Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2021-03-11, n. 202102082

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2021-03-11, n. 202102082
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202102082
Data del deposito : 11 marzo 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 11/03/2021

N. 02082/2021REG.PROV.COLL.

N. 00501/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 501 del 2019, proposto da
Diamond Private Investment S.p.A. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati C C, M C L, M S, L C, F T, A M ed A P R, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio A M in Roma, via Confalonieri, n. 5;

contro

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n.12;

nei confronti

Altroconsumo - Associazione Indipendente di Consumatori non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 10965/2018.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2021 il Cons. Giordano Lamberti e uditi da remoto gli avvocati A P R, A M e l’avvocato dello Stato Collabolletta. L'udienza si svolge ai sensi dell'art.4, comma1, del Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020 e dell'art.25, comma 2, del Decreto Legge n. 137 del 28 ottobre 2020 attraverso videoconferenza con l'utilizzo di piattaforma "Microsoft Teams" come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1 - La società appellante ha impugnato il provvedimento n. 26758 del 20 settembre 2017 con cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ha accertato che due pratiche commerciali poste in essere dalla Diamond Private Investment Spa (“DPI”) - consistite nella prospettazione omissiva e ingannevole ai consumatori di alcune caratteristiche dell’investimento in diamanti e nell’aggravamento delle condizioni per il diritto di recesso – costituissero una pratica scorretta ai sensi degli artt. 20, 21, comma 1, lettere b), c) d) e f), 22, nonché 23, comma 1, lettera t), e 49, 50, 52 e 54 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206.

2 - La prima violazione ritenuta sussistente è consistita nella diffusione di materiale promozionale, predisposto da DPI e reso disponibile anche attraverso il canale bancario cui si rivolgeva il consumatore interessato all’acquisto, in cui si rappresentavano in modo ingannevole ed omissivo: a) il prezzo di vendita dei diamanti, presentato come quotazione di mercato e pubblicato a pagamento su un giornale economico;
b) l’andamento del mercato e l’aspettativa di apprezzamento del valore futuro dei diamanti, attraverso grafici costruiti sull’andamento dei propri prezzi di vendita presentati come “quotazioni”, messe a confronto con l’inflazione e le quotazioni ufficiali dell’oro;
c) la facile liquidabilità e rivendibilità del diamante, quando invece l’unico canale di rivendita attraverso cui avrebbero potuto essere realizzati i guadagni prospettati è rappresentato dalla stessa DPI;
d) la qualifica di leader di mercato del professionista, impiegata senza ulteriori precisazioni, al fine di conferire un maggiore affidamento alla propria offerta.

2.1 - La seconda violazione è stata ravvisata nell’aver DPI predisposto condizioni di compravendita che violano i diritti dei consumatori in materia di diritto di ripensamento, il quale è menzionato solo genericamente ed aggravato dalla previsione dell’invio di una raccomandata.

3 – Con la sentenza n. 10965 del 2018, il T.A.R. per il Lazio ha respinto il ricorso.

4 - Avverso tale pronuncia ha proposto appello l’originaria ricorrente.

All’udienza di discussione del 28 gennaio 2021 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1 - Prima di esaminare compiutamente gli specifici rilievi dell’appellante giova ricordare i fatti accertati a carico della società e che hanno dato luogo alla sanzione.

L’Autorità ha accertato l’esistenza di plurime carenze informative rispetto a distinti profili: a) le modalità di prospettazione delle caratteristiche dell’investimento in diamanti - presentato quale investimento in un “bene rifugio” in grado di conservare ed accrescere il suo valore nel tempo, di agevole liquidabilità e alienabilità;
b) le modalità di determinazione del prezzo (sia in caso di acquisto, che in caso di rivendita) prospettato come quotazione di mercato;
c) la rappresentazione dell’andamento del mercato dei diamanti;
d) la qualifica di “leader di mercato”.

Quanto ai primi due profili di scorrettezza, l’Autorità ha ritenuto che il materiale illustrativo predisposto e riprodotto anche nel sito e divulgato agli istituti di credito, nonché da questi ultimi utilizzato al fine di offrire una prima informativa al cliente sull’investimento, fosse ingannevole atteso che presentava i prezzi dei diamanti come “quotazioni”. Tale presentazione lasciava intendere al consumatore che si trattava di rilevazioni oggettive di mercato raccolte dal professionista a beneficio del consumatore che avrebbe potuto in tal modo monitorare l’andamento del proprio “investimento”.

Viceversa, dall’istruttoria svolta dall’Autorità è emerso che le asserite quotazioni in realtà non corrispondevano ad una rilevazione sull’effettivo andamento di mercato risultante dall’andamento della domanda e dell’offerta di diamanti. Si trattava, invece, dei prezzi dei servizi offerti dalla società (tra cui la vendita dei diamanti), autonomamente fissati e progressivamente aumentati nel corso degli anni dalla stessa società.

La pubblicazione periodica di tali “quotazioni” su un quotidiano economico finanziario di larga diffusione e reputazione ne avrebbe confermato l’autorevolezza, inducendo nei consumatori l’erronea percezione che si trattasse di oggettive quotazioni dei diamanti sul mercato.

Ad alimentare l’equivoco dato dalla impropria definizione del prezzo come quotazioni dei diamanti concorreva la combinazione di ulteriori elementi quali: la stessa terminologia impiegata nella presentazione dell’acquisto dei diamanti come investimento;
le reiterate indicazioni presenti nel materiale promozionale volte ad affermare che le quotazioni fossero destinate ad aumentare per il progressivo esaurimento dei diamanti.

Inoltre, il raffronto nei grafici con la quotazione dell’indice Eurostoxx 50, che rappresenta una media ponderata delle quotazioni ufficiali di Borsa delle azioni delle 50 società dell’Eurozona con maggiore valore del capitale flottante, avvalorava nel consumatore l’idea che le “quotazioni” fossero riferite al valore intrinseco dei diamanti, o comunque a valori assai vicini ad essi, alla stregua di altri beni o titoli acquistati a scopo di investimento.

2 – Tanto precisato, in via preliminare, deve essere disattesa l’istanza di rinvio dell’udienza di discussione, stante la genericità che la caratterizza ed in assenza di espressa adesione della controparte.

Nel merito, con il primo motivo di appello si deduce l’omessa pronuncia sui motivi dirimenti del ricorso introduttivo, e precisamente quello con il quale era stato dedotto il vizio di eccesso di potere sotto svariati profili.

A supporto di tale censura, la società appellante aveva prodotto in primo grado due “poderose” consulenze tecniche di parte. L’appellante lamenta che dello specifico motivo di impugnativa e delle prove documentali versate a fondamento dello stesso non vi sarebbe minimo accenno nella sentenza gravata.

2.1 – Rispetto a tale doglianza, è sufficiente rilevare che, per pacifica giurisprudenza, “ la censura con cui si contesta il difetto di motivazione della sentenza, ovvero l’omessa pronuncia su un motivo di ricorso, è resa inammissibile dell’effetto devolutivo dell’appello. In secondo grado, infatti, il giudice è chiamato a valutare le domande, integrando-ove necessario-le argomentazioni della sentenza appellata senza che, quindi, rilevino le eventuali carenze motivazionali di quest’ultima o omissioni di pronuncia ” (Cons. Stato, sez. II, 11 giugno 2020, n. 3722).

In ogni caso, in primo luogo, deve osservarsi che il TAR ha preso in esame le censure sollevate dall’appellante in relazione alla valutazione di scorrettezza svolta dall’Autorità, rigettandole con ampia e articolata motivazione, avendo esaminato le evidenze raccolte dall’Autorità nel corso del procedimento, ritenendo le stesse idonee a fondare l’accertamento di scorrettezza della condotta posta in essere dalla DPI.

Inoltre, le considerazioni di seguito svolte portano in ogni caso al rigetto della censura.

3 – Con il secondo motivo di appello si contesta la sussistenza della pratica ingannevole, citando la giurisprudenza che delinea tale nozione.

In particolare, l’appellante prospetta che, in relazione alla tipologia di mercato a cui si rivolge ed alle specifiche caratteristiche del bene offerto, una pratica commerciale è scorretta nel caso in cui “carpisce con l’inganno” l’attenzione del cliente che accede al suindicato mercato, in qualità di potenziale fruitore del bene proposto, e, alterandone sensibilmente le capacità percettive e cognitive della realtà dei fatti, lo induce a scelte inconsapevoli. Ne consegue che, per poter accusare un operatore di pubblicità ingannevole, l’AGCM deve ben individuare in cosa consista il messaggio non veritiero o ingannevole, nonché deve specificare nel dettaglio come avrebbe dovuto comportarsi l’operatore per non essere ingannevole.

Tanto precisato, rileva che i diamanti da investimento, del cui trading si occupa DPI, rappresentano beni non comparabili ai diamanti comuni. Più nello specifico, all’interno di quest’ultima categoria, i diamanti da investimento rappresentano soltanto il 2% circa della produzione e comprendono le pietre di qualità più alta, perciò non destinate ad uso industriale, e solo in casi limitati adibite ad uso commerciale comune (prodotti da gioielleria).

Proprio per queste ragioni, il mercato dei diamanti da investimento rappresenta una nicchia, assai ristretta, del mercato dei diamanti in genere.

L’appellante prospetta che, involgendo un mercato di nicchia, la commercializzazione dei diamanti da investimento giammai potrebbe avere come potenziale acquirente il cittadino comune, trattandosi invece di un’offerta rivolta ad un consumatore particolarmente sofisticato, che – secondo la società appellante - non procede certo all’acquisto sulla base della lettura del sito della società o di una brochure pubblicitaria.

L’appellante evidenzia inoltre che la clientela veniva selezionata dalle Banche sulla scorta delle specifiche capacità patrimoniali, attitudine ed esperienza a diversificare il proprio patrimonio con investimenti anche a medio lungo termine.

3.1 – Quanto alla presentazione del prezzo come “quotazione”, la società deduce che dalla copiosa documentazione versata in primo grado si evince che DPI non ha mai cercato di “far passare” i prezzi dalla medesima fissati come “quotazione”.

Anzi, proprio per evitare qualsivoglia fraintendimento in tal senso, la Società ha espressamente specificato che: a) nel materiale informativo i prezzi ivi riportati erano (e sono) “ a cura di DPI ”;
il materiale informativo e pubblicitario utilizzato da DPI non mirava in alcun modo a trarre in inganno il potenziale consumatore come si evincerebbe anche dal fatto che il “prezziario” predisposto dalla Società ha riportato i prezzi di vendita non per carato, ma per tipologia di pietra, ricomprendendo in essi tutti i costi aggiuntivi (ossia l’IVA, i costi di certificazione, di assicurazioni, ecc.).

Secondo la società, sintomatico dell’assoluta correttezza della pratica commerciale di DPI sarebbe altresì il fatto che il prezzo di vendita dei diamanti dell’appellante è stato pubblicato a pagamento su il “Sole 24 Ore”, come inserzione pubblicitaria, con la indicazione, ben visibile, che la pubblicazione era “ a cura di DPI ”.

3.2 – Circa la non analiticità delle altre voci di costo influenti sulla determinazione del prezzo dei diamanti, l’appellante lamenta che il TAR non avrebbe tenuto conto delle indicazioni contenute nelle indicazioni generali, le quali chiarivano in maniera inequivocabile che “ concorrevano alla determinazione di quel dato monetario l'IVA, le imposte di importazione e trasporto, il premio di selezione applicato al momento dell'approvvigionamento (dovuto alla particolare qualità delle pietre commercializzate da DPI), il margine di intermediazione della società e della banca ” (cfr. lettera A delle Condizioni generali di vendita).

Secondo la società, la suddetta analitica indicazione della composizione del prezzo di vendita rendeva evidente che la quotazione elaborata da DPI non potesse essere confusa con quella relativa ad un ipotetico valore di mercato.

3.3 - Circa l’ingannevole rappresentazione, da parte di DPI, dei diamanti come beni rifugio, dell’andamento del mercato e dell’apprezzamento futuro del valore delle gemme, l’appellante, oltre a dedurre l’erroneità dei parametri assunti dall’AGCM, evidenzia che in materia di diamanti non esiste un listino prezzi pubblico a cui fare riferimento;
mentre, quanto all’ingannevole rappresentazione dell’investimento in termini di liquidità certa, ricollocamento dei diamanti e rendimenti, la società rileva che il materiale informativo predisposto in relazione all’offerta metteva “in guardia” i potenziali investitori dei rischi sottesi all’operazione di che trattasi (quali, ad esempio, quello di non trovare acquirenti, oppure quello di non riuscire a rivendere le gemme almeno al prezzo originariamente pagato).

Tenuto conto di tale rilievo, l’appellante prospetta che, considerato altresì che l’applicazione degli artt. 20 e ss. del Codice del Consumo presuppone la dimostrazione della contrarietà della pratica alla diligenza professionale e della capacità di indurre il consumatore ad una scelta diversa da quella che altrimenti avrebbe adottato, i messaggi di DPI sono conformi al grado di diligenza professionale richiesta, in quanto il diamante è di per sé comunemente associato ad investimenti di lungo termine.

La società critica infine la ritenuta ingannevole rappresentazione di DPI come azienda leader del settore.

4 - L’appello, nelle sue diverse articolazioni che possono essere esaminate congiuntamente stante la loro connessione, è infondato.

Come anticipato, l’Autorità ha accertato l’esistenza di plurime carenze informative rispetto a distinti profili, segnatamente: i) le modalità di prospettazione delle caratteristiche dell’investimento in diamanti - presentato quale investimento in un “bene rifugio” in grado di conservare ed accrescere il suo valore nel tempo, di agevole liquidabilità e alienabilità;
ii) le modalità di determinazione del prezzo (sia in caso di acquisto, che in caso di rivendita) prospettato come quotazione di mercato;
iii) la rappresentazione dell’andamento del mercato dei diamanti;
iv) della qualifica di leader di mercato.

L’analisi del contenuto del materiale pubblicitario utilizzato dalla società conferma la sussistenza dei presupposti dell’illecito e delle condotte come innanzi descritte (vedasi anche punto 1).

Appaiono invero ragionevoli gli assunti su cui si basa il provvedimento ed in particolare la valutazione che l’attenzione dei consumatori sia stata condizionata: a) dalla enfatizzazione della estrema convenienza all’investimento in diamanti (reclamizzati quali beni rifugio);
b) dall’asserita costante crescita della loro quotazione sul mercato, tale da assicurarne la realizzazione di cospicue plusvalenze in caso di rivendita.

A tale scopo, ed in tale pratica risiede l’aspetto maggiormente censurabile, la società - a garanzia della sicurezza e della monitorabilità dell’investimento e a sostegno della trasparenza dell’operazione - proclamava l’impegno di pubblicare trimestralmente sui principali giornali economici i dati relativi all’andamento dei prezzi dei diamanti.

Imprime il connotato illecito a tale condotta il fatto che l’aggiornamento delle “quotazioni” pubblicate sui citati quotidiani, ancorché rappresentata come un servizio prestato dal venditore, consisteva, in realtà, nella pubblicazione a pagamento del suo listino-prezzi. E tale circostanza non era immediatamente percepibile dal consumatore.

Deve al riguardo rilevarsi che l’indicazione “ quotazioni diamanti da investimento ” unitamente alla specifica “ a cura di DPI ” presente nell’inserzione non era certamente sufficiente per chiarire al consumatore che le “quotazioni” non corrispondevano ad una rilevazione sull’effettivo andamento del mercato, risultante dall’andamento della domanda e dell’offerta di diamanti e come tale assimilabile a quotazioni emergenti dalla contrattazione in mercati organizzati, ma solo ai prezzi che venivano autonomamente fissati dalla stessa società.

Da un altro punto di vista, la mancanza di qualsiasi attività di rilevazione preventiva e l’assoluta autoreferenzialità delle fonti di determinazione dei prezzi proposti ai consumatori privano di ogni attendibilità le assicurazioni fornite in merito alla “costante crescita” dei valori di mercato dei preziosi, disvelando in tutta la sua portata distorsiva il carattere decettivo della pratica commerciale posta in essere.

L’Autorità ha infatti adeguatamente dimostrato che le quotazioni dei diamanti utilizzate nei grafici non erano altro che i prezzi autonomamente fissati dalla società, calcolati in modo significativamente superiore agli indici di mercato, e annualmente aumentati proprio per “rappresentare” una crescita costante del valore dei diamanti che, però, non trovava riscontro nei reali andamenti di mercato.

A fronte di tale rappresentazione, sulla quale si insisteva fortemente per convincere il consumatore, l’avvertenza apposta nell’informativa precontrattuale in merito alla possibilità che vi potessero essere oscillazioni del valore del diamante nel tempo diviene peraltro una mera clausola – quasi “di stile” - alla quale il consumatore ragionevolmente potrebbe non prestare la dovuta attenzione e, comunque, inadeguata in sé a controbilanciare le molteplici indicazioni di segno contrario sull’andamento sempre positivo del mercato e sulla sostanziale assenza di rischi che vengono fornite nella presentazione dell’investimento.

4.1 - Il tenore dei rilievi dell’appellante conferma indirettamente la bontà della valutazione effettuata dal primo giudice e della conclusione di questo Collegio innanzi anticipata, ove si consideri che l’oggettiva assenza di una quotazione ufficiale del valore dei diamanti, sottolineata dall’appellante, avvalora come l’enfatizzata pubblicazione trimestrale delle “quotazioni” - che in realtà rappresentavano un prezzo determinato in maniera autonoma dal professionista - lasciava intendere al potenziale acquirente di essere in presenza di rilevazioni oggettive di mercato raccolte ed elaborate dal professionista a beneficio degli acquirenti.

5 - Da un altro punto di vista, deve convenirsi che il materiale pubblicitario predisposto dalla società enfatizzava la qualità dei diamanti, ne garantiva il valore intrinseco e quindi la facilità di disinvestimento, in grado di assicurare “ Un rendimento sicuro nel tempo ”.

Non appare pertanto illogica la conclusione che tali affermazioni si prestassero ad ingenerare nel consumatore l’idea del diamante come “bene rifugio” agevolmente monetizzabile in qualsiasi momento e che, pertanto, avrebbe potuto preservare il valore dei risparmi investiti.

5.1 - Al riguardo, l’indagine dell’Autorità ha appurato che la rivendibilità e redditività del bene erano subordinate alla permanenza di condizioni del tutto particolari, tra cui la scelta di ricollocare i diamanti utilizzando il medesimo canale di acquisto e la circostanza di chiedere il disinvestimento in un momento nel quale vi fosse una scarsa domanda di smobilizzo, la cui necessaria ricorrenza non era in alcun modo resa nota al consumatore.

In particolare, l’istruttoria procedimentale ha permesso di appurare che la possibilità di recuperare il capitale investito dipendeva da diversi fattori quali, principalmente, il prezzo al quale si rivende il diamante sul mercato e la facilità di trovare una controparte disposta ad acquistare il diamante stesso.

L’alea del ricollocamento, verosimilmente possibile solo all’interno del circuito in cui operava la società appellante, non veniva in alcun modo esplicitata al consumatore, al quale invece venivano prospettati, in particolare attraverso il sito internet, rendimenti certi e, in generale, la conservazione del valore capitale, a fronte del mantenimento dei diamanti per un periodo medio-lungo.

Al riguardo, deve ricordarsi che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale ( ex multis , Consiglio di Stato, 19 settembre 2017, n. 4878) grava sul professionista un obbligo di chiarezza e completezza dei messaggi promozionali al fine di evitare qualsivoglia forma di aggancio scorretta e ingannevole;
ciò in quanto l’onere di completezza e chiarezza informativa previsto dalla normativa a tutela dei consumatori richiede che ogni messaggio rappresenti i caratteri essenziali di quanto mira a reclamizzare e sanziona la loro omissione, a fronte della enfatizzazione di taluni elementi, qualora ciò renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell’offerta o del prodotto, così inducendo il consumatore, attraverso il falso convincimento del reale contenuto degli stessi, in errore, condizionandolo nell’assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato.

Di analogo tenore la giurisprudenza europea, secondo cui l’informazione comunicata dal professionista al consumatore deve essere chiara e adeguata (Corte di Giustizia, 18 ottobre 2012, Purely Creative e a., C-428/11).

Occorre altresì ricordare che le informazioni fornite prima della conclusione di un contratto riguardo alle condizioni contrattuali e alle conseguenze di detta conclusione sono, per il consumatore, di fondamentale importanza (Corte di Giustizia 7 settembre 2016, Deroo-Blanquart, C-310/15).

5.2 - E’ nell’ambito della descritta condotta che si colloca anche la questione del rivendicato ruolo di leader di settore da parte dell’appellante.

Da un lato, non può essere messo in discussione come tale affermazione contribuisca all’ingannevolezza della condotta complessivamente considerata;
da un altro lato, la spendita della qualifica di “azienda leader” nel settore dell’investimento in diamanti, non ha trovato riscontro nella situazione di mercato.

5.3 - Sotto il profilo relativo al prezzo dei diamanti fissato dall’appellante, nonostante il fatto che nel mercato mondiale dei diamanti non vi sono quotazioni (fixing) ufficiali, le indagini istruttorie dell’Autorità hanno accertato che il valore di mercato dei diamanti venduti, oltre ad essere di ardua scomposizione nelle sue componenti, risultava enormemente inferiore al prezzo proposto per l’acquisto.

Non può inoltre ravvisarsi una carenza istruttoria nel fatto che quelli presi in considerazione dall’Autorità a fini comparativi sono anch’essi indici privati, giacché questi ultimi (diversamente dalle “quotazioni” della società appellante) erano, comunque, basati su dati reali, corrispondenti alle transazioni effettivamente concluse;
né vi sono elementi per sostenere ragionevolmente che l’effettiva stima dei preziosi possa risentire nel tempo dei fatti seguenti alla trasmissione Report, stante l’ampiezza del mercato dei diamanti e tenuto conto che, ragionevolmente, il mercato è in grado di assorbire nel medio periodo un eventuale incremento anomalo dell’offerta.

In riferimento al prezzo dei diamanti ed in particolare quanto alla rivendicata fornitura di servizi ulteriori da parte dell’appellante incidenti sul prezzo dei diamanti, a differenza di quanto prospettato dalla società, deve evidenziarsi come di tale circostanza i consumatori non fossero immediatamente edotti;
invero, la società nel proprio materiale informativo non forniva alcuna indicazione circa l’incidenza delle singole voci di costo.

Non rileva che eventuali chiarimenti rispetto agli aspetti critici innanzi evidenziati fossero contenuti negli specifici documenti contrattuali predisposti dall’appellante, o comunque reperibili altrove (nella sezione “FAQ” del sito dell’appellante), dal momento che la giurisprudenza ha affermato la sussistenza di un obbligo di chiarezza, trasparenza e comprensibilità delle comunicazioni commerciali sin dal “primo contatto” ed al fine di evitare “agganci ingannevoli” ( ex multis , Consiglio di Stato, 4 luglio 2018, n. 4110;
Consiglio di Stato, 11 maggio 2017, n. 2178).

Invero, “ l'obbligo di estrema chiarezza, che viene violato proprio da pratiche ingannevoli o false che in qualsiasi modo, anche nella presentazione complessiva, ingannino o possano indurre in errore il contraente medio, deve essere congruamente assolto dal professionista sin dal primo contatto, attraverso il quale debbono essere messi a disposizione del consumatore gli elementi essenziali per un’immediata percezione della offerta economica pubblicizzata ” (Cons. Stato, Sez. VI, 15 luglio 2019).

5.4 – Ne consegue che, tenuto conto delle specifiche violazioni contestate all’appellante, appaiono sostanzialmente irrilevanti i fatti seguiti alla trasmissione televisiva “Report”. Invero, ciò che rileva è la condotta pubblicitaria svolta a monte di tale momento, che per le ragioni esposte risulta fuorviante per il consumatore al quale è rivolta.

Anche in riferimento alla doglianza con la quale si lamenta l’omesso accertamento, da parte dell’Autorità, dei danni effettivamente patiti dagli investitori che sono riusciti a rivendere i preziosi tramite il canale dell’appellante, deve richiamarsi l’attenzione alle specifiche violazioni contestate che sono fattispecie di pericolo. La loro punibilità non è dunque subordinata alla dimostrazione del nocumento patrimoniale sofferto dalle vittime della condotta vietata.

Per la medesima ragione, l’Autorità non è tenuta a verificare quanti consumatori hanno in concreto subito pregiudizio dalla pratica illecita, con la conseguenza che l’effettiva incidenza della pratica commerciale scorretta sulle scelte dei consumatori non costituisce un elemento idoneo a elidere o ridurre i profili di scorrettezza della stessa.

Più in generale, deve ricordarsi che il carattere della pratica commerciale deve essere valutato ex ante e quindi a prescindere dal dato di fatto concreto, variabile per le più svariate ragioni, soggettive e oggettive, legato all’esito concretamente lesivo prodotto dalla condotta del professionista ( cfr . Consiglio di Stato, sez. VI, 16 marzo 2018, n. 1670).

Infatti, la ratio della disciplina in materia di pratiche scorrette è quella di salvaguardare la libertà di autodeterminazione del destinatario di un messaggio promozionale da ogni erronea interferenza che possa, anche solo in via teorica, incidere sulle sue scelte e sui riflessi economici delle stesse fin dal primo contatto pubblicitario, imponendo, dunque, all’operatore un preciso onere di chiarezza nella redazione della propria offerta.

Il corretto inquadramento della fattispecie rende irrilevanti anche le argomentazioni con le quali si tenta di superare l’addebito di ingannevolezza attraverso l’assunto che gli acquirenti dei preziosi sarebbero una categoria particolare, “di nicchia”, ed in possesso di competenze tecniche tali da comprendere chiaramente le modalità attuative della pratica ed i rischi ad essa connessi.

Tale assunto appare una mera ipotesi dell’appellante destituita di ogni conforto oggettivo. In ogni caso, la tesi è smentita dalle considerazione già svolte, dovendosi ribadire come le disposizioni in tema di pubblicità ingannevole si collocano sul piano più avanzato di un sistema di deterrenza preventiva, essendo le sanzioni volte ad evitare effetti dannosi anche soltanto ipotetici a tutela di valori che trascendono quelli strettamente individuabili di un singolo consumatore.

Del resto, i fatti occorsi a seguito della trasmissione televisiva e della diffusione tra i media delle modalità con le quali operava la società appellante confermano come i preziosi fossero detenuti da una categoria ampia di consumatori, che non può certo definirsi specializzata.

6 - Parimenti infondate sono le censure mosse da DPI alla sentenza impugnata in merito alle violazioni degli artt. 49 e ss. del Codice del Consumo in materia di diritti dei consumatori.

Più in particolare, l’Autorità ha rilevato che nella modulistica contrattuale e precisamente nelle Condizioni generali di contratto (nella formulazione diffusa almeno fino a febbraio 2017) si afferma che il recesso va notificato attraverso una lettera raccomandata da inviare a DPI oppure tramite fax (al numero indicato) ovvero via mail (all’indirizzo riportato). Si precisa tuttavia che in tali ultimi casi “ il recesso dovrà essere confermato entro le 48 ore successive mediante lettera raccomandata ”.

La previsione della necessità, in caso di comunicazione scritta di recesso inviata via fax o e-mail, di una conferma della volontà di recedere a mezzo raccomandata entro 48 ore, rappresenta un ulteriore e ingiustificato onere per il consumatore, in violazione degli artt. 49, 50, 52 e 54 del Codice del Consumo come novellato dal D.Lgs. n. 21/14, secondo i quali al consumatore deve essere consentito di presentare la propria volontà di recedere, senza fornire motivazioni, presentando una qualsiasi dichiarazione che espliciti la sua volontà di recedere.

Come affermato dal Tar del Lazio, con motivazione condivisibile, la condotta dell’appellante si pone “… oggettivamente in contrasto con quanto previsto dal codice del consumo in materia di recesso per ipotesi di contratti di vendita conclusi al di fuori dei locali commerciali del professionista (che attribuiscono al consumatore il diritto di recedere senza fornire motivazioni a mezzo di una dichiarazione che espliciti la volontà di recedere), tipologia contrattuale nella quale rientravano tutti i contratti conclusi da dipendenti DPI presso le filiali bancarie .”.

7 – Anche in riferimento alla determinazione della sanzione, la valutazione dell’Autorità non appare censurabile.

Secondo giurisprudenza costante l’entità della sanzione deve commisurarsi anche all’importanza e alle condizioni economiche dell’impresa, ai sensi degli artt. 27, comma 13, D. Lgs. n. 206 del 2005 (Codice del consumo) e 11 L. n. 689 del 1981, e ciò nel rispetto del principio di proporzionalità e di adeguatezza della sanzione, in modo da garantirne un’efficacia deterrente ( ex multis , Consiglio di Stato, 2 agosto 2018, n. 8699).

In concreto, l’Autorità ha correttamente quantificato la sanzione tenendo conto del fatturato del professionista, pari nel 2015 a circa 56 milioni di euro.

In relazione a tale parametro (di cui il provvedimento da conto già al paragrafo 1), la sanzione complessivamente irrogata risulta adeguata, corrispondendo allo 1,7% del fatturato totale del professionista relativo al 2015 e ad 1/5 del massimo edittale, pari a cinque milioni di euro.

Sotto il profilo della gravità, l’Autorità ha tenuto conto dell’ampia diffusione della condotta accertate, anche tenuto conto del fatto che la vendita di diamanti da investimento è stata promossa attraverso una pluralità di mezzi di comunicazione (Internet, stampa) e attraverso l’ampio materiale promozionale diffuso presso primari istituti di credito.

Sempre in termini di gravità, l’Autorità ha apprezzato la particolare asimmetria informativa esistente tra i professionisti e i consumatori riguardo alle modalità di funzionamento del mercato dei diamanti, al valore intrinseco della pietra acquistata, al peso relativo delle altre componenti di costo e dei margini nella formazione del prezzo di vendita.

L’Autorità ha altresì valutato gli elementi a favore della società, invero nel provvedimento gravato si rileva che DPI ha progressivamente implementato da febbraio a giugno 2017 significative misure migliorative, improntando a maggiore chiarezza la propria comunicazione promozionale anche attraverso la sostituzione del riferimento alle quotazioni con l’indicazione “prezzo” e la propria contrattualistica, concedendo una riduzione pari a 300.000 € della sanzione.

8 – Per le ragioni esposte, l’appello non deve trovare accoglimento.

Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663 e per il Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 maggio 2019, n. 3110). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

9 – La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese di lite.

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