Commissione Tributaria Regionale Marche, sez. III, sentenza 03/06/2022, n. 644

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In tema di imposte sui redditi, i proventi derivanti da fatti illeciti, rientranti nelle categorie reddituali di cui all'art. 6, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, devono essere assoggettati a tassazione anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati. Ne consegue che il "pretium sceleris" si deve considerare come reddito imponibile, e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati L'assoggettamento a tassazione dei proventi illeciti, tuttavia, riguarda esclusivamente il soggetto che ha commesso il reato/illecito e che da tale commissione ne ha tratto un ulteriore e definitivo beneficio della propria posizione personale. Ai fini della tassazione di proventi illeciti, infatti, occorre che sussista la coincidenza soggettiva tra chi subisce la tassazione del provento e chi ha commesso il reato/illecito.

Sul provvedimento

Citazione :
Commissione Tributaria Regionale Marche, sez. III, sentenza 03/06/2022, n. 644
Giurisdizione : Comm. Trib. Reg. per le Marche
Numero : 644
Data del deposito : 3 giugno 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Con atto depositato il giorno 09 settembre 2015 il Fallimento della società L S.R.L. proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Ancona avverso l'Avviso di Accertamento n. TQY/2015, per tributi relativi al periodo d'imposta 2008, emesso dall'Ufficio Controlli, della Direzione Provinciale di Ancona, dell'Agenzia delle Entrate, in data 19 maggio 2015, con il quale, a seguito di Processo Verbale di Constatazione emesso dalla Guardia di Finanza di Ancona, venivano imputati a reddito ricavi non dichiarati, derivanti da versamenti effettuati sui conti correnti bancari e da finanziamenti, ritenuti illeciti dall'Amministrazione Finanziaria, recuperando imposte ed irrogando sanzioni ed interessi come per legge. Con il ricorso si contestava: 1) l'errata interpretazione dell'art. 32, comma 1, n. 2, del D.P. R. 600/1973;
2) l'errata applicazione dell'art. 14, comma 4, della Legge 537/1993, in quanto non riferita alla ricorrente la condotta illecita tenuta da altri soggetti che, oltremodo, non aveva portato ad alcun arricchimento patrimoniale;
3) erronea applicazione dell'art. 43, comma 3, del D.P.R. 600/1973, per inesistenza della fattispecie di reato. Nel contestare all'Erario di aver usufruito del raddoppio dei termini, concludeva chiedendo l'accoglimento del ricorso. L'Ufficio Legale, della Direzione Provinciale di Ancona, dell'Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio contestando quanto riportato nel ricorso introduttivo e concludeva chiedendo il rigetto del ricorso. La Commissione Tributaria Provinciale di Ancona con sentenza n. 1111/16 pronunciata il 15/12/2015 e depositata il 07/04/2016 ha respinto il ricorso. Il Giudice di prime cure ha deliberato come segue: "Osserva la Commissione come il ricorso appaia infondato e vada, di conseguenza, rigettato. Come sostenuto dalla Corte di Cassazione più volte e recentemente con la sentenza n. 9721/2015" sia i prelevamenti che i versamenti ... vanno imputati a ricavi conseguiti dal medesimo…, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito ...". Nel caso di specie L S.R.L. era tenuta a fornire la prova, che non è stata data nemmeno in questa sede: infatti il Sig. L P, legale rappresentante dell'odierna ricorrente, invitato ad esibire la documentazione richiesta dall'Amministrazione Finanziaria, non è stato in grado di esibire nulla. Per cui come ampiamente ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, con recenti sentenze, per rettificare un reddito è necessario che la ricorrente venga invitata in Ufficio per depositare documenti e/o memorie che permettano "il passaggio dalla fase statica (gli standard come frutto dell'elaborazione statistica) alla fase dinamica dell'accertamento (l'applicazione degli standard al singolo depositario dell'attività accertativa)". È ovvio, continua la Suprema Corte di Cassazione, che la ricorrente può, come nel caso di specie, rimanere "inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento". In riferimento, poi, all'indicazione del beneficiario, relativa ai prelevamenti" (N.d.R. trattasi in realtà di versamenti) "contestati ed alla indicazione del soggetto che ha ordinato i bonifici ricevuti, imputati a reddito, vi è da dire che corrisponde a verità la circostanza che l'I S.r.l." è un soggetto giuridico diverso dall'odierna ricorrente, ma il soggetto economico è lo stesso, tanto è vero che il Sig. L P risulta essere amministratore di entrambe le società. L'operazione posta in essere è riferita a compromessi, che non si sono mai conclusi positivamente e non risultano nemmeno pagati, oltre al fatto che dai preliminari risultava cha tali operazioni non potevano essere assoggettate ad IVA, come previsto dagli artt. 2 e 3 del D.P.R. 633/1972. In merito ai finanziamenti ottenuti dalla Banca M. S.p.a. è risultato, in base alle indagini attuate, che gli stessi erano illeciti. Certo l'illecito è stato compiuto dagli Organi di tale Istituto di credito, ma L ne ha beneficiato, non facendoli transitare nemmeno in contabilità, quindi tali importi vanno sottoposti a tassazione così come previsto dall'art. 14, comma 4, della Legge 537/1993 e dall'art. 36, comma 34 bis, del D.L. 223/2006. Tutto ciò a nulla valendo la circostanza che la banca si è insinuata nel passivo del fallimento per vedersi restituire quanto di sua competenza e che la ricorrente, a suo dire, non avrebbe conseguito alcun arricchimento patrimoniale, in quanto ciò che conta, a livello tributario, non è la persona che ha commesso l'illecito, che verrà perseguita per altro verso, ma la ricchezza che deriva dal fatto illecito e che deve essere sottoposta a tassazione. Anche la contestazione relativa al raddoppio dei termini, per la notifica dell'atto, oggi all'attenzione di questo Collegio, è destituita del benché minimo fondamento. Secondo l'art. 43, comma 3, del D.P.R. 600/1973, nel caso in cui si viola una norma che prevede l'obbligo della denuncia, ai sensi dell'art. 331 del Codice di Procedura Penale, per i reati previsti dal D. Lgs. 74/2000, i termini sono raddoppiati, così come anche deciso dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 247/2011. Per quanto attiene le altre eccezioni sollevate in sede di ricorso, la ricorrente non ha fornito alcuna dimostrazione di quanto affermato, limitandosi ad ininfluenti lamentele, prive di pregio e di qualsiasi fondatezza. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Commissione definitivamente pronunciando sul ricorso n. 862/2015 proposto in data 09 settembre 2015 da L S.R.L., così provvede: Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che vengono liquidate in complessivi euro 14.000,00 (euro quattordicimila/00)"". Avverso la predetta decisione ha proposto appello il Fallimento della società L S.R.L., con sede in Ancona, in persona dei Curatori Fallimentari Dott. P P ed Avv. F P, rappresentata e difesa dal Dott. G A, giusta procura all'atto di appello. Nell'atto di gravame parte appellante ha eccepito, quale primo motivo di appello, la "Nullità della sentenza di primo grado per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 32, comma primo, n. 2), d.P.R. n. 600/1973". Sempre parte appellante ha eccepito, quale secondo motivo di appello, la "Nullità della sentenza di primo grado per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 14, comma 4, L. 24 dicembre 1993, n. 537". Infine, parte appellante ha eccepito, quale terzo motivo di appello, la "Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione della disciplina sul raddoppio dei termini di accertamento (art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600/1973)". Parte appellante ha rassegnato le conclusioni così come trascritte in epigrafe. L'Agenzia delle Entrate - Direzione provinciale di Ancona - si è costituita nel giudizio de-quo depositando le proprie controdeduzioni laddove ha contestato nel dettaglio le avverse argomentazioni. L'Ufficio finanziario ha rassegnato le conclusioni così come trascritte in epigrafe. Indi, parte appellante ha depositato "Memorie conclusionali". All'udienza del giorno 26 aprile 2022, sentite le parti, la causa è stata trattenuta a sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di appello parte appellante ha eccepito la "Nullità della sentenza di primo grado per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 32, comma primo, n. 2), d.P.R. n. 600/1973". Sostiene sulla circostanza, per estratto nella memoria conclusionale, parte appellante che "L'Amministrazione finanziaria prima e la Commissione di primo grado poi, hanno qualificato come operazioni imponibili effettuate in evasione di imposta, i versamenti effettuati dalla Immobiliare Z. S.r.l. mediante assegni circolari e bonifico, sui conti correnti intrattenuti dall'Appellante presso Banca M. S.p.A. (rapporti bancari nn. 438858 e 1251220), a titolo di "versamento caparra", per un importo complessivo pari ad euro 260.000,00. Sia l'Amministrazione finanziaria che i Giudici di primo grado hanno erroneamente ritenuto l'imponibilità di tali versamenti in virtù del fatto che la Società Appellante non avrebbe fornito valida prova contraria per sconfessare quanto asserito dall'Ufficio, ai sensi della prima parte del secondo periodo del n. 2) del comma 1 dell'art. 32 d.P.R. n. 600/1973. Tale statuizione sconta degli evidenti errori di fondo. In merito all'asserita mancata esibizione, da parte dell'Appellante, di documentazione a supporto di tali movimentazioni bancarie, è doveroso evidenziare come la posizione dell'Amministrazione finanziaria, fatta propria dalla Commissione di primo grado, sia giuridicamente erronea, illegittima ed infondata in quanto i movimenti bancari contestati dall'Ufficio hanno trovato esatto e puntuale riscontro nelle scritture contabili dell'Appellante e della stessa I S.r.l., sicché l'imponibilità dei versamenti de quibus è esclusa ai sensi del secondo periodo del comma 1, n. 2, dell'art. 32 del d.P.R. n. 600/1973, secondo cui gli importi regolarmente annotati nelle scritture contabili non possono rilevare negli accertamenti derivanti dalle indagini finanziarie, disciplinati dal predetto dato normativo. (…) "Nella fattispecie oggetto del presente giudizio, la perfetta coerenza tra gli importi di cui alle movimentazioni finanziarie e quelli annotati nelle scritture contabili della Società Appellante e della I S.r.l. è circostanza che priva l'Amministrazione finanziaria della possibilità di attivare una qualsiasi presunzione legale". (…) "La Società Appellante ha prodotto, nel giudizio di primo grado, copia dell'estratto del libro giornale della I S.r.l. (pagg. 2008/16 e 2008/17) - di cui la Commissione di primo grado non ha tenuto conto - dal quale emerge: a) l'assoluta coerenza tra le movimentazioni bancarie e le registrazioni contabili eseguite dalla Società Appellante;
b) la corrispondenza tra le registrazioni contabili effettuate dalla I S.r.l. e quelle eseguite dall'Appellante;
da tali registrazioni emerge la circostanza che a tali somme (euro 100.000,00 versati dalla I S.r.l. il 03.11.2008 ed euro 160.000,00 versati dalla I S.r.l. il 06.11.2008), sia l'I S.r.l. che la Società Appellante hanno attribuito la medesima natura di "caparra";
c) la successiva intervenuta restituzione, da parte della Società Appellante, delle somme in questione alla I S.r.l., mediante bonifico bancario eseguito in data 19.01.2009 (contabile Banca M. S.p.A del 19.01.2009, laddove risulta riportata in annotazione la seguente dicitura: "rimborso caparra euro 260.000,00 prestito euro 440.000,00 L - I", prodotta nel giudizio pendente dinanzi Codesta Onorevole Commissione…, dimostra e conferma l'irrilevanza reddituale di tali movimentazioni bancarie". Sulla circostanza, l'Ufficio finanziario assume, ovviamente, una posizione contraria laddove, si legge in atti, "ribadisce il fatto che nel corso del controllo fiscale non è stata esibita alcuna documentazione a supporto delle movimentazioni finanziarie" di talché "i versamenti sui conti di assegni per euro 100.000,00 e di un bonifico di euro 160.000,00, in assenza di valide giustificazioni, sono state considerate operazioni imponibili effettuate in evasione d'imposta". O, questo Collegio di seconda istanza richiama la giurisprudenza in materia di indagini bancarie della Corte di Cassazione. Dunque, rappresenta ormai ius receptum come, in tema di accertamenti bancari, opera il principio in base al quale "poiché il contribuente ha l'onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione" (Cass. sez. 6-5, 3 maggio 2018, n. 10480). In dettaglio - secondo questa giurisprudenza di legittimità - in materia di accertamenti bancari, sul contribuente che vuole superare la presunzione legale posta dalle predette disposizioni a favore dell'Erario (che resta invariata con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l'estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all'esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l'equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti;
tutto ciò ferma restando la legittimità della imputazione a compensi delle somme risultanti da operazioni bancarie di versamento - Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 6093 del 30/03/2016;
Sez. 5, Ordinanza n. 16697 del 9/08/2016;
Sez. 5, Ordinanza n. 2432 del 31/01/2017 -) - che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall'art. 2729, cod. civ., per le presunzioni semplici-, grava l'onere probatorio di fornire non una prova generica, ma una prova analitica (sul punto, vedi Cass. 26111 del 2015 e la copiosa giurisprudenza ivi richiamata) idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del2014 e, da ultimo, Cass. n. 14304/2021). I Supremi Giudici al riguardo hanno sempre affermato (per tutte n. 711/2017), che, qualora l'accertamento effettuato dall'Ufficio finanziario si basi sulle verifiche dei conti bancari, l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica, ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla motivazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono prive di rilevanza fiscale. Ne consegue che il soggetto onerato deve provare, al fine di vincere tale presunzione, fatti concreti e documentati, che dimostrino che i versamenti bancari non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono privi di rilevanza fiscale. La Corte di Cassazione enuncia una serie di rilevanti principi, riguardanti la materia oggetto del contendere. In sostanza, i Supremi Giudici premettono, infatti, che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l'articolo 32 del Dpr 600/1973 prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi. A fronte di detta presunzione legale, continua il Collegio di nomofilachia, il contribuente è onerato di fornire la prova contraria, anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre, comunque, ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell'ammontare e nel contesto complessivo (cfr. Cassazione nn. 19971/2016 e 22502/2011). La presunzione di riferibilità dei movimenti bancari a operazioni imponibili si correla, infatti, ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga del conto corrente bancario per effettuare rimesse e prelevamenti inerenti all'esercizio dell'attività d'impresa, onde alla presunzione di legge (relativa) non può contrapporsi una mera affermazione di carattere generale priva di idonea documentazione di supporto, né è possibile ricorrere all'equità (cfr. Cassazione nn. 13035/2021 e 6869/2020). Specificatamente in tema di Iva, ma il principio è applicabile anche per le imposte dirette, la Suprema Corte ribadisce che, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall'articolo 51, comma 2 n. 2 del Dpr 633/1972 (in virtù della quale le movimentazioni di denaro, nella specie bancarie, risultanti dai dati acquisiti dall'ufficio si presumono conseguenza di operazioni imponibili), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell'affluire di somme sui conti correnti, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica e rigorosa della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni ovvero dell'estraneità delle stesse alla sua attività, con conseguente non rilevanza fiscale (cfr. Cassazione nn. 4829/2015;
21303/2013;
4829/2015;
6869/2020). L'esame della contabilità, in sostanza, non consente di per sé sola, in assenza di adeguate, comprovate e chiare specificazioni fornite dal contribuente, di potere valutare compiutamente il titolo sottostante su cui si basa la movimentazione bancaria contestata dall'Ufficio finanziario a mente dell'art. 32 cit. (sia sotto il profilo dei prelevamenti che dei versamenti) al fine di verificare il loro eventuale inserimento in contabilità e la loro inerenza;
a tale scopo necessita che il contribuente fornisca analiticamente e dettagliatamente per ogni operazione bancaria contestata dall'Ufficio le ragioni sottostanti su cui ogni operazione si fonda. E tale prova specifica e analitica potrà e dovrà essere fornita solo dal contribuente onde consentire all'Agenzia prima e al Giudice poi un attento, preciso e analitico esame al fine di verificarne la correttezza fiscale sia sotto il profilo del loro effettivo inserimento nella dichiarazione tributaria che sotto quello della loro inerenza. Tale onere a carico del contribuente non potrà ritenersi assolto con la semplice produzione di documenti contabili i quali, di per sé soli, non consentono, una esatta valutazione di ogni singola operazione bancaria contestata ai fini che occupano (provenienza delle somme movimentate ed estraneità dai fatti aziendali). Si ribadisce che secondo l'insegnamento della Corte di Cassazione, condiviso da questo Collegio non rinvenendo validi motivi per doversene discostare, "il contribuente ha l'onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle operazioni bancarie a fatti imponibili;
pertanto il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione (Cass. 3 maggio 2018, n. 10480), mentre gli accertamenti bancari assumono da soli una significativa valenza probatoria, determinando una presunzione iuris tantum che i relativi movimenti bancari si riferiscono ad operazioni imponibili con conseguente inversione dell'onere della prova a carico del contribuente (in questo senso anche Cass. 30 dicembre 2015, n. 26111;
5 maggio 2017, n. 11102);
Cass. Ordinanza 14 ottobre 2019, n. 25733". Occorre altresì ribadire che, come più volte affermato sempre dalla Suprema Corte, a fronte della contestazione da parte dell'Ufficio dell'esistenza di operazioni imponibili ritenute essere state effettuate in evasione d'imposta, non giova al contribuente richiamare la tenuta di una formalmente contabilità regolare. Sul punto l'arresto del giudice di legittimità è oramai consolidato laddove afferma che al contribuente non gioverà esibire fatture e/o dimostrare la tenuta di una regolare contabilità formale delle scritture contabili o dei mezzi - evidenze contabili - di pagamento poiché questi sono facilmente rielaborabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale una operazione fittizia (cfr. fra le tante Cass. 12802/2012, 23731/2013). Inoltre, per quanto concerne la insufficienza della regolarità della contabilità, ai fini dell'onere della prova incombente su parte contribuente, si riporta quanto statuito dalla Corte di Cassazione con Ordinanza 08 settembre 2021, n. 24238 laddove, trattando il caso in cui l'operazione era comunque presente in contabilità, si afferma che "non è condivisibile quanto sostenuto dalla CTR, la quale ha ritenuto plausibile che l'assegno circolare di euro 52.000,00, versato sul conto corrente bancario del contribuente imprenditore, non fosse riconducibile a suoi introiti imprenditoriali, ma costituisse il corrispettivo a lui versato da tale G.D. per la vendita di un posto barca presso il porto turistico di R.T.";
sostiene la Corte, ed è questo il passaggio significativo, che "non è esaustivo il fatto che detta operazione di vendita risultasse annotata sul libro soci dell'anzidetto Porto Turistico di R.T. e neppure è esaustivo l'avere il contribuente documentalmente provato che la banca, per motivi di privacy, gli avesse negato la chiesta certificazione circa l'emittente dell'assegno circolare, di cui si controverte, sebbene si fosse dichiarata pronta a produrla su richiesta dell'Agenzia delle entrate;
era invero preciso onere del contribuente fornire la prova che detto assegno circolare era stato da lui ricevuto a fronte della cessione di un posto barca presso il porto turistico di R.T.;
il che, nella specie, il contribuente non ha fatto". Ebbene, osserva il Collegio che, nella fattispecie qui in esame, l'onere della prova (analitica, rigorosa, dettagliata e riproducente la effettività delle operazioni) non risulta essere stato assolto dalla parte onerata della stessa, ossia da parte contribuente. In effetti, nella fattispecie in esame parte contribuente non ha esaustivamente giustificato le movimentazioni bancarie contestate per l'importo complessivo di euro 260.000,00. In particolare, al fine di dimostrare la veridicità e la effettività delle suddette operazioni, la società La Fortezza Srl avrebbe dovuto depositare idonea e dettagliata documentazione di supporto, ossia fatture, preliminare di vendita, scambio di corrispondenza ad hoc, ecc.;
insomma tutto ciò che ha determinato in concreto ed effettivamente la necessità di siffatta operazione. Tanto più che trattandosi di operazioni bancarie di versamento e di successiva restituzione di caparra si presuppone fondatamente che a monte di siffatte operazioni debba sussistere un negozio giuridico contenente l'oggetto del rapporto obbligatorio di natura contrattuale nonché le condizioni per la corresponsione di una caparra (confirmatoria?). Osserva, altresì, il Collegio che la circostanza che il suddetto importo sia stato restituito da L Srl alla I Srl e che tale operazione figuri nel libro giornale di quest'ultima società non appare dirimente per le medesime ragioni di cui innanzi: manca, in ogni caso, la documentazione attestante la motivazione di tale ritorno di denaro, quale ad esempio la produzione di un atto di risoluzione contrattuale che ha indotto la società L Srl a restituire alla I Srl la somma in precedenza introitata. All'uopo si sottolinea che tale produzione documentale sarebbe stata di non difficile reperimento dal momento che le due società, come risulta incontestato in atti, avevano lo stesso soggetto quale amministratore. Pertanto, tratteggiate le conclusioni della giurisprudenza di riferimento circa la portata che deve avere la controprova del contribuente, nonché riportate le vicende processuali che hanno caratterizzato il caso de quo, questo Collegio di seconda istanza conclude per la correttezza del deliberato impugnato. Infatti, a fronte della presunzione legale di imputazione a ricavi delle movimentazioni bancarie ritenute ingiustificate, la Commissione esclude la validità della controprova fornita dal contribuente, che si è limitato alla mera indicazione del soggetto destinatario o erogatore delle somme contestate senza supportare tali movimentazioni bancarie da idonea e dettagliata giustificazione. In definitiva, può osservarsi l'insufficienza, per il contribuente che intenda vincere l'onere probatorio previsto dalla legge, della mera indicazione della provenienza o della destinazione delle somme contestate: egli, come insegna la giurisprudenza di legittimità, deve fornire "una prova non generica, ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono privi di rilevanza fiscale" (cfr., ex multis, Cassazione n. 15857/2016), ossia egli deve spiegare e provare analiticamente e compiutamente con idonea documentazione di supporto la causa del rapporto fondamentale e sottostante al movimento bancario (cfr., ex multis, Cass. n. 13075/2017). Nel caso di specie, parte appellante non ha fornito la prova esaustiva in ordine alla non imponibilità delle movimentazioni bancarie contestate. Conclusivamente, il suddetto motivo di appello incentrato sulla "Nullità della sentenza di primo grado per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 32, comma primo, n. 2), d.P.R. n. 600/1973" è infondato e da respingere. Con il secondo motivo di appello parte appellante ha eccepito la "Nullità della sentenza di primo grado per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 14, comma 4, L. 24 dicembre 1993, n. 537". A tal proposito parte appellante, nella memoria conclusionale, ha rilevato per estratto quanto segue: ""La nullità della sentenza di primo grado, la quale ha confermato il rilievo dell'Ufficio di recupero a tassazione, in capo alla Società Appellante, dell'importo pari ad euro 96.874.000,00 (finanziamenti ottenuti da Banca M. S.p.A.), quali proventi illeciti a norma degli art. 14, comma 4, Legge n. 537/1993 e 36, comma 34- bis, del D.L. n. 223/2006, convertito con Legge n. 248/2006, emerge con tutta evidenza ponendo attenzione alle seguenti statuizioni della CTP: "ciò che conta, a livello tributario, non è la persona che ha commesso l'illecito". Tale asserzione è frutto di un'interpretazione ed applicazione giuridicamente erronea, da parte dei Giudici di primo grado, dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1993. Da una lettura del combinato disposto dei commi 4 e 4-bis della Legge n. 537/1993, emerge come il provento da illecito e, quindi, la sua tassabilità, sia configurabile solo e sempre nei confronti di chi ha commesso il reato (comma 4 dell'art. 14 della Legge citata), mentre l'indeducibilità del relativo costo rileva solo nei confronti di chi ha sostenuto tale onere per la commissione dell'illecito (comma 4 - bis della Legge de qua). In altre parole, il precetto di cui al comma 4 dell'art. 14 della Legge citata ha, quale finalità, quella di "colpire", sotto il profilo fiscale, quei soggetti che, ponendo in essere comportamenti/attività contra ius, ritraggono dagli stessi illeciti profitti;
la norma, quindi, non si riferisce di certo a quei soggetti (come l'Appellante) che, anche indirettamente, vengono raggiunti negli effetti da tali attività illecite, ma i quali non sono essi stessi autori di tali attività. Pertanto, contrariamente a quanto affermato dai Giudici di primo grado, presupposto imprescindibile per la tassazione del provento illecito è la necessaria coincidenza soggettiva tra chi subisce la tassazione del provento e chi ha commesso il reato/illecito. Tale coincidenza si rende per l'appunto necessaria ai fini dell'operatività dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1993, avuta considerazione del fatto che la predetta norma pone la commissione dell'illecito, da parte di un soggetto, quale antecedente logico-giuridico rispetto alla tassazione del provento conseguito da tale soggetto a seguito della commissione del predetto illecito. Nel caso di specie tale coincidenza soggettiva non sussiste, in quanto il reato contestato dall'Amministrazione finanziaria ("mendacio e falso interno" ai sensi dell'art. 137, comma 2, T.U.B.), il quale dovrebbe costituire presupposto ed antecedente logico per l'applicazione dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1993, è un reato proprio, poiché riferibile solo ed unicamente ai dipendenti dell'Istituto di Credito che hanno curato l'istruttoria del fido concesso (sul punto Relazione Ministeriale all'art. 137, comma 2, T.U.B., secondo cui "il falso interno configurandosi anch'esso come una tipica ipotesi di falso ideologico riferito ai dipendenti della banca") e non è, pertanto, ascrivibile alla Società Appellante, destinataria dell'attività accertativa dell'Amministrazione Finanziaria. Non avendo, quindi, la Società Appellante commesso il reato di cui all'art. 137, comma 2, T.U.B. (perpetrato unicamente e necessariamente dai funzionari/dipendenti di Banca M. S.p.A.) la stessa non può aver conseguito da tale attività illecita (posta in essere, lo si ribadisce, da altri soggetti, i funzionari/dipendenti di Banca M. S.p.A.) alcun provento illecito da sottoporre a tassazione. Rebus sic stantibus, è giuridicamente erronea, illegittima ed infondata la statuizione dei Giudici di primo grado, i quali hanno considerato quale provento da sottoporre a tassazione in capo alla Società Appellante non il frutto dell'illecito (una tangente o che altro) commesso dai dipendenti/funzionari di Banca M. S.p.A., bensì una somma di denaro incassata dall'Appellante a titolo di finanziamento, di cui la stessa (Appellante) ha, tra l'altro, l'obbligo di restituzione (con applicazione degli interessi)". (La CTP ha statuito): "certo l'illecito è stato compiuto dagli Organi di tale Istituto di Credito, ma L ne ha beneficiato, non facendoli transitare nemmeno in contabilità, quindi tali importi vanno sottoposti a tassazione così come previsto dall'art. 14, comma 4, della Legge 537/1993 e dall'art. 36, comma 34- bis, del D.L. 223/2006"". Prosegue l'appellante: ""La Commissione di primo grado, avendo riconosciuto che il reato di cui all'art. 137, comma 2, T.U.B., è stato compiuto dagli Organi di Banca M. S.p.A., avrebbe dovuto ritenere non operante, nei confronti della Società Appellante, l'art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1993. Invece, da una premessa corretta (commissione dell'illecito da parte degli Organi di Banca M. S.p.A.), i Giudici hanno fatto conseguire una conclusione giuridicamente erronea, illegittima ed infondata, avuta considerazione del fatto che hanno ritenuto corretto l'operato dell'Ufficio, il quale ha configurato la tassazione del provento non in capo al soggetto che ha commesso l'illecito di cui all'art. 137, comma 2, T. U.B. (il funzionario/dipendente di Banca M. S.p.A.), bensì nei confronti di un soggetto (la Società Appellante) che tale illecito non ha commesso, qualificando in maniera assolutamente distorta come provento non il frutto dell'illecito (una tangente o che altro), bensì una somma di denaro incassata dall'Appellante a titolo di finanziamento, di cui la stessa (Appellante) ha, tra l'altro, l'obbligo di restituzione (con applicazione degli interessi). A tale erronea conclusione i Giudici sono giunti asserendo la configurabilità di un "beneficio" in capo alla Società Appellante. Quanto affermato dalla Commissione è illegittimo ed infondato. Il comma 4 dell'art. 14 della Legge n. 537/1993 dispone che "i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili quali illecito civile, penale o amministrativo" sono tassabili "se non già sottoposti a sequestro o confisca penale". La ratio di tale previsione è facilmente comprensibile: avuta considerazione del fatto che il Legislatore ha voluto introdurre, attraverso la disposizione in commento, il principio della rilevanza fiscale dell'illecito, il quale (illecito) costituisce "circostanza" idonea a generare reddito e, quindi, da sottoporre a tassazione, ne consegue logicamente come eventuali provvedimenti ablatori, determinando la perdita del reddito in capo al contribuente (soggetto attivo del reato), fanno venir meno il presupposto (id est, il possesso del reddito) per la sottoposizione del contribuente ad imposizione, in quanto recidono il legame tra soggetto autore dell'illecito e possesso del reddito ritratto dall'attività illecita. Pertanto, qualsiasi circostanza idonea a spezzare tale legame tra soggetto autore dell'illecito e possesso del reddito derivante dall'illecito, comporta la non tassazione del provento illecito (sul punto, Circolare della Direzione AA.GG. e Contenzioso Tributario dell'Agenzia delle Entrate n. 150/E del 10 agosto 1994, la quale ha affermato chiaramente che "va, peraltro, osservato che potrà essere eccepita, in sede di accertamento, l'eventuale avvenuta perdita del provento per confisca o restituzione e risarcimento, con onere della prova a carico del contribuente"). Ciò posto, nella fattispecie in esame le erogazioni effettuate da Banca M. S.p.A. nei confronti della Società Appellante sono avvenute tramite lo schema giuridico dell'apertura di credito (cfr. foglio n. 24, punto 7, del P.V.C.), disciplinato dagli artt. 1842 e ss. c.c. In virtù del contratto de quo, il soggetto accreditante (nella specie, Banca M. S.p.A) ha trasferito, in capo al soggetto accreditato (nella specie, la Società Appellante), la disponibilità della somma di denaro;
sul soggetto fruitore della somma (la Società Appellante) grava l'obbligo di restituzione della stessa. È più che evidente, quindi, come l'Appellante non abbia acquisito alcuna ricchezza a titolo definitivo in quanto, in virtù dello schema giuridico del contratto di apertura di credito, ha l'obbligo di restituzione delle somme ricevute (oltretutto maggiorate degli interessi). Viene, quindi, a mancare l'incameramento definitivo delle somme, che costituisce il presupposto per l'applicazione dell'art. 14, comma 4, Legge n. 537/1993 e tale circostanza è stata completamente trascurata dalla Commissione di primo grado, comportando l'erroneità giuridica e l'illegittimità della propria statuizione. Legittimamente ci si chiede, quindi, quale possa essere il "beneficio" e la "ricchezza" che, secondo i Giudici di primo grado, avrebbe conseguito la Società Appellante, avuta considerazione dell'obbligo, in capo alla stessa, di restituzione della somma ricevuta a titolo di finanziamento somma, oltretutto, su cui sono maturati anche gli interessi"". In ordine al suddetto motivo di appello l'Agenzia delle Entrate nelle proprie controdeduzioni ha dedotto quanto appresso: ""La doglianza si riferisce al rilievo concernente finanziamenti illecitamente ottenuti dalla Banca M. SpA per un totale di ?. 96.874.000,00. Secondo parte appellante la sentenza di primo grado avrebbe errato nel ritenere applicabile nella specie la disposizione dell'art. 14 comma 4 Legge n. 537 del 1993, non essendo ascrivibile alla società La Fortezza Srl la condotta di cui all'art. 137, comma 2 del Testo Unico Bancario. Al riguardo si ribatte che la tesi di controparte secondo cui per poter sostenere la tassabilità dei proventi illeciti vi deve essere coincidenza tra il soggetto accertato ed il soggetto attivo del reato, cioè il soggetto che ha tratto vantaggio dal fatto illecito deve essere lo stesso che lo ha commesso, è del tutto erronea e pretestuosa. Esattamente l'Organo giudicante ha osservato che" Certo l'illecito è stato compiuto dagli Organi di tale Istituto di credito, ma La Fortezza ne ha beneficiato…quindi tali importi vanno sottoposti a tassazione così come previsto dall'art. 14, comma 4, della Legge 537/1993 e dall'art. 36, comma 34 bis del D.L. 223/2006". Difatti, l'art. 14, comma 4 Legge n. 537 prevede testualmente che" Nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria". La predetta disposizione detta un principio generale di pretesa erariale verso i proventi di provenienza illecita e non prevede limitazioni da un punto di vista soggettivo;
non prevede cioè che la tassabilità riguardi la sola persona fisica che ha commesso il reato, bensì colpisce una ricchezza che deriva da un fatto illecito. L'art. 36 comma 34-bis del D.L. n. 223/2006 conv. con legge n. 248/2006 ha fornito un'interpretazione autentica della norma suddetta, precisando: "In deroga all'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell'articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi". Le norme appena citate non consentono di essere interpretate nel senso voluto da parte avversa, che cioè l'illecito sarebbe imputabile al solo funzionario dipendente dell'istituto bancario e non anche al soggetto che ha usufruito dei finanziamenti. Per quanto concerne l'assunto secondo cui la società non avrebbe conseguito alcun arricchimento patrimoniale qualificabile come provento, si evidenzia che in proposito il Collegio giudicante bene ha argomentato: "Certo l'illecito è stato compiuto dagli Organi di tale istituto di credito, ma La Fortezza ne ha beneficiato, non facendoli transitare nemmeno in contabilità, quindi tali importi vanno sottoposti a tassazione così come previsto dall'art. 14, comma 4, della Legge 537/1993 e dall'art. 36, comma 34 bis, del D.L. 223/2006. Tutto ciò a nulla valendo la circostanza che la banca si è insinuata nel passivo fallimentare per vedersi restituire quanto di sua competenza e che la ricorrente, a suo dire non avrebbe conseguito alcun arricchimento patrimoniale, in quanto ciò che conta, a livello tributario, non è la persona che ha commesso l'illecito, che verrà perseguita per altro verso, ma la ricchezza che deriva dal fatto illecito e che deve essere sottoposta a tassazione"". O, la complessa questione riproposta all'esame di questo Collegio concerne il recupero a tassazione dei proventi illeciti. Il comma 4 dell'art. 14 della L. 537/1993 dispone infatti che anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo sono soggetti a tassazione, "se non già sottoposti a sequestro o confisca penale". L'iter normativo è quindi iniziato con l'art. 14 della L. n. 537/1993. L'illiceità penale, come detto, non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico. La dottrina, per parte sua, ha affrontato fin da subito l'argomento, basandosi su due distinte posizioni: l'una, per così dire, a carattere "giuridico", contraria all'imponibilità dei proventi illeciti;
l'altra, per così dire, a carattere "economico", tendente, invece, ad ammetterla. Secondo la prima tesi i proventi derivanti da attività illecite penalmente rilevanti non sarebbero suscettibili di imposizione tributaria, dato che l'attività illecita non può essere considerata presupposto di imposta, costituendo il risultato ottenuto, pretium sceleris e non reddito tecnicamente e giuridicamente inteso;
diversamente, secondo tale tesi, si perverrebbe alla conseguenza di chiedere all'autore dell'illecito di denunciare al Fisco i relativi proventi, con ciò finendo paradossalmente e in sostanza con l'autodenunciarsi. A sostegno, invece, della tesi della tassabilità starebbe la considerazione che presupposto dell'imposizione è soltanto il possesso di un reddito (concezione cosiddetta "economica"). In altre parole, chi trae proventi dall'attività illecita realizza, comunque, una ricchezza che costituisce la causa del pagamento di un tributo. Nello specifico, sulla questione della tassazione dei proventi illeciti questo Collegio osserva che la "dottrina", occupandosi proprio della fattispecie di reato qui in evidenza correlato alle vicende di un Istituto bancario, si esprime innanzi tutto richiamando l'art. 14, comma 4, della Legge n. 537 del 1993, ove si legge che: "nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, del TUIR, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria". La norma deve essere interpretata in assonanza con quanto codificato nel comma 4-bis della medesima Legge (oggetto di modifiche successive). Il suddetto comma, così come modificato dall'art. 8, comma 3, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, recita che "nella determinazione dei redditi di cui all'art. 6, comma 1, del TUIR, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo". Nella precedente formulazione (quella riconducibile all'art. 2, co. 8, Legge 27 dicembre 2002, n. 289) il comma 4- bis affermava che "nella determinazione dei redditi di cui all'art. 6, comma 1, del TUIR, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l'esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti". Ad onta della riscrittura di parte del comma 4-bis dell'art. 14, risulta chiara la sussistenza di una relazione di interdipendenza tra il predetto comma ed il comma 4. Entrambi, infatti, rinviano espressamente all'art. 6, comma 1, del TUIR, ai fini della "determinazione dei redditi", riferendosi, altresì, per la loro operatività, al campo di atti o attività qualificabili come illecite. Da tale connessione scaturisce che i principi espressi dalla giurisprudenza di merito (CTP Milano, sentenza n. 20/2013) e dalla prassi (Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 32/E del 3 agosto 2012) in riferimento al comma 4-bis dell'art. 14 cit., si applichino anche ai fini della interpretazione del comma 4 dell'art. 14 della medesima Legge. Tra tali principi rileva, ai fini della questione che ne occupa, quello secondo cui il carattere sanzionatorio del divieto di dedurre "i costi da reato", stabilito dall'art. 14, comma 4-bis, Legge n. 537/1993, implica che la fattispecie criminosa alla quale sono riconducibili i costi sia riferibile al soggetto passivo del tributo o, se si tratta di società, al suo legale rappresentante, ma non a terzi. Pertanto, dalla lettura del combinato disposto del comma 4 e del comma 4-bis dell'art. 14 della Legge n. 537/1993, deriva che il provento da illecito e, quindi, la sua tassabilità sia configurabile solo e sempre nei confronti di chi ha commesso il reato (comma 4 dell'art. 14 della Legge citata), mentre l'indeducibilità del relativo costo rileva solo nei confronti di chi ha sostenuto tale onere per la commissione dell'illecito (comma 4-bis dell'art. 14 Legge citata). Il precetto contenuto nel comma 4 dell'art. 14 cit. ha sanzionato, sotto il profilo fiscale, quei soggetti che, ponendo in essere comportamenti e/o attività illecite, ritraggono dagli stessi illeciti profitti;
il predetto precetto non si riferisce pertanto a quei soggetti, nel caso de-quo la Società, che, anche indirettamente, vengono raggiunti negli effetti da tali attività illecite ma che non sono essi stessi gli autori di tali attività. A dimostrazione della validità di siffatta interpretazione, che la interpellata dottrina ritiene pacifica, sussiste la circostanza che il comma 4 stabilisce, alla fine del primo periodo, l'esclusione dalla tassabilità per quei proventi illeciti già sottoposti a sequestro o confisca penale. Risulta ovvio che per essere sottoposti a sequestro o confisca penale i proventi devono essere per forza di cose riferibili a chi ha commesso il reato/ l'illecito e da ciò ne deriva la necessaria coincidenza soggettiva tra chi subisce la tassazione del provento illecito e chi ha commesso il reato, così come condivisibilmente sostiene parte appellante. Il sequestro o la confisca del provento illecito dalla sfera giuridica dell'autore del reato determina l'intassabilità oggettiva di tale provento quale ricavo, per il fatto che non vi è stato alcun incremento patrimoniale in capo all'autore dell'illecito, incremento da intendersi, altresì, come disponibilità materiale e come effettiva possibilità di fruizione dello stesso. Detto ciò, nella fattispecie in esame è necessario in primo luogo precisare come il reato di cui all'art. 137, comma 2, T.U.B. (c.d. "falso interno") sia un reato c.d. proprio. L'ipotesi criminosa è la seguente: "Salvo che il fatto costituisca reato più grave, chi svolge funzioni di amministrazione o di direzione presso una banca o un intermediario finanziario nonché i dipendenti di banche o intermediari finanziari che, al fine di concedere o far concedere credito ovvero di mutare le condizioni alle quali il credito venne prima concesso ovvero di evitare la revoca del credito concesso, consapevolmente omettono di segnalare dati o notizie di cui sono a conoscenza o utilizzano nella fase istruttoria notizie o dati falsi sulla costituzione o sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del richiedente il fido, sono puniti con l'arresto da sei mesi a tre anni e con l'ammenda fino a euro 10.329". Il tenore letterale della norma porta a concludere che lo stesso (reato) può essere commesso solo dai funzionari che hanno curato l'istruttoria del fido concesso. Non si rileva, quindi, la identificazione soggettiva tra soggetto che ha commesso l'illecito ed il soggetto che ha beneficiato dei proventi dell'attività delittuosa. Nel caso di specie l'Agenzia, infatti, ha configurato la tassazione di un provento non in capo al soggetto che ha commesso l'illecito (il funzionario/dipendente dell'Istituto di Credito), bensì nei confronti di un soggetto (la Società) che tale illecito non ha commesso, (quanto meno è ciò che risulta in atti), qualificando in modo non corretto come provento non il frutto dell'illecito, ma una somma di denaro incassata dalla Società a titolo di finanziamento, con obbligo di restituzione e gravata degli interessi. Infatti, in capo alla Società non si determinato alcun arricchimento patrimoniale definitivo dal momento che i finanziamenti de-quibus sono avvenuti in base allo schema giuridico dell'apertura di credito di cui agli artt. 1842 - 1845 c.c. L'art. 1842 c.c. così recita: "L'apertura di credito bancario è il contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato". Sulla base del contratto de quo, quindi, un soggetto finanziatore, ossia la Banca, ha trasferito, in capo al soggetto finanziato, ossia la Società, la disponibilità provvisoria, dicasi provvisoria, della somma di denaro;
su quest'ultimo soggetto beneficiario del finanziamento incombe infatti l'obbligo di restituzione della stessa maggiorata degli interessi contrattualmente pattuiti. Osserva il Collegio che il carattere provvisorio della disponibilità delle somme in capo alla Società è incompatibile con l'assunto fondante dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537 del 1993, che si esplica nella volontà legislativa di sanzionare, mediante la sottoposizione a tassazione, quei soggetti che, essendosi resi autori dell'attività illecita hanno conseguito un incremento della propria sfera patrimoniale, però a titolo definitivo. Ne consegue che, non avendo la Società L Srl conseguito la disponibilità di tali somme a titolo definitivo, l'applicazione, da parte dell'Ufficio finanziario, dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1993, si palesa illegittima ed infondata per assenza del presupposto oggettivo della norma. D'altra parte, in ordine alla necessità, ai fini della tassazione di proventi illeciti, che sussista la coincidenza soggettiva tra chi subisce la tassazione del provento e chi ha commesso il reato/illecito si è espressa la Corte di Cassazione. I giudici di legittimità hanno reiterato l'insegnamento secondo cui «In tema di imposte sui redditi, i proventi derivanti da fatti illeciti, rientranti nelle categorie reddituali di cui all'art. 6, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, devono essere assoggettati a tassazione anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati.» (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7511 del 05/06/2000, Rv. 537264 - 01);
«In tema di imposte sui redditi, l'art. 14, quarto comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, primo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, costituisce non soltanto interpretazione autentica della normativa contenuta nel d.P.R. n. 917 del 1986, ma anche criterio ermeneutico decisivo per giungere ad identica conclusione con riguardo alla previgente disciplina degli artt. 1 e 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, attesa la sostanziale identità della disciplina in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione. Ne consegue che il c.d. "pretium sceleris" si deve considerare come reddito imponibile (anche nel vigore del d.P.R. n. 597 del 1973), e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati.» (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21746 del 09/11/2005, Rv. 584954 - 01). In sostanza, dalle suesposte pronunce emerge la circostanza che l'assoggettamento a tassazione dei proventi illeciti riguarda esclusivamente il soggetto che ha commesso il reato/illecito e che da tale commissione ne ha tratto un ulteriore e definitivo beneficio della propria posizione personale. Pertanto, questo Collegio di seconda istanza, in difformità con quanto statuito dal Giudice di prime cure, ritiene corretta la suddetta impostazione concettuale e sostanziale concernente la trattazione della tassazione dei proventi illeciti (art. 14 cit.), impostazione che è stata propugnata da parte appellante nella questione concreta che qui ci occupa. Ad ulteriore conforto della decisione testé assunta da questo Collegio è necessario, altresì, riportare quanto affermato dall'Agenzia delle Entrate nel PVC e nell'avviso di accertamento, entrambi in atti. Nel PVC vi si legge: "Come già dettagliatamente descritto nelle pagine che precedono, dalle attività eseguite nell'ambito della verifica estrinsecatesi anche nell'esecuzione di indagini finanziarie, sono emerse innumerevoli movimentazioni, poste in essere dalla società verificata (tutte le schede contabili patrimoniali relative alle citate operazioni di finanziamento sono state in precedenza già dettagliatamente elencate) e registrate nei sotto conti patrimoniali, aventi per oggetto vari finanziamenti". (e ciò è in contraddizione con l'asserzione del giudice di prime cure in ordine al fatto che gli importi finanziati non siano stati fatti transitare in contabilità). Nell'avviso di accertamento vi si legge che: ""Premesso che dagli esiti delle investigazioni, tuttora in corso, delegate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona sul gruppo "Banca M." sono emersi diversi elementi di rilevanza penale tra cui quelli previsti dall'art. 137, comma 2 del D. Lgs. 385/1993 - testo Unico Bancario. Nell'ambito di tali investigazioni particolare attenzione hanno destato le operazioni di finanziamento nei confronti della società La Fortezza Srl. Dette elargizioni, molto spesso sono state concesse in assenza di una corretta ed esaustiva valutazione del merito creditizio. Nel dettaglio è emerso che le procedure che hanno portato alla concessione del credito bancario, risultano inficiate da comportamenti contravvenzionali perpetrati da funzionari e dipendenti dell'istituto di credito le cui condotte rientrano nella fattispecie di cui all'articolo 137, comma 2 del D. Lgs. 385/1993 - Testo Unico bancario. Tale operato dei funzionari della suddetta banca ha consentito alla società in verifica di captare illecitamente ingenti somme di denaro i cui importi sono stati forniti dal Servizio di Concessione Crediti di Banca M. Spa. Proprio dai menzionati comportamenti costituenti illecito penale derivano le entrate di cui ha beneficiato L S.r.l. Posto quanto sopra, l'art. 14, comma 4 della legge 737/1993 afferma che nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1 del Tuir devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale". (…) "I suddetti proventi percepiti dalla società L S.r.l. risultano di derivazione diretta dalla commissione del reato segnalato in assenza del quale, ovviamente, essi non sarebbero mai pervenuti alla società ed anzi, le indagini hanno palesemente dimostrato l'intenzionalità dolosa dei responsabili di abbattere tutte le procedure di controllo richieste dalle norme di legge per la concessione dei fondi in rassegna". In effetti, dal contenuto di quanto riportato nell'avviso di accertamento de-quo emerge che alla società La L S.r.l. non può essere contestata la commissione del reato di cui all'art. 137, comma 2 del TUB poiché tale tipologia di reato non presuppone la sua commissione da parte di una società esercente l'attività di "costruzione di edifici residenziali e non residenziali" (cfr. PVC) in quanto trattasi di reato che può essere compiuto soltanto ed esclusivamente da "chi svolge funzioni di amministrazione o di direzione presso una banca o un intermediario finanziario nonché i dipendenti di banche o intermediari finanziari". Ne consegue che, non sussistendo agli atti del processo tributario coincidenza soggettiva tra chi subisce la tassazione del provento e l'autore del reato/illecito contestato (art. 137, comma 2 del TUB), non si configura in capo alla stessa società appellante alcun provento illecito da sottoporre a tassazione ai sensi dell'art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993. Inoltre, a conforto di siffatta impostazione concettuale e sostanziale occorre osservare che i finanziamenti erogati dalla Banca M. Spa in favore della società L non hanno determinato un beneficio a titolo definitivo per la stessa in quanto le modalità di finanziamento prevedevano l'obbligo di restituzione alla banca delle somme finanziate maggiorate degli interessi tanto che, a riprova di tale assunto, risulta in atti che la Banca medesima si sia insinuata per il proprio credito vantato nel fallimento della società L S.r.l. Ad ulteriore conforto di quanto or ora esposto, questo Collegio ritiene essenziale quanto affermato dai Giudici di Legittimità nella Ordinanza n. 26914 del 2021 laddove viene affrontata il tema della tassabilità, come redditi derivanti da fatto illecito, delle somme ricevute da una società, poi fallita. In particolare, i giudici di appello avevano accolto la tesi dell'Agenzia delle entrate e considerato legittimo il recupero a tassazione delle somme considerate come proventi illeciti "perché si tratta di anticipi ottenuti da istituti bancari tramite la presentazione di falsa documentazione ed inoltre perché i suddetti fondi non sono mai stati restituiti". La società ha proposto ricorso per cassazione deducendo, tra i vari motivi, l'errore in iudicando che avrebbe commesso la C.T.R. nell'avere classificato le anticipazioni bancarie - ottenute dalla società in bonis su presentazioni di fatture emesse per operazioni asseritamente inesistenti - quali "redditi imponibili ovvero proventi illeciti";
così facendo, secondo la ricorrente, i giudici di secondo grado hanno ignorato la vera natura delle anticipazioni bancarie, in quanto geneticamente fonte di obbligo di restituzione, e che rappresenterebbero null'altro che mere provviste temporanee di denaro ricevute per il tramite della cessione in garanzia delle fatture. Sempre secondo la tesi del fallimento, la C.T.R. aveva omesso di prendere in esame la circostanza che le somme anticipate non erano state restituite, perché, nel frattempo, la società era stata sottoposta a procedura fallimentare, mentre le banche si erano regolarmente insinuate per le somme di denaro corrisposte ed erano state ammesse allo stato passivo del fallimento. I Giudici Supremi, dopo aver riconosciuto che le fatture utilizzate dalla società erano fittizie, essendo un aspetto non contestato e, quindi, acquisito agli atti del giudizio, tuttavia censurano la pronuncia della C.T.R. per aver erroneamente interpretato la natura dell'anticipazione bancaria in conto fatture. Questo istituto, infatti, rappresenta una tipologia di "finanziamento a breve termine" tramite il quale l'imprenditore può ottenere liquidità cedendo all'istituto bancario i crediti commerciali vantati verso altre aziende sulla base di fatture con scadenza futura. Viene, altresì, precisato che a seconda del tipo di anticipazione concordata, la banca otterrà il ristoro delle somme anticipate o tramite riscossione alla scadenza della fattura dal terzo debitore o dal correntista beneficiario dell'anticipazione. In ogni caso, sottolinea la Corte di legittimità, il "beneficiario dell'anticipazione, al momento dell'erogazione dell'anticipazione, trae il solo vantaggio di una disponibilità anticipata della somma, ma" (e questo passaggio è importante) "nessun reddito". Ugualmente, viene giudicata erronea l'argomentazione utilizzata dal giudice di appello fondata sulla mancata restituzione delle somme. In questo caso, secondo gli E, i giudici della C.T.R. avrebbero dovuto rilevare che "tale restituzione era impedita dalla sottoposizione della società alla procedura fallimentare che, come noto, determina lo spossessamento del fallito e che le banche anticipatarie, per tali somme, avevano proposto tempestiva insinuazione ed erano state ammesse allo stato passivo fallimentare". O, osserva il Collegio che la suddetta fattispecie sottoposta all'esame della Suprema Corte appare simile a quella che qui ci occupa poiché anche se nel caso de-quo rispetto all'anticipazione bancaria in conto fatture è stata utilizzata la forma di finanziamento dell'apertura di credito ex artt. 1842 e 1845 c.c., trattasi di ambedue tipologie di finanziamento che prevedono la messa a disposizione della società finanziata di somme a titolo provvisorio e giammai definitivo, come viceversa richiesto per la tassabilità dei proventi derivanti dalle attività illecite (art. 14, comma 4 cit.). Conclusivamente, per quanto innanzi affermato, il motivo di appello rubricato "Nullità della sentenza di primo grado per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 14, comma 4, L. 24 dicembre 1993, n. 537" merita di essere accolto ed il relativo rilievo di cui all'avviso di accertamento deve essere annullato. Con il terzo motivo di appello parte appellante ha eccepito la "Erroneità ed illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione della disciplina del raddoppio dei termini di accertamento". All'uopo parte appellante nella memoria conclusionale ha sostenuto che: ""I Giudici di prime cure hanno ritenuto "destituita del benché minimo fondamento" la contestazione, avanzata dalla Società Appellante nel ricorso di primo grado, relativa alla nullità dell'avviso di accertamento in quanto notificato oltre il termine ordinario di accertamento (avviso riferito al periodo di imposta 2008 e notificato il 30.05.2015, vale a dire oltre il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione). In specie, il Collegio ha affermato che "secondo l'art. 43, comma 3, del D.P.R. 600/1973, nel caso in cui si viola una norma che prevede l'obbligo della denuncia, ai sensi dell'art. 331 del Codice di Procedura Penale, per i reati previsti dal D. Lgs. 74/2000, i termini sono raddoppiati". I Giudici hanno, quindi, confermato il modus procedendi dell'Ufficio, il quale ha fruito del raddoppio dei termini di accertamento "tenuto conto che nel corso della verifica sono emerse violazioni penalmente rilevanti ai sensi dell'art. 4 del D. Lgs. 74/2000". In pratica, il reato di dichiarazione infedele viene fatto derivare dall'illecito di cui all'art. 137, comma secondo, T.U.B. (cfr. pagg. 25 e ss. del P.V.C. 27 febbraio 2015 e Trasmissione dell'annotazione di Polizia Giudiziaria n. xxxxx/GTEN/xxxx del 04.03.2015 della Guardia di Finanza inoltrata all'Agenzia delle Entrate di Ancona, laddove si legge che "per quanto concerne l'informativa di reato n. 158292/784 del 18.09.2014, si evidenzia, come rappresentato per le vie brevi, che il contenuto della stessa, riguardante condotte penalmente rilevanti contemplate dall'art. 137, comma 2, del Decreto Legislativo 01/0971993, n. 385"). Tuttavia, avuta considerazione del fatto che l'illecito di cui all'art. 137, comma secondo, T.U.B. non può essere imputabile alla Società Appellante, in quanto reato proprio dei funzionari/dipendenti dell'Istituto di Credito, come già esposto sia in primo grado, sia in questa sede (e tale circostanza è stata riconosciuta anche dalla Commissione di primo grado, la quale ha affermato che "l'illecito è stato compiuto dagli Organi di tale Istituto di credito"), ne consegue come non possa configurarsi nemmeno il reato di cui all'art. 4 D. Lgs. n. 74/2000 (in quanto trova nell'illecito di cui all'art. 137, comma secondo, T.U.B. il suo presupposto necessario) e, quindi, come non possa operare il raddoppio dei termini di accertamento, contrariamente a quanto erroneamente ed illegittimamente statuito dai Giudici di primo grado. La Commissione ha, infatti, erroneamente ritenuto legittimo l'avviso di accertamento pur essendo stato notificato oltre il termine ordinario previsto dalla legge (31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione) in mancanza di una fattispecie di reato e, quindi, in mancanza dei presupposti di legge. Inoltre, i Giudici di primo grado hanno trascurato di considerare gli interventi normativi che hanno inciso la disciplina dei termini di accertamento. (D. Lgs. 05.08.2015, n. 128 e Legge n. 208 del 2015 - c.d. "Legge di Stabilità 2016). Secondo parte appellante "la norma sopravvenuta (comma 132 dell'art. 1 della Legge n. 208 del 2015) ha travolto la norma preesistente (comma 3 dell'art. 2 del D. Lgs. n. 128 del 2015), con la conseguenza che agli atti fiscali relativi ai periodi di imposta anteriori al 2016 si applica il regime transitorio previsto dal comma 132 dell'art. 1 della Legge n. 208 del 2015 e, quindi, nello specifico il raddoppio può operare solo qualora la denuncia venga trasmessa all'Autorità giudiziaria entro l'ordinario termine per procedere ad accertamento e non, pertanto, entro il termine recato dal comma 3 dell'art. 2 del D. Lgs. n. 128 del 2015, in quanto implicitamente abrogato dal comma 132 dell'art. 1 della Legge n. 208 del 2015. Ne deriva, nella fattispecie in esame, come il modus agendi dell'Amministrazione finanziaria sia contra ius e, quindi, tale da viziare di nullità l'avviso di accertamento, contrariamente a quanto statuito dalla Commissione di primo grado, in quanto la denuncia di reato è stata inoltrata alla Procura della Repubblica in data 05.03.2015 e, quindi, ben oltre il 31 dicembre 2013, termine ordinario di accertamento per l'anno 2008, cioè quello oggetto di verifica. Rebus sic stantibus, la sentenza di primo grado è giuridicamente erronea, illegittima ed infondata: a) Per avere ritenuto legittimo il raddoppio dei termini di accertamento pur in mancanza di una fattispecie di reato;
b) Per avere ritenuto legittimo il raddoppio dei termini di accertamento nonostante la notizia di reato sia stata trasmessa (in data 05.03.2015) alla Procura della Repubblica ben oltre il termine ordinario di accertamento del 31.12.2013 per il periodo di imposta 2008". Sulla circostanza, l'Agenzia delle Entrate è ovviamente di diverso avviso e sostiene che: "Contrariamente a quanto adduce l'appellante, la segnalazione di reato riguarda anche il legale rappresentante della società La Fortezza. Nella comunicazione di notizia di reato inviata alla Procura, prodotta da questo Ufficio in prime cure (cfr. pag. 2), si parla di violazione di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 10/03/2000, n. 74 commessa per gli anni 2007, 2008, 2009 e 2010 dal rappresentante legale pro tempore della società Lanari Pietro. Quanto all'obiezione, sollevata in questa sede di appello, secondo cui il raddoppio dei termini per accertare non opererebbe qualora la denuncia di reato sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di decadenza, si ribatte che la norma dell'art. 43 D.P.R. 600/1973 ha previsto il raddoppio dei termini di accertamento, alla sola condizione che sia configurata una violazione comportante l'obbligo di denuncia ai sensi dell'art. 331 del codice di procedura penale, in relazione alle ipotesi di reato previste dal D. Lgs. 74/2000, indipendentemente da una valutazione sulla loro concreta punibilità. E indipendentemente - si aggiunge - dall'esito del procedimento penale". Prosegue l'Ufficio: "Secondo la Consulta" (Corte Costituzionale n. 247/2011) "il momento in cui il pubblico ufficiale viene a conoscenza della notizia di reato - e di conseguenza sorge l'obbligo di denuncia - è un mero "fatto", inidoneo pertanto a condizionare l'operatività del termine raddoppiato". L'Ufficio finanziario sostiene, infine, la legittimità dell'accertamento in termini temporali in quanto l'articolo 1, comma132, della legge 208 del 2015 non avrebbe abrogato la disciplina transitoria recata dall'articolo 2, commi 1 e 2 del D. Lgs. n. 128 del 2015. Riportate le opposte posizioni processuali e sostanziali, osserva il Collegio che il motivo di appello è infondato e da respingere. Gli artt. 43, comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e art. 57, comma 3 del D.P.R. n. 633 del 1973, anche in virtù della sentenza n. 247 del 2011 della Corte Costituzionale, non lasciano adito a dubbi sul fatto che il raddoppio dei termini operi automaticamente laddove si sia in presenza di un comportamento del contribuente che comporti l'obbligo di denuncia da parte dell'Ufficio a fronte dell'astratta sussistenza di una fattispecie delittuosa come previsto dal D. Lgs. n. 74 del 2000. Nel caso di specie era stata rilevato da parte della G. di F. il mero riscontro di ipotesi di reato per la quale operava l'obbligo di denuncia penale, sicché il raddoppio dei termini, essendo automatico e previsto dalla legge, riguardava la intrapresa azione di accertamento. La Suprema Corte di Cassazione si è espressa di tal guisa nella ordinanza n. 15212 del 2021 laddove afferma che: "2.1. Questa Corte ha già avuto modo di affermare, sulla scorta dei principi enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 247 del 2011, che il cd. «non configura una ipotesi di». In realtà, il raddoppio attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini raddoppiati sono anch'essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva - ossia l'obbligo di denuncia penale per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, senza che all'Amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. In sostanza, i termini raddoppiati non si innestano su quelli in base ad una scelta degli uffici tributari e non procedono secondo una, ma sono unitari e decorrono autonomamente allorché sussistono elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000. Per tale motivo non può parlarsi di «riapertura o proroga di termini scaduti», né di «...» e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi e distinti termini di accertamento (Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037).

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