Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2023-09-29, n. 202308578
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Testo completo
Pubblicato il 29/09/2023
N. 08578/2023REG.PROV.COLL.
N. 06610/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6610 del 2021, proposto da
-OMISSIS- rappresentato e difeso dagli avvocati G S e P A, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocata E M in Roma, via Santa Costanza, n. 27;
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio nei suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS- resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 luglio 2023 il Cons. Alessandro Enrico Basilico e udita per l’appellante l’avvocata Daniela Gambardella per delega dell’avvocato G S;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. L’appellante, Assistente della Polizia di Stato, impugna la sentenza con cui il TAR ha respinto la sua domanda di condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni derivanti dalla sospensione cautelare dal servizio disposta nei suoi confronti.
2. In punto di fatto, si rileva che egli è stato tratto in arresto, per i delitti di cui agli artt. 416, 110 e 317 cod. pen., in data 9 luglio 2001, quando era in servizio presso la Sezione Polizia Stradale di Caserta – Sottosezione Polizia Stradale Caserta Nord, in forza dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 5 luglio 2001 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
3. Lo stesso giorno, l’Amministrazione ha disposto la sua sospensione cautelare dal servizio ai sensi dell’art. 9, co. 1, del DPR n. 737 del 1981.
4. In seguito, il Tribunale del riesame di Napoli ha emesso un’ordinanza di annullamento relativamente al reato di cui all’art. 416 cod. pen. e l’appellante è stato scarcerato e sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari.
5. In data 26 ottobre 2001, con ordinanza del GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, anche tale misura cautelare è stata sostituita con quella coercitiva dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, la quale era poi a sua volta revocata in data 23 ottobre 2002.
6. Sul piano del rapporto d’impiego, invece, la sospensione cautelare è stata tacitamente prorogata fino al 10 luglio 2006, data in cui è stato adottato il decreto n. 332/01, in forza del quale l’appellante è stato riammesso in servizio.
7. Inoltre, essendo ancora in corso il giudizio di primo grado, l’appellante è stato inviato in missione presso la questura di Verona;la stessa missione è stata revocata in data 27 marzo 2007 e l’appellante è stato trasferito d’ufficio, per motivi d’incompatibilità ambientale, alla Questura di Roma – Commissariato distaccato di Velletri.
8. Il processo penale si è concluso con la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. 908 del 21 giugno 2007 di assoluzione per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste (esito chiesto dallo stesso pubblico ministero);in seguito, con ordinanza del 9 luglio 2010, la Corte d’appello di Napoli ha liquidato a suo favore la somma di 23.000 euro a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione.
9. L’appellante è stato assolto anche nel giudizio di responsabilità pendente a suo carico dinanzi alla Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale della Campania, con sentenza n. 751 dell’1 aprile 2008.
10. La sospensione cautelare dal servizio, a suo tempo emessa dal Dirigente del Compartimento della Polizia Stradale di Napoli con effetto dal 9 luglio 2001 fino al 9 luglio 2006, è stata revocata con decreto del Capo della Polizia di Stato del 9 maggio 2008.
11. Ritenendo che il comportamento tenuto dall’Amministrazione sia stato illegittimo, il poliziotto ha agito dinanzi al TAR chiedendo il risarcimento dei danni patiti.
12. Secondo l’attore, la sospensione cautelare dal servizio, disposta quale atto dovuto a seguito dell’arresto, avrebbe dovuto essere revocata d’ufficio dall’Amministrazione subito dopo la sua scarcerazione, con successiva riammissione in servizio oppure adozione di un provvedimento motivato di sospensione “facoltativa”;avendo invece tacitamente rinnovato l’originaria sospensione “obbligatoria”, in maniera illegittima e immotivata, il Ministero gli avrebbe arrecato danni patrimoniali (nei termini del pregiudizio alle possibilità di carriera per non aver potuto partecipare a concorsi interni dal 2001 al 2005) e non patrimoniali (sia alla salute, avendo questi sviluppato una sindrome ansiosa depressiva, sia morali, esistenziali e d’immagine).
13. Il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che l’estinzione della sospensione obbligatoria non sia automatica, ma presupponga una richiesta dell’interessato (che nella specie non è stata avanzata), e che il ricorrente non avesse fornito la prova del danno subito.
14. L’interessato ha presentato appello, con il quale, oltre a censurare la sentenza di primo grado, ha anche proposto motivi aggiunti, lamentando la mancata esecuzione della sentenza n.-OMISSIS-del TAR del Lazio, passata in giudicato, con cui sono stati annullati i giudizi complessivi attribuiti per gli anni 2002, 2003, 2004 e 2005, nei termini dell’omesso aggiornamento delle annotazioni contenute nel suo foglio matricolare del ricorrente, e chiedendo anche per questo il ristoro dei danni patiti.
15. Nel giudizio di secondo grado si è costituita l’Amministrazione, domandando il rigetto del gravame.
16. Nel corso del processo, l’appellante ha depositato scritti difensivi, approfondendo le proprie tesi.
17. All’udienza pubblica dell’11 luglio 2023, il Collegio ha indicato alle parti la questione, rilevata d’ufficio, della possibile inammissibilità dei motivi aggiunti;quindi, svoltasi la discussione anche su questo punto, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
18. Con unico articolato motivo di appello, si deduce: « Difetto di motivazione: errore/travisamento di fatto. Violazione e falsa applicazione degli artt. 9 commi 2, 3, 5 e art. 10 D.P.R. 737/81 in relazione agli artt. 95, 97 e 205 del D.P.R. 3/1957. Violazione falsa applicazione degli artt. 129 e 154 ter disp. att. c.p.p. - Eccesso di potere. Violazione art. 2 e 7 legge 241/90. Danni morali, esistenziali ed all’immagine, patiti dal ricorrente per effetto del comportamento tenuto dall’Amministrazione nell’intera vicenda ».
19. Secondo l’appellante, il Tribunale avrebbe innanzitutto errato nel ritenere che il dipendente scarcerato abbia l’onere di chiedere la revoca della sospensione, dovendo provvedervi d’ufficio l’Amministrazione una volta ricevuta notizia della pronuncia favorevole da parte dell’autorità giudiziaria.
20. La censura è infondata, come emerge da un esame dell’art. 9 del DPR n. 737 del 1981, che disciplina la sospensione dal servizio dell’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regola quindi il caso di specie.
Tale disposizione prevede due diverse ipotesi di sospensione: una prima, di natura obbligatoria, nei confronti di chi sia colto da ordine o mandato di cattura o si trovi comunque in stato di carcerazione preventiva (co. 1);una seconda, di tipo facoltativo, negli altri casi in cui il dipendente sia sottoposto a procedimento penale, quando la natura del reato sia particolarmente grave (co. 2).
Il terzo comma stabilisce che « in caso di concessione di libertà provvisoria ovvero di revoca dell’ordine o mandato di cattura o dell’ordine di arresto ovvero di scarcerazione per decorrenza dei termini, ove le circostanze lo consiglino, la sospensione cautelare può essere revocata con effetto dal giorno successivo a quello in cui il dipendente ha riacquistato la libertà e con riserva di riesame del caso quando sul procedimento penale si è formato il giudicato ».
Quest’ultimo comma, facendo riferimento al riacquisto della libertà da parte dell’imputato, e presupponendo dunque la precedente emissione a suo carico di un provvedimento custodiale, riguarda la situazione di chi sia stato destinatario di un provvedimento di sospensione “obbligatoria”: prevedendo che, in questi casi, la misura « può » essere revocata (non già “deve essere”, “viene” o “è” revocata), la norma attribuisce all’Amministrazione un potere di natura discrezionale, invitandola a valutare la permanente corrispondenza della misura all’interesse pubblico alla luce del mutamento delle circostanze.
21. Pertanto, la scarcerazione del dipendente non comporta automaticamente la cessazione della sospensione dal servizio, la quale « può » essere revocata « ove le circostanze lo consiglino », ossia, secondo una lettura sistematica del comma in combinato disposto con quelli precedenti, quando la natura del reato per cui si procede non sia particolarmente grave e non vi siano quindi i presupposti nemmeno per la sospensione “facoltativa”.
Ne consegue che la sospensione dal servizio, in origine disposta in ottemperanza all’obbligo di cui al co. 1, permane anche a seguito della liberazione del poliziotto, salvo che l’Amministrazione non adotti, nell’esercizio della discrezionalità attribuita dal co. 3, una revoca espressa.
Il privato colpito dal provvedimento sfavorevole ben può sollecitare l’esercizio del potere in questione e ha l’onere di farlo al fine di evitare danni ulteriori.
22. Per contrastare queste argomentazioni, l’appellante invoca la sentenza n. 264 del 1990 della Corte costituzionale, con cui è stata giudicata infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., rispetto all’art. 97, co. 2, 3 e 4, del DPR n. 3 del 1957, nella parte in cui prevede che il procedimento disciplinare a carico del dipendente pubblico non possa più essere iniziato o rinnovato trascorsi 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento, pronunciata con formule diverse da « il fatto non sussiste » o « l’imputato non l’ha commesso ».
Tale arresto, secondo l’appellante, avrebbe chiarito che la facoltà dell’impiegato di attivarsi per far cessare lo stato di sospensione non può essere trasformata in un obbligo o in un onere a suo carico.
A ben vedere, tuttavia, quella pronuncia riguardava la legittimità del termine previsto a pena di decadenza per l’inizio del procedimento disciplinare e decorrente dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento (il quale è stato ritenuto dalla Corte un ragionevole punto di bilanciamento tra l’interesse dell’Amministrazione a esercitare il potere disciplinare e quello dell’impiegato a vedere definita la sua posizione entro un congruo termine): si trattava dunque di una fattispecie completamente diversa da quella del caso di specie, che riguarda invece la sospensione dal servizio, la quale non ha finalità disciplinare o sanzionatoria, bensì cautelare, « in quanto prescinde da qualsiasi accertamento in ordine alla responsabilità dell’inquisito e non implica alcuna valutazione, neppure approssimativa e provvisoria, circa la colpevolezza dell’interessato. Essa, infatti, non pregiudica l’integrale reintegrazione del dipendente nelle funzioni e negli assegni non percepiti e si pone quale rimedio provvisorio a tutela dell’interesse pubblico ad evitare il pregiudizio per la regolarità del servizio e per il prestigio dell’amministrazione che deriverebbe dalla permanenza in servizio del dipendente, al quale sono attribuiti i fatti di reato » (Cons. St., sez. II, sent. 8166 del 2022, e precedenti ivi citati).
Anzi, proprio nella motivazione della sentenza n. 264 del 1990, il Giudice delle leggi ha osservato come la facoltà per l’impiegato di far decorrere, per l’esercizio del potere disciplinare dell’Amministrazione, un termine di decadenza più breve dei 180 giorni notificando la sentenza favorevole – che non può trasformarsi in un « onere, peraltro a rischio di colui a carico del quale tale onere verrebbe imposto, di sollecitare l’apertura o la prosecuzione del procedimento stesso che potrebbe risolversi in senso a lui sfavorevole » – « sembra più propriamente collegata alla ipotesi in cui egli sia sospeso cautelarmente dal servizio e vogli far cessare tale stato ».
La sentenza della Corte, dunque, conferma che il dipendente che sia stato sospeso in via cautelare ha, quale mezzo di tutela, la possibilità di richiedere di rientrare in servizio, dando atto del venir meno dei presupposti della misura.
A questo si deve aggiungere che, nel tempo, l’ordinamento si è evoluto prevedendo nuovi strumenti di tutela del cittadino una tutela piena ed effettiva nei confronti dell’esercizio o del mancato esercizio del potere amministrativo, tra cui l’azione avverso l’inerzia dell’Amministrazione nell’esercizio del potere, che il dipendente sospeso e poi scarcerato potrebbe esperire proprio per compulsare una presa di posizione sulla sua situazione.
23. Le censure dell’appellante sono dunque infondate perché, come correttamente rilevato dal TAR, questi non risulta aver chiesto la revoca della sospensione.
24. L’appellante sostiene poi che il TAR abbia errato nel ritenere che il dipendente scarcerato abbia l’onere di presentare istanza, a seguito dell’assoluzione, per ottenere la “ restitutio in integrum ”, consistente nell’attribuzione degli assegni non percepiti e dei benefici perduti rispetto alla progressione di carriera, dovendo provvedervi d’ufficio l’Amministrazione una volta ricevuta notizia della pronuncia favorevole da parte dell’autorità giudiziaria.
25. La censura è inammissibile, sia perché è dedotta in modo generico, senza specificare a quali assegni e benefici si faccia riferimento, sia perché l’Amministrazione ha invero revocato a ogni effetto la sospensione, così assicurando già quell’effetto ripristinatorio che l’appellante vorrebbe ottenere mediante una pronuncia favorevole.
26. Sotto altro profilo ancora, il TAR avrebbe errato nel negare all’appellante il riconoscimento del danno ingiusto cagionatogli dalla decisione dell’Amministrazione di confermare la sospensione cautelare del servizio e dall’omissione della “ restitutio in integrum ”.
27. La censura è infondata.
Il « danno ingiusto » per il quale, ai sensi dell’art. 30, co. 2, cod. proc. amm., può essere chiesta la condanna al risarcimento deriva dall’« illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria ».
Nel caso di specie, manca il presupposto dell’illegittimità dell’azione amministrativa: come sopra esposto, la sospensione dal servizio non richiede una valutazione ancorché sommaria delle eventuali responsabilità penali o disciplinari del destinatario, perché ha finalità cautelari e mira a tutelare l’immagine dell’Amministrazione di appartenenza;proprio alla luce dello scopo della misura, nella specie essa non era ingiustificata né irragionevole, data la gravità delle accuse e la connessione con le funzioni svolte.
28. Infine, l’appellante sostiene che il TAR abbia errato nel negare che sia stata data la prova dei danni subiti, in quanto il danno biologico sarebbe stato dimostrato con una perizia di parte e comprovato dal riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della malattia da cui è affetto, mentre quello non patrimoniale sarebbe derivato dall’impossibilità di partecipare agli esami e scrutini di promozione.
29. Il Collegio può esimersi dal pronunciarsi sulla censura, perché la mancata richiesta di cessazione della sospensione e l’omessa censura del trasferimento per incompatibilità ambientale rappresentano condotte del danneggiato che hanno interrotto il nesso causale tra i provvedimenti di cui egli oggi lamenta la lesività e i pregiudizi di cui chiede il ristoro.
Considerato quindi che tali danni si sarebbero potuti evitare attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti, è da escludere la condanna dell’Amministrazione, pertanto non vi è ragione di valutarne l’ammontare dei danni asseritamente risarcibili.
30. Il motivo di appello, nelle sue varie censure, è dunque complessivamente meritevole di rigetto.
31. I motivi aggiunti, con cui si chiede che l’Amministrazione sia condannata a dare esecuzione alla sentenza n.-OMISSIS-del TAR del Lazio e al risarcimento del danno per non avervi finora provveduto, sono inammissibili, sia perché la richiesta è stata avanzata solo in appello, in violazione del divieto di presentare nuove domande sancito dall’art. 104 cod. proc. amm. (e senza che sia invocabile, in questo caso, il co. 3, che consente la proposizione dei soli motivi aggiunti “propri”, ossia consistenti in ulteriori censure rispetto ad atti già impugnati in primo grado: si v., tra le più recenti, Cons. St., sez. V, sent. n. 2541 del 2023), sia perché il mezzo di tutela tipico ed esclusivo nei confronti della mancata esecuzione del giudicato è l’azione di ottemperanza, da instaurarsi dinanzi al Tribunale che ha emesso la sentenza da eseguire.
32. La particolarità della vicenda, anche in fatto, giustifica la compensazione delle spese del grado.