Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2012-06-06, n. 201203337

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2012-06-06, n. 201203337
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201203337
Data del deposito : 6 giugno 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10476/2002 REG.RIC.

N. 03337/2012REG.PROV.COLL.

N. 10476/2002 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10476 del 2002, proposto da C R, rappresentato e difeso dall'avv. A N, con domicilio eletto presso Luigi Gardin in Roma, via Laura Mantegazza, 24;
Z C vedova C;
C Stefano erede di C R, C Elvio erede di C R, C Andrea erede di C R, rappresentati e difesi dall'avv. A N, con domicilio eletto presso lo studio legale Bdl in Roma, via Bocca di Leone, 78;

contro

il Comune di Castro, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, n. c. ;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZIONE STACCATA DI LECCE -SEZIONE I, n. 2326/2002, resa tra le parti, concernente RIFIUTO DI CONCESSIONE EDILIZIA -CONDONO EDILIZIO, di rigetto del ricorso proposto contro a) la nota 20 dicembre 2000 prot. n. 992 con la quale il responsabile del Settore Tecnico del Comune di Castro ha respinto l'istanza di condono edilizio presentata il 25 febbraio 1995 dal ricorrente allo scopo di ottenere la sanatoria di un immobile sito alla Via Vicinale del Canale, ritenendo superata la volumetria massima condonabile con riferimento al momento della domanda di condono;
b) l’ordinanza di demolizione n. 10 del 12.10.2001 e c) ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale compresi, ove occorra, il parere sfavorevole reso dalla Commissione edilizia comunale nella seduta del 30 novembre 2000 e le note interlocutorie a firma del Tecnico comunale del 12 febbraio 1998 e dell'11 dicembre 1998;
e per la condanna del Comune di Castro al risarcimento dei danni;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 28 febbraio 2012 il cons. M B e udito per la parte appellante l’avv. Saverio Sticchi Damiani, per delega dell'avv. A N;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.- Il TAR Puglia –Lecce, con la sentenza in epigrafe, ha respinto il ricorso proposto dal signor Romeo C per l'annullamento dei provvedimenti e degli atti sopra specificati alle lettere da a) a c) .

Nel rigettare il ricorso il TAR ha giudicato infondata, in particolare, la censura centrale con la quale il ricorrente aveva affermato che ai fini del calcolo della volumetria massima sanabile occorreva avere riguardo alla consistenza del manufatto non alla data della domanda di condono (febbraio 1995), ma al momento successivo (nella specie, novembre 1997) della sistemazione e del completamento funzionali dell’opera.

Il TAR ha poi respinto anche le censure di violazione dell’art. 7 della l. n. 241/90 e di omessa individuazione dell’area che, nel caso di inottemperanza, deve formare oggetto di acquisizione gratuita ai sensi dell’art. 7, comma 3, della l. n. 47/85.

Le istanze cautelari presentate avanti al TAR e al Consiglio di Stato nel 2001 sono state respinte, rispettivamente, con le ordinanze nn. 597/01 e 3043/01.

Con ricorso ritualmente notificato e depositato il C ha proposto appello contestando le statuizioni e argomentazioni della sentenza e ribadendo, in particolare, che il computo della volumetria massima condonabile (750 mc.) andava operato non, come ha fatto il Comune, con riferimento alla condizione dell’opera abusivamente realizzata al momento della presentazione della domanda di sanatoria, ma avendo riguardo alla situazione del manufatto in seguito agli interventi di completamento funzionale del medesimo. Nella specie, in base agli elaborati grafici e alle relazioni tecniche prodotte al Comune nel novembre del 1997, in base, cioè, alla “sistemazione delle opere previste a completamento”, la cubatura dell’immobile era di circa 748 mc., inferiore quindi al limite dei 750 mc. imposto dall’art. 39 della l. n. 724 del 1994 sul condono edilizio.

Il C è deceduto e gli eredi hanno notificato atto di riassunzione del processo, che è stato deciso –senza che il Comune si fosse nel frattempo costituito- all’udienza del 28.2.2012.

2.-Il ricorso è maturo per essere deciso, sicché l'istanza di rinvio, formulata in attesa di conoscere l'esito della domanda di riesame della pratica di condono “medio tempore” presentata in Comune,

procedimento che non è presupposto di quelli in esame ma semmai consequenziale, va respinta, fermo restando che la pratica amministrativa di riesame della istanza di condono potrà comunque avere il suo corso.

Ciò posto, l’appello è infondato e la sentenza impugnata va confermata.

L’appellante premette che la sentenza del TAR sarebbe affetta da vizio di ultrapetizione là dove, a pag. 4 della sentenza, si osserva che l’avvenuta presentazione al Comune, nel novembre del 1997, degli elaborati grafici e delle relazioni tecniche, avrebbe comportato una “modifica sostanziale più che una integrazione della originaria domanda di condono”, come tale non più ammissibile a causa della perentorietà del termine del 31 marzo 1995 stabilito “a pena di decadenza” dall'art. 39, comma 4, della l. n. 724 del 1994. La qualificazione della produzione documentale del novembre del 1997 come “integrazione della originaria domanda di condono o modifica sostanziale di essa –prosegue l’appellante- non ha mai formato oggetto di contestazione da parte del Comune che, anzi, ha sempre valutato la documentazione in prosieguo prodotta dall'appellante come integrativa di quella originaria”, consistendo, invece, la questione di fondo sulla quale si basa la verifica della legittimità del diniego di condono nello stabilire se il computo della volumetria vada fatto con riferimento allo stato dell'immobile abusivo al momento della presentazione della domanda di condono (1995) ovvero avendo riguardo allo stato del manufatto conseguente alla esecuzione delle opere di completamento funzionale (1997).

Il profilo di censura dedotto è infondato e, inoltre, irrilevante, tenuto conto della motivazione che, nel complesso, sorregge la sentenza.

In primo luogo va rammentato che in tema di ultrapetizione, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio, il che esime il Collegio dal fare citazioni particolari, è regola generale che il giudice deve concretamente esercitare il potere giurisdizionale nell'ambito della esatta corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., pacificamente applicabile al processo amministrativo. Tale regola rappresenta, proprio con riferimento al concreto esercizio della “potestas iudicandi”, l'espressione preminente del potere dispositivo delle parti, nel senso che il giudice non può pronunciare oltre i limiti della concreta ed effettiva questione che le parti hanno sottoposto al suo esame e dunque oltre i limiti del “petitum” e della “causa petendi”, ulteriormente specificati nell'ambito del processo amministrativo dai motivi di ricorso, con la conseguenza che sussiste il vizio di ultrapetizione solo quando il giudice abbia attribuito alla parte un bene della vita, una utilità che non era stata richiesta e quando, con particolare riferimento al processo amministrativo, fondato sulla denuncia di motivi di illegittimità, abbia esaminato ed accolto il ricorso per un motivo non prospettato dalle parti.

Ora, nel caso in esame il TAR, a pag. 4 della sentenza, non ha pronunciato oltre i limiti della concreta ed effettiva questione che il ricorrente aveva sottoposto al suo esame, ma si è limitato a prendere le mosse dalla affermazione per cui la produzione documentale del 13 novembre 1997 implica una “modifica sostanziale più che una integrazione della originaria domanda di condono, non più ammissibile” giacchè l'art. 39, comma 4, della l. n. 724/94 stabilisce che “la domanda di concessione o di autorizzazione in sanatoria…deve essere presentata al comune competente, a pena di decadenza, entro il 31 marzo 1995”, salvo subito dopo rimarcare –correttamente, peraltro, come si vedrà più sotto- la infondatezza della pretesa del C anche ove si ritenga che la presentazione degli elaborati grafici e delle relazioni tecniche nel 1997 rappresenti una mera integrazione della domanda avanzata nei termini (da ciò discende, in ogni caso, la irrilevanza del profilo di censura).

Il TAR non ha insomma esorbitato dai confini della questione centrale sottoposta alla sua attenzione, essendosi limitato a muovere da un presupposto argomentativo –ancipite, come detto- che, per la prima delle due “diramazioni”, trova sostegno nell'istruttoria svolta dal Comune e, in particolare, nella nota 11 dicembre 1998, in atti, con la quale l'Ufficio Tecnico aveva fatto presente la palese non corrispondenza, in termini di volumetria, tra le opere effettivamente realizzate, come evidenziate negli elaborati grafici prodotti, e le opere per le quali era stata chiesta la sanatoria.

Si può passare ora alla questione centrale sulla quale ruota il giudizio di appello, vale a dire alla questione se il computo della volumetria vada fatto con riferimento alla consistenza dell’immobile alla data della domanda di condono (tesi del Comune e del TAR), oppure avendo riguardo allo stato del manufatto in seguito alle opere di completamento funzionale (tesi del ricorrente/appellante).

Non può essere condivisa la tesi dell'appellante per la quale, dagli articoli 31 e 35 della l. n. 47/85 e 39 della l. n. 724/94 si evince che, ai fini del calcolo della volumetria massima condonabile, occorre avere riguardo alle dimensioni che il manufatto è risultato avere in esito al completamento funzionale dell’opera abusiva ultimata alla data del 31.12.1993, operando la distinzione tra ultimazione dell’opera come completamento al rustico e dotazione della copertura, alla data del 31.12.1993, quale condizione rilevante solo per la valutabilità astratta della domanda di condono, e condizione del manufatto all'esito del completamento funzionale, quale requisito richiesto per la condonabilità concreta dell’opera, non correlato, quest’ultimo, ad alcun riferimento temporale.

A questo proposito, come è stato correttamente osservato dal giudice di primo grado:

-la domanda di condono è un onere per il cittadino, al quale spetta di definirne l'esatto contenuto in ossequio ai principi di correttezza e di buona fede nei rapporti con la P.a. e in conformità a quanto sancito dall'art. 39 della l. n. 724 del 1994, ove del caso rappresentando al Comune, che deve rilasciare la concessione in sanatoria, come l'opera, ultimata al rustico alla data del 31 dicembre 1993, sarà completata. In questa fase occorre tuttavia avere riguardo al momento ultimo entro il quale la domanda di concessione in sanatoria deve essere presentata, a pena di decadenza, ex art. 39, comma 4, della l. n. 724 del 1994 (vale a dire al 31.3.1995), la formulazione delle norme non autorizzando interpretazioni diverse da quella suindicata;

-nella specie, la domanda di condono, presentata il 25 febbraio 1995, non faceva alcun riferimento a interventi di completamento funzionale, mentre soltanto nel novembre del 1997, quindi tardivamente, il C ha depositato in Comune gli elaborati grafici e le relazioni tecniche da cui si evincerebbe una volumetria condonabile inferiore al limite dei 750 m³;

-ma anche a voler qualificare la presentazione degli elaborati e delle relazioni tecniche su citate come una mera integrazione della domanda presentata in termini, pur non essendo ben chiaro quale sia il tipo di intervento inteso a contenere la volumetria espressa “al rustico” (nel ricorso al TAR si parla infatti di “sistemazione dei piani di calpestio” –pag. 8 ric., mentre nella corrispondenza intercorsa con il Comune si parla di “riempimento del vuoto sotto il piano seminterrato”), in entrambi i casi il preteso completamento funzionale –sono parole del TAR, che questo Collegio fa proprie- rappresenta un mero artificio inidoneo di per sé a ricondurre l'abuso entro i limiti volumetrici previsti dall’art. 39 della l. n. 724 del 1994. E infatti:

-nell'ipotesi in cui l'intervento consista effettivamente nella “definizione dei piani di calpestio”, tale sistemazione non è idonea a elidere la copertura dell'edificio così come la stessa emerge dal piano di campagna;

-qualora invece l’intervento di completamento, come parrebbe ricavarsi dagli elaborati grafici prodotti, consista nel riempimento e nel livellamento del vuoto esistente sotto i vani del piano terra, realizzandosi un terrapieno con un muro di contenimento allo scopo di interrare artificialmente uno dei lati dell’edificio, occorre tenere presente che ai fini del calcolo della volumetria assentibile, anche in sanatoria, il parametro da considerare è quello del piano originario di campagna, vale a dire quello del livello naturale del terreno, e non la quota del terreno “sistemato” mediante scavi e/o riempimenti, che costituiscono una alterazione dell'andamento naturale del terreno, dato che tutti i volumi che sporgono al di sopra della linea naturale del terreno modificano in modo permanente la conformazione del suolo e dell'ambiente. In tanto i volumi costruiti al di sotto dell' originario piano di campagna non incidono sulla volumetria consentita in quanto il piano di campagna medesimo non venga definitivamente alterato dalla costruzione;
pertanto l'interramento va riferito all' originario piano e non a quello artificiale conseguente a consistenti reinterri (su interramento artificiale e divieto di alterare l'originario piano di campagna cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 3589 del 2002).

Quanto poi ai vizi di legittimità riproposti, con riguardo all’ordinanza di demolizione, relativamente alla dedotta violazione dell’art. 7 della l. n. 241/90 e alla mancata individuazione dell’area che, in caso di inottemperanza, formerà oggetto di acquisizione gratuita ai sensi dell’art. 7, comma 3, della l. n. 47/85:

-sulla insussistenza della rilevata violazione procedimentale va ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto, né essendo necessario acquisire il parere di organi, quali la Commissione edilizia integrata (così, “ex multis”, Cons. St. , sez. V, n. 4764/11, in disparte, poi, il rilievo per cui l'art. 21 –octies della l. n. 241/90, sia pure introdotto dalla l. n. 15/05 e, quindi, in un momento successivo all'adozione del provvedimento impugnato in primo grado, prevede espressamente, al comma 2, primo periodo, l'irrilevanza dei vizi procedimentali allorché il contenuto del provvedimento vincolato corrisponde alla previsione di legge);

-sulla omessa individuazione dell’area di sedime, nella motivazione dell’ordinanza di demolizione non occorre l’esatta individuazione dell’area destinata ad essere acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, bastando la descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente: come affermato da condivisibile giurisprudenza (Cons. St., n. 1998 del 2004), “la funzione dell'ingiunzione di demolizione è quella di provocare il tempestivo abbattimento del manufatto abusivo ad opera del responsabile, rendendogli noto che il mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice demolizione. A tale scopo è quindi sufficiente che l'atto indichi il tipo di sanzioni che la legge collega all'abuso, senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel patrimonio comunale. L'interessato, infatti, può così compiere le proprie valutazioni, le quali non possono essere influenzate dalla semplice non conoscenza delle aree di cui il comune disporrà concretamente l'acquisizione. La l. n. 47 del 1985 ha distinto, nell'ambito dell'art. 7, i due atti, di ingiunzione e acquisitivo, basando il primo sul presupposto dell'abuso, con il contenuto proprio della contestazione della trasgressione e dell'ordine di demolizione, e il secondo sulla verifica di inottemperanza al primo. Requisiti dell'ingiunzione di demolizione sono perciò l'esistenza della condizione che la rende vincolata, cioè l'accertata esecuzione di opere abusive, e il conseguente ordine di demolizione e non anche la specificazione puntuale della portata delle sanzioni, richiamate nell'atto quanto alla tipologia preordinata dalla legge, ma recate con successivo, eventuale provvedimento”.

L’appello va dunque respinto e la sentenza impugnata confermata.

Nulla per le spese, non essendosi costituito il Comune di Castro.

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