CASE OF CUSAN AND FAZZO v. ITALY - [Italian Translation] by the Italian Ministry of Justice
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Testo completo
© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata e rivista da Anna Aragona, Rita Pucci, Rita Carnevali e Martina Scantamburlo, funzionari linguistici.
Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court’s database HUDOC
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
CAUSA CUSAN E FAZZO c. ITALIA
(Ricorso n. 77/07)
SENTENZA
STRASBURGO
7 gennaio 2014
Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa Cusan e Fazzo c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 26 novembre 2013,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 77/07) proposto contro la Repubblica italiana con cui due cittadini di tale Stato, sig.ra Alessandra Cusan e sig. Luigi Fazzo («i ricorrenti»), hanno adito la Corte il 13 dicembre 2006 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.
3. I ricorrenti lamentano il rifiuto delle autorità italiane di accogliere la loro domanda volta a ottenere la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre.
4. Il 7 febbraio 2013 il ricorso è stato comunicato al Governo. Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito della causa.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
5. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1964 e nel 1958 e sono residenti a Milano.
6. I ricorrenti sono una coppia sposata. Il 26 aprile 1999 nacque la loro prima figlia, M.
7. Il ricorrente presentò domanda all’ufficiale dello stato civile affinché la figlia fosse iscritta nei registri dello stato civile con il cognome della madre (Cusan). La domanda fu respinta e M fu iscritta con il cognome del padre (Fazzo).
8. Nel giugno 2000 i ricorrenti presentarono dinanzi al tribunale di Milano un ricorso contro tale decisione, sostenendo che erano d’accordo nel voler iscrivere M con il cognome della madre e che non vi era alcuna disposizione del diritto italiano che lo impedisse.
9. Con sentenza del 6 giugno 2001, depositata in cancelleria l’8 giugno 2001, il tribunale di Milano respinse il ricorso dei ricorrenti.
10. Nella motivazione, il tribunale osservava che, anche se nessuna disposizione di legge imponeva di iscrivere un figlio nato da una coppia sposata con il cognome del padre, tale regola corrispondeva a un principio ben radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana. Il tribunale riteneva inoltre superflua la questione dell’esistenza o meno di una disposizione di legge esplicita, osservando in effetti che, ai sensi del vecchio articolo 144 del codice civile («il CC»), la donna sposata adottava il cognome del marito, e che i figli potevano essere iscritti solo con tale cognome;
esso era di fatto comune ai coniugi, anche se, successivamente, l’articolo 143 bis del CC aveva previsto che il cognome del marito potesse essere semplicemente aggiunto a quello della moglie.
11. I ricorrenti interposero appello.
12. Con sentenza del 24 maggio 2002, depositata in cancelleria il 4 giugno 2002, la corte d’appello di Milano confermò la sentenza di primo grado.
13. Nella motivazione, la corte d’appello osservava che la Corte costituzionale aveva affermato più volte (ordinanze nn. 176 del 28 gennaio 1988 e 586 dell’11 maggio 1988) che la mancata previsione della possibilità, per la madre, di trasmettere il proprio cognome ai «figli legittimi» non violava l’articolo 29 (matrimonio ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi) né l’articolo 3 (eguaglianza dei cittadini davanti alla legge) della Costituzione. Essa osservò che la Corte costituzionale aveva indicato che spettava al legislatore decidere sull’opportunità di introdurre un sistema diverso di attribuzione del cognome e che almeno sei disegni o proposte di legge erano all’epoca all’esame del Parlamento. Ciò dimostrava a suo avviso che la regola non scritta di attribuzione del cognome era ancora in vigore;
la giurisprudenza del resto non ne aveva messo in dubbio l’esistenza.
14. Per la corte d’appello, la mancata applicazione di tale regola avrebbe comportato delle conseguenze per i figli ai quali fosse stato attribuito il cognome della madre, in quanto avrebbero potuto essere individuati come «figli non legittimi».
15. I ricorrenti presentarono ricorso per cassazione.
16. Con ordinanza del 26 febbraio 2004, depositata in cancelleria il 17 luglio 2004, la Corte di cassazione ritenne che la questione incidentale della legittimità costituzionale della regola che attribuisce ai «figli legittimi» il cognome del padre era rilevante e non manifestamente infondata;
di conseguenza, sospese il procedimento e ordinò la trasmissione del fascicolo alla Corte costituzionale.
Nella motivazione dell’ordinanza, la Corte di cassazione precisò che la regola in questione non era una norma consuetudinaria, ma risultava dall’interpretazione di alcuni articoli del CC.
17. Con sentenza (n. 6) del 16 febbraio 2006, la Corte costituzionale dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale.
Nella motivazione, la Corte costituzionale ritenne che il sistema in vigore di attribuzione del cognome fosse retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale che affondava le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico e non era più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna. Inoltre, la Corte rilevò che l’articolo 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (ratificata con legge 14 marzo 1985, n. 132) impegnava gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti famigliari e, in particolare, ad assicurare gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome.
18.La Corte costituzionale richiamò anche le raccomandazioni nn. 1271 del 1995 e 1362 del 1998 del Consiglio d’Europa, nonché la giurisprudenza della Corte (in questo caso B c. Svizzera, 22 febbraio 1994, serie A n. 280-B;
S c. Finlandia, 25 novembre 1994, serie A n. 299-B;
e Ü T c. Turchia, n. 29865/96, CEDU 2004-X).
19.Tuttavia, la Corte costituzionale ritenne che l’intervento invocato dalla Corte di cassazione richiedesse una operazione che esorbitava dai suoi poteri.
Essa rilevò in effetti che veniva lasciata aperta tutta una serie di opzioni, ossia: 1o) se la scelta del cognome dipendesse esclusivamente dalla volontà dei coniugi;
2o) se ai coniugi fosse consentito derogare alla regola;
3o) se la scelta dei coniugi dovesse avvenire una sola volta con effetto per tutti i loro figli o dovesse essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi. La Corte costituzionale osservò che i disegni di legge (nn. 1739-S, 1454 S e 3133-S) presentati nel corso della XIV legislatura testimoniavano la pluralità delle opzioni prospettabili, la scelta tra le quali non poteva che essere rimessa al legislatore. Ritenne anche che una dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni interne pertinenti avrebbe determinato un vuoto giuridico.
20. Con sentenza del 29 maggio 2006, depositata in cancelleria il 16 luglio 2006, la Corte di cassazione prese atto della decisione della Corte costituzionale e respinse il ricorso dei ricorrenti.
Nella motivazione essa sottolineò che la norma denunciata dai ricorrenti era retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non in sintonia con le fonti sopranazionali, ma che spettava comunque al legislatore ridisegnarla in senso costituzionalmente adeguato.
21. Il 31 marzo 2011 i ricorrenti domandarono al Ministro dell’Interno di essere autorizzati a far completare il cognome dei loro «figli legittimi» aggiungendo il cognome «Cusan». Essi spiegavano che con ciò desideravano permettere ai figli di identificarsi nel patrimonio morale del loro nonno materno – deceduto nel 2011 – che, secondo loro, era stato un filantropo;
poiché il fratello della ricorrente non aveva avuto discendenti, essi precisavano che il cognome «Cusan» poteva perpetuarsi soltanto passando ai figli di Alessandra Cusan.
22. Con decreto del 14 dicembre 2012, il