita con atto notificato il 27 febbraio - 1 marzo 2001 nei confronti dell’Istituto (la causa, in seguito, previo mutamento dal rito ordinario a quello di lavoro disposto ai sensi dell’art. 426 cod. proc. civ. e dopo l’espletamento di istruttoria documentale e testimoniale, è stata decisa in primo grado dal giudice del lavoro del Tribunale di Asti con sentenza di accoglimento n. 209 del 29 novembre 2004, poi riformata;
v. sopra sub 5.1.).

Da un attento esame degli atti della causa civile (poi commutata in causa di lavoro) emerge che l’attrice, sin dall’origine, aveva dedotto in giudizio un episodio di vita che, nella sua materialità, integrava – accanto alla fattispecie di illecito extracontrattuale dedotta nei confronti della-OMISSIS-– anche la fattispecie costitutiva della responsabilità contrattuale dell’ente datoriale derivante dai comportamenti posti in essere da una sua dipendente (la dirigente-OMISSIS-) nei confronti dell’attrice in violazione dei comuni principi che presiedono allo svolgimento del rapporto di lavoro.

Orbene, secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità formatasi sul concetto di ‘comunanza di causa’ di cui all’art. 106 cod. proc. civ., nelle ipotesi in cui, a fronte della contestazione della propria responsabilità da parte dell’originario convenuto, sia chiamato in causa un terzo indicato come vero responsabile, la causa è unica e inscindibile, potendo la responsabilità dell’uno comportare quella dell’altro, ovvero, nel caso di coesistenza di diverse autonome responsabilità, porsi l’una come limite dell’altra;
in siffatte ipotesi, pure ove l’attore non estenda la propria domanda contro il chiamato, la domanda si intende automaticamente riferita anche al terzo, trattandosi di individuare il vero responsabile nel quadro di un rapporto oggettivamente unitario (v. in tal senso, per tutte, Cass. civ., 27 giugno 2006, n. 14776;
Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7273).

Dovendosi nel caso di specie, per le ragioni più sopra esposte, l’elemento materiale dell’illecito idoneo ad integrare la responsabilità contrattuale dell’INAIL – ossia, la condotta dannosa pregiudizievole posta in essere dalla preposta gerarchica dell’attrice, che non si poneva in un rapporto meramente occasionale con il rapporto di impiego e, in quanto tale, era imputabile (anche) all’ente datoriale – ritenere allegato e dedotto in giudizio sin dall’originario atto introduttivo proposto nel giugno 1999, la relativa controversia, per gli effetti di cui all’art. 45, comma 17, d.lgs. n. 80 del 1998 (come sostituito dall’art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001), deve ritenersi pendente da epoca anteriore al 15 settembre 2000, sebbene la chiamata in giudizio dell’INAIL fosse avvenuta in epoca successiva a tale data, attesa l’allegazione dell’elemento determinante la comunanza di causa sin dall’originario atto introduttivo, con conseguente infondatezza dell’eccezione di decadenza sollevata dall’Istituto appellato.

Tale soluzione s’impone alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata della citata disciplina transitoria del passaggio delle controversia in materia di pubblico impiego contrattualizzato dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria, che sia tesa a preservare la compiutezza ed effettività della tutela giurisdizionale (art. 24, comma 1, Cost.), e che postula una lettura restrittiva della fattispecie di decadenza dal diritto di azione, da limitarsi alle sole ipotesi, nelle quali la pendenza della lite possa essere collocata, in modo chiaro ed univoco, a data successiva alla maturazione del menzionato termine di decadenza.

6. Nel merito, l’appello è fondato.

6.1. Giova premettere, in linea di diritto, che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato, con il termine mobbing , in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica ai fini della configurabilità della condotta lesiva di mobbing , da parte del datore di lavoro Cons. St., Sez. VI, 4 novembre 2014, n. 5419;
Cons. St., Sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4135).

Per l’integrazione della fattispecie, va accertata la presenza dei seguenti elementi costitutivi:

- una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

- l’evento lesivo della salute psicofisica, della personalità o della dignità del dipendente;

- il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

- l’elemento soggettivo dell’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi.

Sul piano processuale, la condotta di mobbing del datore di lavoro deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito, ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice – eventualmente, anche attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi – possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione, in quanto la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente, di per sé, di affermare l’esistenza di un’ipotesi di mobbing (v. Cons. St., Sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1388). Infatti, la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim , elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (v. Cons. St., Sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 14).

Segnatamente, nel rapporto di pubblico impiego, un singolo atto illegittimo, o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo la presenza di un complessivo disegno persecutorio, qualificato da comportamenti materiali, ovvero da provvedimenti, contraddistinti da finalità di volontaria e organica vessazione nonché di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa.

Occorre rilevare al riguardo che ciò che caratterizza il fenomeno del mobbing rispetto ad altre figure di illeciti è la sua capacità di unificare in una fattispecie unitaria una pluralità di azioni, atti, comportamenti, alcuni dei quali, in sé considerati, potrebbero essere neutri, ma il cui reale fine dannoso e illecito si apprezza soltanto se i medesimi sono letti in unione con altri ed in un’ottica finalistica complessiva.

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, affinché possa configurarsi il fenomeno del mobbing , è sufficiente che la sequenza di atti e comportamenti posti in essere assuma una valenza persecutoria e risulti implicito il perseguimento di una finalità illecita. In definitiva, il motivo discriminatorio o vessatorio si rivela nella finalità illecita, apprezzabile in sede giudiziale in ragione dell’attitudine della condotta a pregiudicare il lavoratore, che può essere accertata avuto riguardo a tutte le circostanze di fatto connotanti il caso concreto.

Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha da tempo chiarito che il mobbing si realizza in presenza di una condotta sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione all’integrità fisica e alla personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 cod. civ.. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendo alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi e considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato (Cass. civ., Sez. lav., 25 maggio 2006, n. 12445;
Cass. civ., Sez. Un., 4 maggio 2004, n. 8438).

6.2. Scendendo alla valutazione delle copiose risultanze istruttorie acquisite al giudizio, sia documentali sia testimoniali – e precisato che, ai sensi dell’art. 11, comma 6, cod. proc. amm., le prove raccolte nel processo dinanzi al giudice privo di giurisdizione (nella specie, dinanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Asti) possono essere valutate come argomenti di prova –, si osserva che devono ritenersi comprovate le circostanze di seguito esposte.

L’odierna appellante era stata assunta, tramite concorso pubblico, presso l’INAIL di Asti in data 10 novembre 1975 con la qualifica di -OMISSIS-, aveva poi conseguito nel 1988 l’inquadramento al ruolo superiore di assistente amministrativo a seguito di concorso interno e, dalla metà dell’anno 1992, aveva svolto anche le funzioni di segretaria per il dirigente della sede, dott. -OMISSIS-, il quale in quel periodo aveva ricoperto il posto poi occupato dalla-OMISSIS-(circostanze pacifiche).

Risulta che la ricorrente, tra il mese di novembre dell’anno 1975 e il mese di novembre dell’anno 1993, aveva svolto con piena soddisfazione, propria e dell’ente datoriale, l’attività lavorativa (vanno, al riguardo, rimarcati, i documentati frequenti spostamenti a Firenze per attività di segretariato presso il centro di formazione dell’INAIL) ed aveva goduto, durante il medesimo periodo, di buona salute psico-fisica e, in particolare, mai aveva sofferto delle patologie che si sono, invece, manifestate successivamente all’insediamento nella sede di Asti della dirigente-OMISSIS-, avvenuto nel novembre del 1993 (infatti, le certificazioni mediche sono tutte successive al novembre 1993;
la teste -OMISSIS-, infermiera professionale addetta all’ente, ha dichiarato che la-OMISSIS-, in epoca precedente al novembre 1993, mai aveva sofferto di crisi di angoscia tali da portarla, in orario di servizio, a dover ricorrere all’intervento sanitario, come, invece, avvenuto nel periodo successivo;
sono, altresì, in atti le dichiarazioni del medico curante della-OMISSIS-, da cui emerge che la stessa, nel periodo precedente i fatti di cui è causa mai fosse stata affetta da crisi depressivo-ansiose o patologie psico-fisiche, invece riscontrate nel periodo successivo).

La nuova dirigente risulta aver sottoposto la-OMISSIS- a vessazioni plurime e reiterate, essendo, in particolare, rimasto comprovato che:

- la-OMISSIS-era solita censurare, più volte al giorno, l’operato della ricorrente di fronte a colleghi, utenti e fornitori, in forma violenta, negli uffici e nel corridoio, con uso pressoché sistematico di turpiloquio (v. la deposizione testimoniale di -OMISSIS-, dattilografo che lavorava in un ufficio ubicato sullo stesso piano di quello della ricorrente, il quale, tra l’altro, riferiva che la dirigente usava, nei confronti della-OMISSIS-, anche più volte al giorno, l’epiteto « stronza »;
v., altresì, la deposizione della teste -OMISSIS- già responsabile delle procedure dell’ufficio al quale la-OMISSIS- era stata spostata nel 1995, che riferiva che la-OMISSIS-, nei rapporti con la-OMISSIS-, era solita urlare, imprecare, usare parolacce, inalberarsi e aver scatti di nervosismo;
v., inoltre, la deposizione testimoniale di-OMISSIS-, la quale – cittadina utente esterna – nel 1994 si era recata nell’ufficio della-OMISSIS- per chiedere informazioni su un concorso, quando entrò la-OMISSIS-, la quale, secondo la teste, uscendo e sbattendo la porta, apostrofò la-OMISSIS- con l’epiteto sopra riferito dal teste -OMISSIS-);

- la-OMISSIS-, se trovava chiusa la porta dell’ufficio della-OMISSIS-, usava spalancarla ordinando di lasciarla aperta (v. deposizione del teste -OMISSIS-, il quale inoltre precisava di aver visto personalmente la-OMISSIS-avvicinarsi in punta di piedi alla stanza della-OMISSIS-);

- la-OMISSIS-non voleva che la-OMISSIS- utilizzasse un certo bagno, definito da alcuni ‘bagno grande’, inibendone alla medesima l’uso (v. deposizioni -OMISSIS- e-OMISSIS-);

- la-OMISSIS-creava un clima tale di intimidazione che la-OMISSIS-, alle domande della dirigente, non rispondeva più e scoppiava in crisi di pianto (v. deposizione-OMISSIS-), a volte entrando in uno stato d’angoscia fino a sentirsi male e doversi recare presso l’infermeria dell’ente (v. deposizione dell’infermiera -OMISSIS-);

- tale comportamento della dirigente determinava un forte isolamento della-OMISSIS- nell’ambiente lavorativo, tanto che la testimone -OMISSIS- ha dichiarato di aver fatto presente alla predetta che preferiva non farsi vedere in sua compagnia, perché temeva rimproveri da parte della dirigente;

- su ordine della-OMISSIS-, la-OMISSIS- venne trasferita nell’ufficio dove prestava servizio la-OMISSIS-, la quale, in sede testimoniale, riferiva che la nuova dirigente si era recata da lei dicendole, con riferimento alla-OMISSIS-, « questa signora da domani verrà qui e le faccia fare qualcosa come mettere a posto fogli, numerarli », e che essa teste aveva replicato che, a quanto le constava, la-OMISSIS- non aveva intenzione di cambiare ufficio, al che la-OMISSIS-le aveva risposto « non ha nessuna importanza quello che vuole » (v. deposizione-OMISSIS-);

- la-OMISSIS-aveva esautorato la ricorrente, in modo pretestuoso, dalla funzione di organizzare e sovraintendere al trasferimento degli arredi e delle pratiche dalla vecchia alla nuova sede dell’INAIL (incarico, che le era stato assegnato da un precedente dirigente, dott. -OMISSIS-), delegando tali compiti ad altra dipendente;

- la nuova postazione di lavoro – assegnata alla ricorrente all’inizio del 1995, dopo il rientro da un periodo di malattia – era composta di una scrivania, e nient’altro, priva cioè di telefono, computer, calcolatrice, e le sue nuove mansioni si riducevano nel mettere in ordine i fogli sulla scrivania (deposizione-OMISSIS-), ossia nel compito, meramente esecutivo, di mettere in ordine cronologico i verbali ispettivi e in ordine numerico la posta arrivata, con palese demansionamento rispetto alle funzioni precedenti di responsabile del settore Immobiliare dell’Area Servizi;

- durante la pausa pranzo, la dirigente eseguiva spesso dei controlli sulle pratiche presenti sulla scrivania della ricorrente, anche sottraendone qualcuna senza avvisarla (v. deposizione testimoniale di -OMISSIS-, collaboratrice diretta della dirigente).

6.3. Orbene, applicando le coordinate ermeneutiche esposte sub § 6.1. alle circostanze fattuali accertate sub § 6.2. ed analizzando la sequenza temporale degli atti vessatori e delle pertinenti risultanze sanitarie – anche a prescindere sia dalle vicende relative alla denuncia penale, presentata su asserito input della-OMISSIS-da un dipendete INAIL ad essa gerarchicamente subordinato, per una supposta sottrazione di documenti e forzatura di una porta, cui erano seguite delle perquisizioni, oltre che presso gli uffici della sede INAIL di Asti, anche presso il domicilio dell’odierna appellante, sia dalle vicende del suo trasferimento, in pendenza del procedimento penale poi sfociato in decreto di archiviazione, alle sedi INAIL di Firenze e di Alessandria –, rileva il Collegio che deve ritenersi incontrovertibilmente comprovato che la-OMISSIS-avesse posto in essere, nei confronti dell’odierna appellante, una serie di atti reiterati, sistematici ed intenzionali di demansionamento, di privazione di strumenti essenziali di lavoro, di atteggiamento ostile e di fraseggio offensivo anche in presenza di terzi, che, lungi dal presentarsi come atti episodici e sporadici (come erroneamente ritenuto nell’impugnata sentenza), si sono unificati in un comportamento vessatorio e lesivo, protratto per un periodo di oltre due anni, che, per le sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, per la sua oggettiva natura lesiva dell’integrità morale e della dignità dell’odierna appellante, e per l’intento persecutorio univocamente manifestato dalle modalità della condotta e dalla sua protrazione nel tempo, integrano gli estremi, oggettivi e soggettivi, del mobbing lavorativo.

L’imputabilità della condotta illecita, sub specie di illecito contrattuale ex art. 2087 cod. civ., alla sfera di responsabilità ente datoriale, già discendente dalla non occasionale connessione degli atti lesivi con il rapporto d’impiego intercorso con la-OMISSIS-, dalla posizione di preposta gerarchica rivestita dall’autrice della condotta lesiva e dalla connessa culpa in eligendo e in vigilando , è ulteriormente avvalorata dalla responsabilità in concreto addebitabile all’Istituto che, a fronte delle lettere ripetutamente inviate dalla-OMISSIS- alle Direzioni di Roma e di Torino, non è mai intervenuta con provvedimenti atti a porre fine alla denunziata protratta condotta lesiva dell’integrità psico-fisica e della personalità morale della dipendente, posta in essere dalla propria dirigente, con conseguente manifesta violazione degli obblighi di tutela delle condizioni di lavoro di cui al citato art. 2087 cod. civ..

L’evento lesivo della salute psico-fisica dell’odierna appellante ed il nesso eziologico tra la condotta della preposta gerarchica (rispettivamente dell’ente datoriale) e la lesione della sua integrità psicofisica risultano ampiamente documentati dalla copiosa documentazione medica dimessa, da cui emerge che:

- l’odierna appellante, prima del novembre 1993, non aveva manifestato malattie psico-fisiche (v., in particolare, le certificazioni del medico curante e le deposizioni dei testi-OMISSIS- e -OMISSIS-);

- la stessa, a far tempo dall’inizio dell’anno 1994, ha sofferto di stati patologici psico-fisici (caratterizzati da -OMISSIS-) reattivi agli eventi stressanti del contesto lavorativo, sfociati in una sindrome cronica -OMISSIS-(v. doc. 25, 26, 43, 44, 45, 46 e 76), inquadrabile, sotto un profilo medico-legale, come sindrome psicopatologica di « -OMISSIS- », con « -OMISSIS- » (v. la relazione medico-legale del Prof.-OMISSIS-, prodotta il 17 settembre 2014, sostanzialmente coincidente con le risultanze della relazione medico-legale della Dott.ssa -OMISSIS-del 19 novembre 2010).

Il nesso eziologico tra la condotta mobbizzante posta in essere dalla superiore gerarchica e lo stato patologico di cui è affetta l’odierna appellante risultano comprovati, per un verso, dall’accertata coincidenza temporale dell’insorgenza della patologia con l’avvicendamento alla direzione della sede di Asti e, per altro verso, dall’accertata oggettiva idoneità della condotta posta in essere dalla superiore gerarchica a produrre nella vittima gli effetti patologici riscontrati [v., sul punto, il seguente passaggio testuale della relazione medico-legale del Prof. -OMISSIS-: « (…) non solo questi fatti sono idonei e causalmente adeguati a produrre quanto si è verificato nella sfera psichica e somatica della Sig.ra-OMISSIS-, ma (…) difficilmente un individuo dotato di normale equilibrio psicofisico può sopportare comportamenti persecutori di questa durata ed entità senza soffrire le conseguenze che ho potuto riscontrare nella stessa Sig.ra-OMISSIS- »].

6.4. Procedendo alla valutazione dei danni, si premette che l’appellante, nel ricorso in appello, chiede il ristoro sia di varie voci di danno non patrimoniale – di cui euro 116.509,63 a titolo di danno biologico in relazione ad una percentuale di inabilità parziale permanente del 35%, ed euro 58.254,81 a titolo di danno morale, oltre al danno all’immagine (o alla reputazione) e alla dignità (o all’onore) da liquidarsi in via equitativa –, sia i danni patrimoniali esposti nell’importo complessivo di euro 7.363, 43 (per spese mediche e sanitarie).

6.5. Per quanto attiene ai danni non patrimoniali, si osserva che secondo il prevalente orientamento della Corte di Cassazione in materia, il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia e omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, con la conseguenza che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale (v. Cass. Civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, e le relative ‘sentenze-gemelle’ di pari data;
v., da ultimo, nello stesso senso, Cass. Civ., Sez. III, 24 settembre 2014, n. 20111; contra , di recente, un indirizzo minoritario, secondo cui il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente: Cass. Civ., Sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361), con conseguente riconduzione ad unità del concetto di danno non patrimoniale alla salute, comprensivo di tutti gli aspetti con ricadute negative sull’integrità psico-fisica e relazionale della persona lesa, da valutare in modo unitario e globale in un’ottica di personalizzazione con riguardo al caso concreto.

6.5.1. In punto di quantum dei danni non patrimoniali, si osserva che nella consulenza medico-legale di parte dimessa dall’odierna appellante il 17 settembre 2014 (v. relazione medico-legale del Prof.-OMISSIS-) l’entità dei postumi invalidanti permanenti incidenti sull’integrità psico-fisica della-OMISSIS- risulta determinata nella percentuale d’invalidità del 35%, con conclusioni non specificamente contestate dall’Istituto appellato.

6.5.2. Ai fini della liquidazione, improntata ad una valutazione unitaria del danno non patrimoniale biologico e di ogni altro danno non patrimoniale connesso, ivi compreso il danno morale, si ritiene congruo adottare quale criterio di base i valori risultanti dalle tabelle elaborate ed aggiornate dell’Osservatorio per la giustizia civile di Milano del 19 giugno 2014 (come pubblicate sul relativo sito internet ), che, in aderenza al citato indirizzo giurisprudenziale prevalente della Corte di Cassazione, operano una liquidazione congiunta sia « del danno non patrimoniale conseguente a lesione permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi ovvero peculiari », sia « del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore e sofferenza soggettiva, in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione », includendo nei nuovi valori del c.d. « punto » anche la componente di danno non patrimoniale relativa alla sofferenza soggettiva, e prevedendo percentuali massime di aumento da utilizzare in via di c.d. personalizzazione (v. le esplicazioni dei criteri tabellari aggiornati, formulate dall’Osservatorio).

Orbene, applicando le menzionate previsioni tabellari al caso di specie e tenuto conto dell’età dell’odierna appellante (nata il 7 luglio 1952), di anni 43 all’epoca di cessazione della permanenza dell’illecito e di consolidazione dei postumi permanenti (luglio 1995), e tenuto conto della percentuale invalidante del 35%, l’importo risarcitorio tabellare è pari ad euro 194.984,00, che, aumentato in via equitativa del 15% sulla base di un giudizio di personalizzazione, che tiene conto della particolarità degli effetti afflittivi, anche sul piano relazionale e dell’immagine nell’ambiente lavorativo e sociale, subiti dall’odierna appellante, dà un importo finale di euro 224.231,60.

L’importo risarcitorio così liquidato, espresso in moneta attuale, dovrà essere devalutato a ritroso alla data dell’infortunio (sotto uno stretto profilo monetario, ai fini del calcolo degli interessi sugli importi da rivalutare di anno in anno), per poi essere maggiorato di rivalutazione monetaria e degli interessi legali in applicazione dei correnti criteri civilistici (v. Cass. Civ., Sez. Un., 12 febbraio 1995, n. 1712).

6.6. Nulla può riconoscersi a titolo di danni patrimoniali, in carenza di prova rigorosa delle relative voci di danno emergente.

7. Considerato l’esito della lite, le spese del doppio grado di giudizio, come liquidate nella parte dispositiva, devono essere poste a carico dell’Istituto appellato.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi