CASE OF VALLE PIERIMPIÈ SOCIETÀ AGRICOLA S.P.A v. ITALY - [Italian Translation] by the Italian Ministry of Justice

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Sul provvedimento

Citazione :
CASE OF VALLE PIERIMPIÈ SOCIETÀ AGRICOLA S.P.A v. ITALY - [Italian Translation] by the Italian Ministry of Justice
Giurisdizione : Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
Numero : 001-148804
Data del deposito : 23 settembre 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata da Rita Carnevali, assistente linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court’s database HUDOC.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE 

CAUSA VALLE PIERIMPIÈ SOCIETÀ AGRICOLA S.P.A.
c. ITALIA

(Ricorso n. 46154/11)

SENTENZA
(Merito)

STRASBURGO
23 settembre 2014

 Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.a. c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:

Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
András Sajó,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller,
Egidijus Kūris,
Robert Spano, giudici,
e da Abel Campos, cancelliere aggiunto di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 2 settembre 2014,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

  1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 46154/11) proposto contro la Repubblica italiana con il quale una società per azioni di tale Stato, Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.a., («la ricorrente»), ha adito la Corte il 26 luglio 2011 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
  2. La ricorrente è stata rappresentata dall’avv. U. Ruffolo, del foro di Blogna. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.
  3. La ricorrente lamenta in particolare di essere stata privata del suo «bene» (una valle da pesca costiera, detta Valle Pierimpiè) senza ricevere alcun indennizzo.
  4. Il 18 giugno 2013 il ricorso è stato dichiarato parzialmente irricevibile e il motivo di ricorso relativo all’articolo 1 del Protocollo n. 1 è stato comunicato al Governo.

    IN FATTO
     
  5. Con atto notarile di compravendita la ricorrente acquistò anticamente un complesso immobiliare e produttivo detto Valle Pierimpiè, situato nella laguna della provincia di Venezia. Questo complesso faceva parte di quelle che localmente sono chiamate «valli da pesca», espressione che indica dei terreni con corpi idrici delimitati da argini. Da allora, la ricorrente pratica una particolare forma di piscicoltura.
  6. Il 24 giugno 1989, poi nuovamente il 10 giugno 1991 e il 27 aprile 1994, l’intendenza di finanza di Padova intimò alla ricorrente di lasciare i terreni da lei occupati in quanto questi ultimi appartenevano al demanio pubblico.

    A. Il procedimento di primo grado
     
  7. Il 24 giugno 1994 la ricorrente citò i ministeri delle Finanze, dei Trasporti, della Navigazione e dei Lavori pubblici dinanzi al tribunale di Venezia per far dichiarare giudizialmente la sua qualità di proprietaria della Valle Pierimpiè. Nei motivi della sua azione, la ricorrente dichiarava:
    • che da tempo immemorabile questa valle da pesca era stata trasmessa con atto di compravendita tra privati, come attestato dai titoli che risalivano al XV secolo;
    • che nel 1886 era stata messa in vendita dal tribunale civile di Venezia;
    • che era sempre stata una proprietà privata, come risultava dalla legislazione austriaca (il Veneto faceva parte dell’impero austro-ungarico fino al 1866) e dalle iscrizioni nella conservatoria dei registri immobiliari e nel catasto.
  8. Con sentenza del 18 marzo 2004, depositata il 24 maggio 2004, il tribunale dichiarò che la Valle da pesca Valle Pierimpiè apparteneva al demanio dello Stato;
    di conseguenza, il tribunale dichiarò la ricorrente debitrice nei confronti dell’amministrazione di una indennità di occupazione senza titolo di territorio del demanio pubblico per un importo da determinare con separato procedimento civile.
  9. Nei motivi il tribunale osservò innanzitutto:
    • che ai sensi dell’articolo 28 del codice della navigazione (di seguito il «CN»), il demanio pubblico marittimo («DPM») dello Sato era formato, tra l’altro, dalle lagune e dai bacini di acqua che, almeno durante una parte dell’anno, comunicano liberamente con il mare, e dai canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo;
    • che, in particolare, le lagune appartenevano allo Stato indipendentemente dal carattere pubblico o privato del loro uso, come confermato dalle disposizioni speciali riguardanti la laguna di Venezia, in particolare dall’articolo 1 del regio decreto-legge n. 1853 del 1936 e dall’articolo 1 della legge n.366 del 1963;
    • ma che queste leggi non precisavano la natura giuridica delle valli da pesca che erano dei bacini separati dalla laguna.
  10. Il tribunale notò tuttavia che la giurisprudenza aveva chiarito i parametri di valutazione della demanialità delle valli da pesca;
    per appartenere al demanio dello Stato, queste dovevano soddisfare le seguenti condizioni: a) fare fisicamente parte della laguna e dunque del mare, con il quale dovevano comunicare;
    b) essere idonee ad uno degli usi pubblici marittimi.

    In questo quadro, basandosi sul risultato di una perizia disposta nel corso del processo, il tribunale giunse alla conclusione:
    • che la valle da pesca Valle Pierimpiè non faceva parte della laguna di Venezia e quasi non comunicava con l’esterno;
    • ma che la valle comunicava con il mare all’epoca dell’entrata in vigore del CN (1942).

Ora, notò il tribunale, l’appartenenza al demanio dello Stato non poteva cessare tacitamente: era indispensabile un atto formale dell’amministrazione.
Rimaneva dunque da stabilire se, per la sua morfologia, la valle in questione fosse idonea agli usi pubblici del mare, ossia alla navigazione, alla pesca e alla balneazione.
Su questo punto, il tribunale riconobbe che la navigazione e la balneazione erano de facto impossibili o difficili;
ma osservò che invece la pesca di allevamento era correntemente esercitata nella valle. A suo parere, ciò era sufficiente per affermare che la
Valle Pierimpiè faceva parte del DPM.

B. L’appello
 

  1. La ricorrente interpose appello avverso questa sentenza.
  2. Con sentenza del 3 aprile 2008, depositata il 10 giugno 2008, la corte d’appello di Venezia confermò la decisione di primo grado.
  3. Nella motivazione, la corte d’appello osservò che, secondo il regolamento di polizia lagunare del 1841, la laguna di Venezia era considerata appartenere al demanio dello Stato, ivi comprese le valli da pesca. Pertanto, queste ultime non potevano essere oggetto di proprietà privata e non potevano essere utilizzate se non in virtù di un’autorizzazione amministrativa.
    In queste condizioni, concluse la corte, i trasferimenti di proprietà che la ricorrente si sforzava di provare dovevano essere considerati nulli e non realizzati in quanto essi avevano ad oggetto dei beni fuori commercio che non potevano essere acquisiti per usucapione: come aveva precisato la Corte di cassazione nella sua giurisprudenza (terza sezione, sentenza dell’8 marzo 1976), ogni iscrizione di trasferimento di proprietà nei registri immobiliari e in catasto doveva capitolare di fronte all’appartenenza del bene al DPM.
    La corte d’appello precisò che il fatto che prima del 1989 l’amministrazione non fosse mai intervenuta per rivendicare la Valle Pierimpiè e non si fosse opposta alle attività che vi venivano praticate, non cambiava nulla a tale stato di cose.
  4. Peraltro, giudicò la corte, le valli da pesca rispondevano ai criteri stabiliti dall’articolo 28 del CN. Si trattava in effetti di bacini d’acqua che, per almeno un periodo dell’anno, comunicavano liberamente con il mare, anche se ciò era possibile soltanto grazie alla messa in opera di meccanismi idraulici installati da alcuni privati. La chiusura della valle effettuata dopo la seconda guerra mondiale non aveva creato, secondo la corte, una effettiva e definitiva separazione rispetto al resto della laguna di Venezia.
  5. La corte d’appello sottolineò anche che le valli erano utilizzate per la pesca e che la navigazione era completamente esclusa (poteva essere praticata da barche di piccolo cabotaggio).
    Infine, considerò la corte, lo scopo della legislazione riguardante la laguna di Venezia era di preservarla e di proteggerne l’equilibrio ambientale precario. Il raggiungimento di tale scopo non permetteva, giudicò essa, di sottrarre alcuni spazi acquei lagunari all’interesse pubblico.
  6. Tuttavia, la corte d’appello precisò che facevano parte del DPM soltanto le parti della valle coperte dalle acque, e non le terre e le costruzioni che erano costruite su di essa.
    Per il resto, indicò la corte, l’intendenza di finanza aveva giustamente intimato alla ricorrente di lasciare la valle da pesca, in quanto l’inerzia precedente dell’amministrazione non incideva sulla legalità della sua azione.
    Per quanto riguarda l’importo dell’indennità di occupazione di cui la ricorrente era debitrice, la corte d’appello considerò che quest’ultimo poteva essere fissato soltanto nell’ambito di una procedura civile separata.

    C. Il ricorso per cassazione 
     
  7. La ricorrente propose ricorso per cassazione. La causa fu assegnata alle sezioni unite della Corte di cassazione.
  8. Con sentenza del 24 novembre 2010, depositata il 18 febbraio 2011, la Corte di cassazione respinse il ricorso, ritenendo che la corte d’appello avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi.
  9. Nei suoi motivi, la Corte di cassazione rammentò:
    • che ai sensi degli articoli 822 e 824 del codice civile («CC»), i beni del demanio pubblico dovevano necessariamente appartenere allo Stato, alle regioni, alle province e ai comuni;
    • che alcuni di questi beni erano tali soltanto per le loro intrinseche qualità (così detto demanio «necessario»: ossia il demanio marittimo, idrico e militare), o per il fatto di appartenere ad enti territoriali (così detto demanio «eventuale», che riguarda ad esempio le strade e gli immobili di interesse storico e artistico);
    • che l’articolo 823 CC prevedeva che i beni del demanio pubblico fossero inalienabili e non potessero formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano;
      il che vuol dire che essi non potevano essere oggetto di acquisizione per usucapione.
  10. La Corte di cassazione notò che ai sensi dell’articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione e che lo Stato aveva competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
    Pertanto, giudicò la Corte, emergeva l’esigenza di interpretare la nozione di «beni pubblici», al di là di una visione puramente patrimoniale, ponendosi piuttosto in una prospettiva personale-collettivistica e avendo riguardo alla funzione di tali beni;
    dal momento che per le sue caratteristiche ambientali un bene era destinato alla realizzazione degli scopi costituzionali dello Stato, questo bene, prescindendo dal titolo proprietà, doveva essere considerato «comune» - vale a dire strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini.

    La Corte di cassazione notò anche che, certamente, la regola della non commerciabilità dei beni dello Stato non era assoluta e incontrava sempre più eccezioni.
  11. Ma nel caso di specie, considerò, le valli da pesca presentavano una funzionalità e una finalità pubblica-collettivistica;
    la loro appartenenza allo Stato implicava l’obbligo, per quest’ultimo, di destinarle in maniera effettiva ad un uso pubblico per realizzare i valori iscritti nella Costituzione.

    Richiamandosi alla propria giurisprudenza, la Corte di cassazione notò che con le sentenze nn. 1863 del 1984 e 1300 del 1999, essa aveva affermato che la condizione della «comunicazione libera con il mare», richiesta dall’articolo 28 del CN per stabilire se un bene facesse parte del demanio dello Stato, non doveva essere interpretata in maniera fisica e morfologica, ma in rapporto alla funzione del bene in questione. In particolare, era determinante stabilire se il bacino d’acqua potesse prestarsi agli «usi del mare».
    Citando anche la sentenza n. 1228 del 1990, la Corte di cassazione rammentò che l’inclusione di un bene nel demanio naturale dello Stato discende unicamente dalle sue caratteristiche intrinseche, come descritte dalla legge, senza che sia necessario l’intervento di un atto amministrativo ad hoc.
    Gli atti privatistici di trasferimento di questi beni erano nulli e non realizzati, ed eventuali comportamenti concludenti posti in essere dalla pubblica amministrazione che potevano essere interpretati come un riconoscimento di una proprietà privata su detti beni, indicò la Corte, erano contrari alla legge e dunque privi di importanza.
    Infine notò che la legge n. 366 del 1963 aveva previsto la tutela della laguna di Venezia e il collegamento funzionale tra valli e laguna veneta in relazione alla pesca.

    IN DIRITTO

    I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’
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