Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-02-09, n. 201000628

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-02-09, n. 201000628
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201000628
Data del deposito : 9 febbraio 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 09909/2008 REG.RIC.

N. 00628/2010 REG.DEC.

N. 09909/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 9909 del 2008, proposto da:
Centro Commerciale Sarno Srl Deco, rappresentato e difeso dagli avv. A D L e G A P, con domicilio eletto presso Studio Legale Marenghi in Roma, piazza di Pietra, 63;

contro

Comune di Sarno, rappresentato e difeso dall'avv. M T, con domicilio eletto presso Barbara Balboni in Roma, via Filippo Corridoni N. 23;
Meridiano Srl, rappresentato e difeso dagli avv. A B e M F, con domicilio eletto presso A B in Roma, via Taranto N. 18;

per la riforma

della sentenza del TAR CAMPANIA - SALERNO SEZ. II n. 03698/2008, resa tra le parti, concernente RIPRISTINO DESTINAZIONE D'USO E REVOCA AUTORIZZAZIONE COMMERCIALE.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 novembre 2009 il Cons. Giancarlo Montedoro e uditi per le parti gli avvocati Di Lieto, Marenghi, per delega dell'Avv. Pugliese, Troisi e Brancaccio;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

Con ricorso in appello il Centro Commerciale Sarno srl DECO (d’ora in poi CCS) chiede l’annullamento o la riforma della sentenza del Tar Campania Salerno n. 3698 del 2008 in epigrafe indicata, con la quale è stato respinto il ricorso proposto dall’appellante avverso i seguenti atti :

1) ordinanza prot. N. 20971 del 21 novembre 2007 con cui si ingiunge alla CCS il ripristino ad horas della destinazione d’uso dell’immobile in cui svolge attività commerciale;

2) la relazione tecnica dell’U.O.C.. Controllo edilizio del Territorio prot. N. 5689 del 16 ottobre 2006;

3) la nota prot. n. 3548 del 26 novembre 2007 con cui si comunica alla CCS l’avvio del procedimento di revoca dell’autorizzazione commerciale;

4) dell’ordinanza prot. n. 3811 del 19 dicembre 2007 , a firma del Dirigente del Servizio Attività produttive del Comune di Sarno, con cui si sospende l’autorizzazione commerciale prot. n. 1384 del 6 dicembre 1996 , rilasciata all’appellante per l’esercizio di una media struttura di vendita e si dispone la chiusura immediata dell’attività;

5) ove occorra, e per quanto di interesse della risoluzione del Ministero dello Sviluppo Economico- Direzione Generale per il commercio prot. n. 7816 del 7 agosto 2007;

6) di ogni altro atto presupposto, connesso o conseguente ostativo all’accoglimento del gravame.

Il ricorso di primo grado notificato in data 5 dicembre 2007 e depositato il 10 dicembre successivo, della società Centro commerciale Sarno s.r.l., in particolare, impugnava l’ordinanza, prima indicata, con la quale il dirigente del servizio delle attività produttive del Comune di Sarno le aveva ingiunto il ripristino della destinazione d’uso dell’immobile destinato allo svolgimento della propria attività commerciale, all’uopo premettendo, in punto di fatto:

a) che la costruzione dell’immobile de quo era stata regolarmente assentita in virtù di licenza edilizia (prot. n. 1869) risalente addirittura al 13 novembre 1969;

b) che – secondo quanto era dato asseritamente evincere dalla relativa istanza di rilascio e dai progetti ad essa allegati – l’immobile era stato ab origine realizzato per essere destinato allo svolgi-mento “di attività di tipo economico” (ond’è che nella ridetta istanza, a suo tempo articolata, era precisato che nella realizzanda struttura “[avrebbero potuto] lavorare circa 50 persone”);

c) che su tale originaria destinazione non aveva inciso (né, in tesi, avrebbe potuto) la successiva regolamentazione impressa all’area dal piano di fabbricazione (approvato con D.P.G.R. n. 1248 del 23 ottobre 1973);

d) che – più in dettaglio – l’evocato strumento urbanistico avrebbe bensì qualificato come zona E l’area di riferimento, facendo però salva la destinazione d’uso già in atto, in assenza di una previsione urbanistica di segno contrario (altro essendo – secondo l’argomento – la destinazione d’uso dell’immobile, altro la destinazione di zona dell’area in cui lo stesso ricadeva);

e) che – per giunta – in data 15 giugno 1996 era stata presentata una prima d.i.a. (prot. n. 15859) per la realizzazione di “opere interne del locale a piano terra da adibire ad attività commerciale”, la quale era stata accolta per silentium e mai fatta oggetto di provvedimento di autotutela;

f) che – ancora – una seconda d.i.a. (prot. n. 22734), anche questa regolarmente assentita e mai fatta oggetto di provvedimenti di secondo grado, era stata prodotta in data 7 agosto 1996, anch’essa per l’esecuzione di lavori relativi “ai locali a piano terra da adibire ad attività commerciale”;

g) che – del tutto coerentemente – in data 6 dicembre 1996 alla ricorrente era stata rilasciata regolare autorizzazione commerciale (di guisa che – da quella data – la società aveva svolto in modo continuativo la relativa attività).

Sulle esposte premesse, lamentava che – a distanza di oltre dieci anni – il Comune di Sarno avesse adottato l’inopinata misura ingiuntiva del ripristino dell’originaria (e, per quel precede, denegata) destinazione d’uso (ed avesse, per di più, preannunziato – mercé la partecipazione di avvio del relativo procedimento – la revoca della rilasciata autorizzazione commerciale, all’uopo prospettando plurime ragioni di doglianza e – segnatamente – lamentando:

1) violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 380/2001 (in una ad eccesso di potere per erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti), avuto riguardo alla ribadita (ed asseritamente travisata) destinazione commerciale dell’immobile, quale emergente per tabulas dalle riassunte premesse in fatto;

2) violazione del d.p.r. n. 380/2001 della l. n. 241/90, della l.r. n. 19/2001 (in una a violazione del giusto procedimento), sotto il profilo per cui – nella asserita sufficienza della denunzia di inizio attività a legittimare mutamenti di destinazione d’uso in assenza di modifiche della sagoma e dei volumi – la contestata misura ripristinatoria avrebbe dovuto, nel rispetto del prefigurato paradigma di legalità dell’azione amministrativa, essere preceduto (ed, oltretutto, in un termine ragionevole) dalla rimozione in autotutela dei titoli abilitativi tacitamente assentiti;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 241/90 e del d.p.r. n. 380/2001 (in una ad eccesso di potere per carenza di motivazione, illogicità, irrazionalità e travisamento dei fatti), avuto ancora una volta riguardo alla erronea valutazione della originaria destinazione commerciale dell’immobile per cui è causa;

4) violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., del d. lgs. n. 112/98, del d.p.r. n. 380/2001 (ed eccesso di potere per sviamento), in considerazione del rilievo che la gravata determinazione comunale sarebbe stata adottata in (singolare) coincidenza con l’iniziativa assunta dalla ricorrente per bloccare la realizzazione di una iniziativa commerciale di una ditta concorrente nello stesso Comune, legittimandosi – per tal via – il sospetto che l’Amministrazione avesse inteso sviatamente prendere posizione nella incipiente “guerra commerciale” tra concorrenti piuttosto che agire per il ventilato rispetto della violata legalità;

5) violazione dell’art. 7 della l. n. 241/90, avuto riguardo alla denunziata omissione della comunicazione di avvio del censurato procedimento.

Con ricorso per motivi aggiunti notificato lite pendente il 20 dicembre 2007 e depositato in pari data, la società ricorrente impugnava, altresì, l’ordinanza del 19 dicembre, meglio distinta in epigrafe, con la quale era stata successivamente disposta la sospensione dell’autorizzazione commerciale rilasciata, come dalla narrativa che precede, nel 1996, all’uopo reiterando, nella prospettiva della illegittimità derivata, le medesime doglianze indirizzate avverso l’ingiunzione di ripristino della destinazione d’uso delle aree ed ulteriormente denunziando, in termini di illegittimità diretta:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 22 del d.lgs. n. 114/98, incompetenza ed eccesso di potere per erroneità dei presupposti, avuto riguardo alla mancanza dei requisiti (gravità del fatto, recidiva, limitazione temporale) per l’adozione della sospensione;

2) violazione e falsa applicazione della l. n. 241/90 (una ad eccesso di potere per carenza di motivazione, erroneità dei presupposti, illogicità, irragionevolezza e sviamento), stante il denunziato difetto della “grave ragione” idonea a legittimare, ai sensi dell’art. 21 quater della legge fondamentale sulla azione amministrativa, la sospensione dell’efficacia del risalente provvedimento autorizzatorio;

3) eccesso di potere, violazione del giusto procedimento, erroneità dei presupposti (e violazione dell’art. 7 – recte , in realtà, 3 – della l. n. 241/90 per il carattere illogico, pretestuoso e fuorviante del censurato supporto motivazionale), stante la censurata valorizzazione, a sostegno della adottata determinazione, di non pertinente (e tuzioristicamente impugnato per quanto di eventuale ragione) parere reso dal Ministero per lo sviluppo economico;

4) violazione e falsa applicazione della l. n. 241/90 e del principio del contrarius actus ed incompetenza, per essere stato il gravato provvedimento adottato da organo diverso da quello autore del sospeso provvedimento di primo grado.

La sentenza impugnata rigetta il ricorso ritenendo che esso muova dal presupposto erroneo secondo il quale l’immobile per cui è causa abbia ab origine una destinazione commerciale mentre il capannone per cui è causa era sorto come da domanda per l’ottenimento di una licenza per lavori edili “per il deposito e la prima lavorazione di prodotti agricoli” onde si trattava di opificio agricolo, avente ad oggetto attività imprenditoriale sì ma agricola.

Si esamina in sentenza la questione della qualificazione di zona recata dal piano di fabbricazione nel 1973 , che imprime all’area destinazione agricola ( piano non impugnato dalla ditta appellante ).

Si rileva che le d.i.a. escludono il mutamento di destinazione di uso.

Si rileva che le censure di eccesso di potere non hanno pregio stante il carattere di atto dovuto dell’ingiunzione impugnata.

Si rileva in ultimo che anche il mancato contraddittorio non avrebbe potuto ridondare in ragione di annullamento a causa del canone antiformalistico scolpito dall’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990.

Si travolgono i motivi aggiunti presentati avverso il provvedimento di sospensione dell’autorizzazione commerciale, attesa la loro dipendenza dal predetto indimostrato presupposto : la conformità urbanistica.

L’appello dopo aver notato che vi era stata la pubblicazione elettronica di un dispositivo di improcedibilità, seguito da una diversa sentenza, si articola nei seguenti motivi:

1) Error in iudicando . Violazione e falsa applicazione della legge n. 1034 del 1971;
della legge n. 1150 del 1942;
del d.p.r. n. 380 del 2001;
della l.r.Campania n. 16 del 2004. Eccesso di potere per erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti.

Con questo motivo si contesta che la licenza edilizia originaria non consentisse altro che la realizzazione di un capannone a destinazione agricola.

Si rileva che il capannone – originariamente - occupava cinquanta lavoratori , tipiche dell’attività conserviera ossia di una attività di trasformazione produttiva.

Il Registro delle imprese istituito presso la Camera di Commercio di Salerno riporta per la ditta esercente nel capannone la dizione “industria conserviera”.

Il procedimento espropriativo oggetto di appello innanzi al Consiglio di Stato conclusosi con sentenza n. 561 del 1987 conferma che si tratta di uno stabilimento industriale, quindi una attività imprenditoriale , collegata solo indirettamente al fatto agricolo.

In sostanza non esisteva una rigida disciplina della destinazione d’uso , economica, che all’epoca di rilascio della licenza edilizia significava tutto, e quindi anche commercio.

La destinazione di zona sarebbe altra cosa rispetto alla destinazione dell’immobile, per cui irrilevante si appaleserebbe il piano di fabbricazione citato dal giudice di prime cure.

2) Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione della l.n. 1034 del 1971;
del d.p.r. n. 380 del 2001;
della legge n. 241 del 1990;
della l.r. Campania n. 19/2001. Violazione del giusto procedimento.

Con il secondo motivo si sostiene che la destinazione ad uso commerciale sarebbe stata legittimata da ben due d.i.a. mai annullate dal Comune di Sarno in autotutela.

La destinazione commerciale si sarebbe quindi consolidata.

Inoltre la stessa amministrazione comunale avrebbe rilasciato all’appellante l’autorizzazione commerciale prot. n. 1384 del 6 dicembre 1996.

Le d.i.a. in questione escludono il mutamento della destinazione d’uso per mero errore materiale dovuto all’utilizzazione dei moduli prestampati, mentre l’impresa ricorrente in appello ha manifestato con chiarezza l’intento di adibire l’immobile ad attività commerciale.

3) Error in iudicando. Error in procedendo . Violazione e falsa applicazione della legge n. 1034 del 1971, della legge n. 241 del 1990, del d.lgs. n. 112 del 1990. Eccesso di potere per illogicità ed irrazionalità.

Con il terzo motivo di appello si contesta la statuizione della sentenza a tenor della quale l’illegittimità della destinazione urbanistica impressa al bene comporterebbe la caducazione dell’autorizzazione commerciale, solo sospesa con termine di efficacia di sessanta giorni.

Si sostiene che la scadenza del termine avrebbe fatto venir meno l’interesse del ricorrente e che la sentenza avrebbe violato il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, travolgendo atti estranei al giudizio con effetto caducatorio.

4) Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost. ;
del d.lgs. n. 112 del 1998;
del d.p.r. n. 380 del 2001 ;
eccesso di potere per travisamento.

Con questo motivo si sottolinea che i problemi per l’appellante, dopo anni di indisturbato esercizio commerciale, sono sorti a seguito dell’assunzione , da parte di CCS di un’iniziativa concorrente presso lo stesso Comune ( quella della Meridiana srl ).

5) Error in iudicando . Violazione e falsa applicazione dell’art. 22 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 114. Eccesso di potere. Erroneità dei presupposti. Incompetenza.

Con questo motivo si censura l’incompetenza del dirigente ad adottare l’ordine di sospensione dell’autorizzazione commerciale, la violazione del termine di venti giorni , la mancanza dei presupposti di gravità e recidiva per l’adozione della sospensione.

6) Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere per carenza di motivazione, erroneità dei presupposti, illogicità, irragionevolezza, sviamento.

Con questo motivo si stigmatizza il fatto che il provvedimento impugnato in primo grado sospende un’autorizzazione commerciale risalente al 1996 in violazione dell’art. 21 quater che prevede espressamente che l’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo possano essere sospese per gravi ragioni fra le quali non può annoverarsi, a fronte di un’attività protrattasi per un decennio una presunta difformità urbanistica.

7) Error in iudicando .Eccesso di potere. Violazione dei principi del giusto procedimento. Erroneità dei presupposti. Motivazione illogica, pretestuosa fuorviante. Violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.

Con il settimo motivo si contesta il parere del Ministero dello Sviluppo economico posto a supporto della sanzione della sospensione temporanea della autorizzazione commerciale.

Il parere riguarderebbe l’assenza di certificazione dell’agibilità dei locali mentre nel caso di specie rileverebbe una difformità urbanistica non rimuovibile dal privato.

(8) Error in iudicando . Violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.

Si lamenta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.

Resistono il Comune di Sarno e la Meridiana srl.


DIRITTO

L’appello è infondato.

Circa la pubblicazione in forma elettronica di un dispositivo difforme dalla sentenza depositata ed impugnata con l’odierno appello, il Collegio rileva che tale fatto, che si vuole sintomatico di un incertezza dell’organo giudicante, non posto espressamente a base di alcun motivo di appello, risulta provato con la produzione della copia di una schermata del foglio elettronico del sito della giustizia amministrativa che menziona un esito del ricorso senza che risulti provato che un dispositivo – separato dalla sentenza - sia stato pubblicato con le relative sottoscrizioni dei magistrati.

Nessun valore legale può connettersi alle informazioni che vengono pubblicate nella banca dati della giustizia amministrativa che dà mera notizia della pendenza dei ricorsi e della pubblicazione dei provvedimenti sul sito della giustizia amministrativa con funzioni di mero ausilio per i soggetti del processo, dovendo sempre gli interessati appurare nelle forme tradizionali se le notizie pubblicate in forma informatica siano corrispondenti alle realtà documentali facenti fede nel processo ( documento cartaceo recante il provvedimento giudiziario debitamente sottoscritto ).

L’errore informatico può essere anche semplicemente dovuto ad un disguido di cancelleria e non rileva in sede di appello.

Venendo all’esame dell’appello nel merito ( e prescindendosi dalle eccezioni di inammissibilità dello stesso avanzate dal Comune di Sarno stante la sua infondatezza ) in primo luogo – quanto al primo motivo di ricorso - occorre rilevare che il punto decisivo della controversia – come già ritenuto dal giudice di primo grado – consiste nel tenore della licenza edilizia n. 1869 del 13 novembre 1969 con la quale venne autorizzato un capannone per deposito e prima conservazione di prodotti agricoli.

In proposito rileva anche il doc. 5 della produzione di primo grado di Meridiana del 16/1/2008 recante attestato del Comune del 14 gennaio 2008 da cui si evince che l’immobile in oggetto ha destinazione agricola e per lo stesso non è mai stato chiesto un cambio di destinazione d’uso.

Al di là di ogni considerazione relativa all’accessorietà dell’attività conserviera rispetto all’attività di impresa agricola, è innegabile che in alcun modo tale destinazione ( attività agricola anche conserviera ) possa legittimare un uso commerciale del capannone.

Il carattere di attività legata all’esercizio normale dell’agricoltura di un’attività connessa a quella dell’impresa agricola non comporta in alcun modo la commercialità e tale constatazione è sufficiente a respingere il primo motivo di ricorso.

Il tema è da inquadrare nell’ambito dell’art. 2135 cod. civ. comma 2 , norma a tenor della quale “si reputano connesse – e quindi agricole – le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura.”

Anche a voler ritenere legittimata dalla licenza un’attività di trasformazione/conservazione di prodotti agricoli, essa lo è nei limiti previsti dall’art.2135 cod. civ. comma 2 cod. civ. ossia nei limiti in cui tale attività rientri nell’esercizio normale dell’agricoltura.

In tal senso è perfettamente coerente la normativa degli art. 16 e 17 del programma di fabbricazione del Comune di Sarno che qualifica la zona agricola come zona produttiva sul presupposto che anche l’imprenditore agricolo esercita un’attività produttiva, specie quando essa è attività connessa alla vera e propria attività di conduzione dell’impresa agricola ( ma giammai con ciò volendo legittimare un’attività connessa eccedente il complemento all’esercizio normale dell’agricoltura in un complesso agricolo unitariamente inteso).

Né ha rilievo – sul piano della legittimità amministrativa della destinazione d’uso - la situazione creatasi sul piano fattuale eventualmente eccedente l’esercizio normale, che può aver determinato nel tempo, nel concreto esercizio dell’impresa, l’autonomizzazione di un’attività prima costituente mero complemento dell’attività agricola, allora facendo sorgere il problema della violazione urbanistica ( che ha innescato l’ingiunzione per cui è processo ).

Né l’aggettivazione “economica” riferita all’attività esercitata e contenuta nella licenza edilizia consente l’esercizio dell’attività commerciale poiché “economica” è attività creatrice di ricchezza e tale attività è pacificamente anche l’attività agricola.

Del pari il fatto che all’attività in questione avrebbero potuto essere adibiti cinquanta lavoratori non ha particolare significato per escludere la ricorrenza di attività connessa con l’attività agricola poiché ciò che conta è la complementarità con l’attività di coltivazione o la completa autonomia dell’attività conserviera e non il requisito dimensionale ( esistendo anche imprese agricoli di dimensioni medio-grandi ).

E’ un dato di fatto incontestato nel processo che il capannone nel quale è allocata l’attività commerciale controversa, insiste in zona E del vigente piano di fabbricazione , nell’ambito della quale è esclusa l’allocazione di attività commerciali ed è altrettanto pacifico che il piano di fabbricazione non è stato impugnato.

Né a diversa conclusione può giungersi in considerazione delle d.i.a. presentate dalla CCS – e poste a base del secondo motivo di ricorso in appello - aventi ad oggetto non il mutamento di destinazione di uso ma opere diverse ( la prima d.i.a. prot. n. 15859 del 5 giugno 1996, riguardava opere interne che non comportano modifiche della sagoma e dei prospetti ed era accompagnata dalla dichiarazione “le suddette opere non modificano la destinazione d’uso delle unità immobiliari ;
ed in modo del tutto analogo la seconda d.i.a. prot. 22734 del 7 agosto 1996 -riguardante opere esterni sul piazzale – era asseverata con tale dichiarazione ).

Né la circostanza di aver menzionato in tali dichiarazioni di inizio attività l’intenzione di adibire ad attività commerciale il capannone può mutare in alcun modo l’oggetto e l’efficacia degli assensi intervenuti, mai annullati, definiti dall’elenco delle opere elencate nelle relazioni tecniche di asseverazioni allegate alle dichiarazioni di inizio attività e costituenti parte integrante delle medesime .

L’oggetto della dichiarazione di inizio attività essendo identificabile con precisione in tali opere non vi era alcun bisogno di procedere in autotutela alla rimozione di tali dichiarazioni di inizio attività prima di procedere all’adozione del provvedimento di ingiunzione al cambio di destinazione d’uso per cui è processo.

La dichiarazione di inizio attività ha un suo preciso oggetto al quale si lega un preciso effetto legittimante.

Non può utilizzarsi tale forma di semplificazione del procedimento e delle attività amministrative per ottenere effetti ulteriori eccedenti l’oggetto della dichiarazione di inizio attività.

Il consolidamento degli effetti giuridici legati all’assetto di interessi definito con la dichiarazione è limitato alle opere che si asseverano con tale strumento di amministrazione in auto responsabilità e non si estende a profili ulteriori solo incidentalmente menzionati in occasione della presentazione della dichiarazione e che si pretende di far valere in un momento successivo quasi che da ciò possano derivare effetti preclusivi di attività amministrative miranti semplicemente al ripristino della legalità.

Ciò premesso va rilevato che il decorso del tempo non può ritenersi causa sanante di una difformità urbanistico-edilizia concretizzatasi in via di fatto (Consiglio Stato , sez. VI, 09 giugno 2009 , n. 3557) e , nella specie, in presenza di un titolo che era limitato all’esercizio di attività connesse in via normale con l’attività imprenditoriale agricola.

Anche rispetto alla ben più incidente ordinanza di demolizione ( nella specie si controverte su una mera ingiunzione al ripristino della legittima destinazione d’uso ) è stata ritenuta sganciata dal decorso del tempo.

In tal senso si è rilevato che presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, per cui l'ordinanza stessa è atto dovuto ed è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione di esso e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza medesima intervenga a distanza di lungo tempo dall'ultimazione dell'opera (perché tale inerzia della p.a. ha creato un qualche affidamento nel privato). (Consiglio Stato , sez. V, 11 febbraio 1999 , n. 1).

Quanto ai restanti motivi diretti avverso la sospensione dell’autorizzazione commerciale ( atto pur scaduto nell’efficacia ) essi sono infondati alla luce del presupposto evidenziato della difformità della destinazione d’uso, in quanto : 1) la legittimità urbanistica dell’uso del manufatto costituisce un presupposto legittimante il titolo abilitativo all’esercizio dell’attività commerciale tale da giustificare l’intervento repressivo;
2) l’eccesso di potere che si vorrebbe ricollegare al contenzioso con la Meridiana srl appare il frutto di supposizioni prive di pregio;
3) il periodo di durata massima della sospensione di venti giorni si riferisce al caso in cui la sospensione sia intervenuta come sanzione definitiva aggiuntiva alla sanzione pecuniaria prevista dall’art. 22 del d.lgs. n. 114 del 1998 e non al caso – occorso nella specie – in cui la sospensione sia stata assunta come provvedimento cautelare anticipatorio della revoca ai sensi dell’art. 21 quater della legge n. 241 del 1990;
4) l’attività repressiva è senz’altro gestionale sicché non sussiste alcuna incompetenza del dirigente ;
5) la mancanza di conformità nella destinazione d’uso appare senz’altro fra le gravi ragioni di cui all’art. 21 quater della legge n. 241 del 1990 ;
6) il parere reso dal Ministero dello Sviluppo economico è richiamato solo per rafforzare l’iter logico del provvedimento richiamando un caso analogo e non appare essenziale ai fini della decisione amministrativa ;
7) è stata data comunicazione di avvio del procedimento come risulta dalle premesse del provvedimento di sospensione impugnato ( provvedimento del 19 dicembre 2007 ) che cita la nota 3548 del 2007 con la quale il Servizio attività produttive ha proceduto ai sensi degli artt. 7 ed 8 della legge n. 241/90 alla dovuta comunicazione all’interessato del procedimento di revoca ( la sospensione è intervenuta nell’ambito del procedimento di revoca) e le memorie prodotte dall’interessato.

Ne consegue il rigetto dell’appello.

Susssistono gli eccezionali motivi per la compensazione delle spese processuali in ragione della peculiarità del caso di specie.

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