TAR Torino, sez. I, sentenza 2023-02-10, n. 202300151

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Torino, sez. I, sentenza 2023-02-10, n. 202300151
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Torino
Numero : 202300151
Data del deposito : 10 febbraio 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 10/02/2023

N. 00151/2023 REG.PROV.COLL.

N. 00746/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 746 del 2020, proposto da
-Ricorrente-, rappresentato e difeso dall'avvocato D D, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Torino, via Cavalli 42;

contro

Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Capo della Polizia Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, non costituito in giudizio;
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro-tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale Torino, domiciliataria ex lege in Torino, via dell'Arsenale, 21;

per l'annullamento

del provvedimento Ministero dell'Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Capo della Polizia Direttore generale della Pubblica Sicurezza -del OMISSIS-, notificato in data 11 settembre 2020, avente per oggetto la sanzione disciplinare consistente nella sospensione dal servizio per la durata di mesi tre per la violazione dell'art. 6, n. 1 in relazione all'art. 4 n. 18 del DPR 25 ottobre 1981 n. 73 , nonché di tutti gli atti presupposti, preparatori, connessi e consequenziali;


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2023 la dott.ssa Paola Malanetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

Con ricorso depositato in data 20 ottobre 2020, corredato da istanza sospensiva, il Vice Commissario del ruolo direttivo della Polizia di Stato sig. -Ricorrente- ha impugnato il provvedimento del Ministero dell’Interno - Dipartimento generale della Pubblica Sicurezza del -OMISSIS-, notificato in data 11 settembre 2020, avente per oggetto la sanzione disciplinare consistente nella sospensione del servizio per la durata di mesi tre per violazione della fattispecie prevista dell’art. 6, n. 1, in relazione all’art. 4, n. 18, del d.P.R. n. 737/1981.

La vicenda processuale tra origine dai fatti accaduti in data 13 marzo 2019, per i quali il ricorrente è stato indagato per il reato di tentato furto;
il procedimento è stato archiviato in data 20 maggio 2019 per mancanza della condizione di procedibilità.

Dall’esame dei fatti è emerso che il funzionario, recatosi in un negozio all’interno di un centro commerciale, aveva posto in essere atti idonei diretti in modo non inequivoco ad impossessarsi di due camicie dal valore di euro 20,00 cadauna, cui rimuoveva il prezzo ed il cartellino con il codice a barre (c.d. dramina) e di un giubbotto del valore di euro 49,99, accortosi di essere stato visto dall’addetto alla vigilanza, lasciava in camerino le camice e si rendeva disponibile a pagare il prezzo del giubbotto e si qualificava come agente di Polizia.

La locale Squadra Mobile veniva informata dell’accaduto da una relazione di servizio redatta da un dipendente della sezione di p.g. presso il Tribunale di Torino, al quale l’addetto alla vigilanza aveva riferito l’episodio, poiché convinto che il soggetto che si era reso responsabile del tentato furto fosse un “truffatore” che si era finto un funzionario di Polizia.

Senonché veniva accertato che l’episodio era effettivamente avvenuto e che il responsabile era realmente un funzionario della Polizia, individuato per-ricorrente-.

Ne derivava un procedimento penale a carico dello stesso per le ipotesi di reato di cui agli artt. 56, 624, 625 n. 2 c.p.. Tuttavia, nel formulare la richiesta di archiviazione, il P.M., in via preliminare, derubricava la contestazione originaria in quella di furto semplice, ritenendo non sussistente l’aggravante della violenza sulle cose;
allo stesso tempo, rilavando la mancanza della condizione di procedibilità, non avendo la parte offesa formalizzato alcuna querela nei confronti dell’indagato, formulava richiesta di archiviazione che veniva accolta dal G.I.P. in data 20 maggio 2019.

Con nota del 9 luglio 2019, il Questore di Torino, ravvisando nella condotta tenuta dal ricorrente profili disciplinarmente rilevanti punibili con una sanzione superiore al richiamo scritto, anche in considerazione di un procedente disciplinare già riportato per fatti analoghi, trasmetteva gli atti del procedimento penale al Capo di Polizia per le superiori valutazioni.

Di conseguenza, valutata la gravità del comportamento posto in essere e il contrasto con i doveri di condotta stabiliti dal regolamento di servizio, il Capo della Polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza, con provvedimento in data 16 agosto 2019, riteneva di avviare nei confronti del predetto un procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. n. 737/1981, nominando a tal fine un funzionario istruttore.

Con foglio di addebiti del 20 agosto 2019, notificato il giorno successivo all’interessato, il funzionario istruttore contestava al ricorrente le violazioni previste dall’art. 7, comma 2, nn. 1 e 2 e 6 del d.P.R. n. 737/1981, atteso che la condotta doveva ritenersi “ in netto contrasto con il sentimento e l’agire che dovrebbero sorreggere ed indirizzare ogni poliziotto che abbia cura della propria integrità e probità e, in definitiva, del proprio onore, che impone di comportarsi con onestà e in coerenza con i doveri assunti con il giuramento e propri dell’Amministrazione di cui fa parte ”;
quale ulteriore elemento di gravità la mancanza faceva seguito a una precedente sanzione disciplinare del richiamo scritto per una analoga condotta.

In seguito a richiesta di proroga dei termini a difesa ed accesso agli atti, in data 6 settembre 2019, il ricorrente depositava memorie difensive evidenziando l’inattendibilità di quanto riferito dai testimoni (addetto alla vigilanza e direttore del negozio), sostenendo che essi avrebbero voluto addebitargli un comportamento nella realtà non posto in essere.

In particolare, il ricorrente riteneva che la vicenda fosse frutto di un malinteso chiarito nell’immediato e precisava di essersi altresì reso disponibile a chiamare una pattuglia dei Carabinieri per spiegare la situazione. Adduceva che il travisamento sarebbe nato dal fatto di essere stato fermato prima delle barriere antitaccheggio che sarebbero dunque state azionate dall’addetto al controllo ed esponeva, inoltre, le sue perplessità circa l’operato del collega autore della relazione di servizio che presenterebbe “ evidenti profili di falsità ” derivanti dal fatto di aver dichiarato di aver ricevuto l’informazione da una fonte confidenziale, laddove, invece, si trattava dell’addetto alla vigilanza, suo conoscente. Contestava, infine, la procedura che avrebbe portato alla sua individuazione da parte del medesimo collega, ritenendola al di fuori di ogni regola procedurale e priva della necessaria verbalizzazione. Al fine di fare chiarezza sulla situazione, il sig. -Ricorrente- chiedeva l’escussione dell’assistente capo (autore della relazione di servizio), dell’addetto alla vigilanza, nonché del commissario capo (autore dell’annotazione trasmessa in Procura corredata dai relativi atti di indagine).

Al termine degli accertamenti, il funzionario istruttore presentava, in data 26 settembre 2019, relazione istruttoria al Capo della Polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza che, ritenendo consistenti gli addebiti contestati, con lettera del 20 dicembre 2019 deferiva il predetto funzionario al giudizio del Consiglio Centrale di Disciplina.

La riunione del Consiglio Centrale di Disciplina, deferita inizialmente dall’11 marzo 2020 a data da destinarsi, si teneva in data 4 giugno 2020. Dipoi, l’organo collegiale veniva convocato, in seconda riunione, in data 17 giugno 2020 per la trattazione orale e la deliberazione relative al procedimento disciplinare attivato nei confronti del ricorrente.

Il Consiglio Centrale di Disciplina riteneva sussistente la responsabilità disciplinare del funzionario sig. -Ricorrente-, in quanto da un attento esame degli atti del procedimento disciplinare erano emerse numerose incongruenze in merito a quanto dichiarato dal -ricorrente- e, soprattutto, era risaltato in modo evidente il contegno tenuto nella circostanza dal ricorrente, ritenuto non consono ad un appartenente alla Polizia di Stato e, a maggior ragione, ad un funzionario. Tuttavia, pur non sussistendo dubbi circa il comportamento scorretto posto in essere dal funzionario, il Consiglio riteneva, anche in considerazione dell’ottimo percorso professionale del funzionario e dei relativi riconoscimenti, decideva di derubricare l’ipotesi originariamente contestata (destituzione dal servizio) in una fattispecie di minore gravità, e proponeva all’unanimità la sospensione dal servizio nella durata di mesi tre per violazione di quei doveri comportamentali generali e particolari richiamati nel regolamento di servizio (artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 782/85) con applicazione dell’art. 6, n. 1, in relazione all’art. 4, n. 18, del d.P.R. n. 737/1981.

Veniva quindi adottato il provvedimento impugnato.

Tanto premesso in fatto, a sostegno del ricorso, il ricorrente ha formulato le seguenti censure:

1. “violazione di legge o comunque erronea e falsa interpretazione degli artt. 6, n. 1, in relazione all’art. 4, n. 18 del DPR n. 737 del 1982, nonché eccesso di potere in ordine alla sospensione d’ufficio dal servizio del Sig. -Ricorrente-.

Violazione di legge dell’art. 9 del DPR 25.10.1981 n. 737”;

2. “violazione di legge o comunque erronea e falsa interpretazione dell’art. 103 del DPR 10 gennaio 1957 n. 3 in uno con l’art. 31 del 25.10.1981 n. 737”

3. “violazione di legge o comunque erronea e falsa interpretazione degli artt. 6, n. 1, in relazione all’art. 4, n. 18, del DPR n. 737 del 1982”.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno, chiedendo rigettarsi il ricorso perché infondato.

In particolare, l’Amministrazione ha osservato che il procedimento disciplinare a carico del ricorrente è stato avviato a seguito di decreto di archiviazione ex art. 409 c.p.p. il quale, in quanto non assimilabile ad una sentenza, non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 9 d.P.R. n. 737/1981;
in assenza, pertanto, di un termine specificatamente previsto per l’inizio del procedimento disciplinare la normativa applicabile è l’art. 103 del d.P.R. n. 3/1957, ai sensi del quale il procedimento disciplinare deve essere avviato “subito” e che, nel caso in esame, deve ritenersi rispettato. Considera, altresì, erronea l’eccepita violazione del termine complessivo di 270 giorni di durata del procedimento disciplinare previsto della l. n. 97/2001, in quanto applicabile alle ipotesi in cui a seguito di sentenza irrevocabile di condanna l’estinzione del rapporto d’impiego del pubblico dipendente sia disposta all’esito del procedimento disciplinare. Quanto al presunto vizio di difetto di istruttoria, l’Amministrazione ritiene che la ricostruzione dei fatti sia avvenuta in modo accurato e completo, vagliando le giustificazioni del ricorrente ed acquisendo le sue memorie difensive anche in sede di trattazione orale.

Nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2020 questo T.A.R., con ordinanza n. 531/2020, ha respinto l’istanza cautelare.

All’udienza pubblica del 25 gennaio 2022 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

Il ricorso, per le ragioni che seguono, è infondato e deve essere respinto.

Il primo motivo di gravame, con il quale si deduce la tardività del procedimento disciplinare, in quanto avviato oltre i 120 giorni asseritamente previsti dall’art. 9 del d.P.R. n. 737/1981, nonché, ai sensi dell’art. 5, comma 4, della l. n. 97/2001, per il superamento del termine complessivo di 270 giorni fissato per la durata dell’intero procedimento disciplinare, non merita favorevole apprezzamento.

Neppure coglie nel segno il secondo motivo di gravame, con il quale si eccepisce l’illegittimità del provvedimento impugnato per violazione dell’art. 103 del d.P.R. n. 3/1957, che impone l’immediata contestazione degli addebiti.

Le suddette censure, in quanto logicamente collegate, possono essere trattate congiuntamente.

In primo luogo, si rileva che la questione oggi sottoposta all’esame del Collegio, concernente l’applicazione nel caso di procedimento penale concluso con provvedimento di archiviazione, dell’art. 9, comma 6, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, è stata oggetto di parere del Consiglio di Stato, n. 1972 del 24 aprile 2012, dal quale questo Collegio non ritiene di doversi discostare.

L’art. 9, comma 6, d.P.R. n. 737/1981 prevede l’esercizio dell’azione disciplinare all’esito di un procedimento disciplinare “comunque definito” entro il termine di giorni 120 dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione.

Sulla scorta del citato parere del Consiglio di Stato, non può condividersi la tesi del ricorrente che professa una completa assimilazione tra decreto di archiviazione e sentenza, in quanto il decreto di archiviazione è emesso al termine di un procedimento preordinato all’esercizio dell’azione penale, quando nessuna imputazione è stata formulata non essendo state reperite fonti di prova.

Più precisamente, collocandosi nel solco della giurisprudenza amministrativa, il Consiglio di Stato ha osservato che “il decreto di archiviazione, a differenza della sentenza di assoluzione, non è idoneo a determinare quella conoscenza qualificata dei fatti, alla luce delle motivazioni del provvedimento giurisdizionale, che giustifica il decorso del termine decadenziale per l’esercizio dell’azione disciplinare (Cons. Stato sez. II 17 giugno 2022 n. 4974). Per un verso, infatti, il decreto di archiviazione non può assumere valenza di cosa giudicata e non contiene accertamenti processualmente certi che siano opponibili all’interessato nel procedimento disciplinare (653 c.p.p.), e, per altro verso, sentenza e decreto di archiviazione sono provvedimenti relativi a fasi di diversa natura del procedimento penale, tenuto conto che il rilievo del procedimento penale sul procedimento disciplinare, ai fini di una eventuale sospensione, sorge solo con l’esercizio dell'azione penale e che l’A.G. non ha l'obbligo di comunicare (neanche all'interessato) l'emissione del decreto di archiviazione (Cons. Stato, sez. III 29 gennaio 2015 n. 394 e 30 dicembre 2021 n. 8732, sez. I parere del 30 settembre 2010 n. 4407)” (Consiglio di Stato, sez. II, 7 dicembre 2022, n. 10743).

Conseguentemente, per ragioni sostanziali, prima ancora che in senso nominalistico, il decreto di archiviazione non è assimilabile ad una sentenza del giudice.

Pertanto, nell’interpretazione del sesto comma dell’art. 9 del d.P.R. n. 737/1981 non si può estendere la portata dell’espressione “sentenza” fino a comprendere in essa il decreto di archiviazione, che della sentenza non ha alcuno dei caratteri ed effetti sostanziali, sia pure ai limitati fini di stabilire il termine per iniziare l’azione disciplinare.

In siffatte ipotesi, il procedimento disciplinare deve, quindi, essere avviato a ridosso dell’acquisizione della notizia configurabile come illecito disciplinare, ai sensi dell'art. 103 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che trova applicazione anche nel caso di esercizio della potestà disciplinare a seguito del decreto di archiviazione del giudice delle indagini preliminari (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 7 dicembre 2022, n. 10743;
Consiglio di Stato sez. IV 17 dicembre 2018 n. 7093) e che prevede che la contestazione degli addebiti avvenga “subito”, intendendo con tale termine il legislatore riferirsi, come precisato dalla giurisprudenza amministrativa richiamata dal citato parere, “ non ad un termine prestabilito e vincolante, ma ad un termine ragionevole e non dilatorio, da valutare secondo il caso concreto, entro il quale il procedimento disciplinare deve essere iniziato dall'Amministrazione, tenendo conto degli accertamenti preliminari e delle verifiche che il fatto rilevante disciplinarmente comporta “(Consiglio Stato , sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8284). Ed in effetti, proprio l’intrinseca mancanza di accertamenti desumibili dal decreto di archiviazione, comporta per l’amministrazione una esigenza di autonomamente verificare i fatti.

Nell’ipotesi dell’archiviazione, quindi, pur non essendo possibile applicare ai fini dell’avvio dell’azione disciplinare un termine di decadenza perentorio come quello previsto nel caso della sentenza, deve farsi riferimento ad una regola generale di ragionevole prontezza e tempestività da valutarsi caso per caso in relazione alla gravità dei fatti e alla complessità degli accertamenti preliminari, nonché allo svolgimento effettivo dell' iter procedimentale.

Nel caso in esame, il decreto di archiviazione del procedimento penale è datato 20 maggio 2019 e in data 9 luglio 2019 il Questore di Torino ha trasmesso gli atti del procedimento penale al Capo di Polizia per le superiori valutazioni, mentre in data 21 agosto 2019 è stato notificato al ricorrente l’atto di contestazione degli addebiti, con un decorso, dunque, di meno di 45 giorni tra la trasmissione del decreto di archiviazione al Capo della Polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza e la formulazione della contestazione.

Sicché l’azione disciplinare è tempestiva rispetto alla conoscenza della conclusione del procedimento penale.

Neppure convince, nella prospettazione del ricorrente, l’individuazione del dies a quo da cui decorrerebbe l’esercizio della potestà disciplinare che il ricorrente individua nel 2 aprile 2019, data della trasmissione della nota della Squadra Mobile al Questore di Torino, sostenendo illogico che gli accertamenti istruttori siano stati avviati solo dopo aver avuto conoscenza del decreto di archiviazione, deducendo pertanto un’illogica procrastinazione degli accertamenti istruttori.

Invero, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l’Amministrazione non ha altresì alcun obbligo di esercitare la potestà disciplinare non appena venuta a conoscenza del procedimento penale, ben potendo decidere, per ragioni di opportunità e per evitare di giungere a giudizi contrastanti, di attendere la conclusione del procedimento penale (cfr. T.A.R. Campania, sez. VI – Napoli, 15 marzo 2021, n. 1683). D’altro canto l’avvio del procedimento disciplinare presuppone l’acquisizione di una sufficiente contezza dei fatti da giustificare un addebito.

Così stando le cose, nella fattispecie in esame la contestazione degli addebiti avvenuta appare pronta e tempestiva.

Né può affermarsi il superamento del termine complessivo di 270 giorni di durata del procedimento disciplinare previsto dall’art. 5, comma 4, della l. n. 97/2001, in quanto, come rilevato dalla attenta difesa dell’Amministrazione, non può trovare applicazione la citata disposizione alla fattispecie oggetto di controversia, trovando essa ostacolo nella attinenza della norma alle sole sentenze penali irrevocabili di condanna, cui consegua la pronuncia dell’estinzione del rapporto di impiego del pubblico dipendente a seguito del procedimento disciplinare.

Infine, e per quanto non esplicitamente dedotto in ricorso, come osservato dall’amministrazione, visti i termini infraprocedimentali, neppure può prospettarsi il presunto avvenuto decorso del termine di novanta giorni senza il compimento di alcun atto del procedimento, con potenziale perenzione ai sensi dell’art. 120 del d.P.R. n. 3/1957.

Dalla documentazione in atti emerge infatti che, in seguito alla contestazione degli addebiti avvenuta in data 20 agosto 2019, l’Amministrazione aveva assegnato al ricorrente termine per la presentazione delle giustificazioni di 10 giorni dalla notifica dell’atto, prorogato su richiesta del ricorrente medesimo, il quale solo in data 6 settembre 2019 ha depositato le proprie memorie difensive. Dipoi, in data 26 settembre 2019 il funzionario ha rilasciato la propria relazione istruttoria al Capo della Polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza, il quale in data 20 dicembre 2019 ha trasferito gli atti del procedimento disciplinare per il proseguimento del relativo iter al Consiglio Centrale di Disciplina. Con riferimento al successivo periodo, sino alla prima riunione del Consiglio Centrale di Disciplina, deve rilevarsi l’avvenuta sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi, ivi compresi quelli disciplinari, disposta in via eccezionale in conseguenza della emergenza epidemiologica da COVID-19. Infatti, l’art. 103 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 convertito con legge 24 aprile 2020 n. 27, ha disposto la sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi dal 23 febbraio 2020 fino al 15 aprile 2020, mentre l’art. 37 del decreto legge dell’8 aprile 2020, n. 23 convertito con legge 5 giugno 2020, n. 40 ha prorogato al 15 maggio 2020 il succitato termine del 15 aprile 2020. In ogni caso, il Consiglio Centrale di Disciplina ha dapprima convocato in data 4 marzo 2020 e poi differito in data 6 marzo 2020 la convocazione della prima riunione che si è poi effettivamente svolta in data 4 giugno 2020. La seconda riunione si è invece tenuta in data 17 giugno 2020. Il provvedimento impugnato è stato poi emesso in data -OMISSIS- e notificato in data 11 settembre 2020.

Conseguentemente anche l’estinzione del procedimento disciplinare prevista al verificarsi della circostanza indicata dall’art. 120 del d.P.R. n. 3/1957 deve essere esclusa.

I primi due motivi di gravame non possono pertanto trovare la condivisione del Collegio.

Anche il terzo motivo, con il quale il ricorrente deduce un vizio di istruttoria, in quanto il funzionario istruttore non ha escusso né l’assistente di Polizia autore della relazione di servizio all’origine del procedimento penale, né il commissario capo responsabile delle indagini della Squadra Mobile, non può essere condiviso.

Va, in primo luogo, precisato che nella fattispecie in esame il funzionario istruttore nella relazione emessa in data 26 settembre 2019 ha legittimamente disatteso le richieste istruttorie relative all’escussione dell’assistente di Polizia autore della relazione di servizio e del commissario capo responsabile delle indagini della Squadra Mobile, specificando che le stesse, per i temi proposti, non avrebbero potuto apportare alcun elemento in ordine alla definizione dei fatti oggetto del procedimento disciplinare.

In particolare, il ricorrente riteneva opportuno in sede disciplinare sollevare il dubbio su come si sarebbe potuto concludere eventualmente l’iter penale se lo stesso P.M. fosse venuto a conoscenza di una genesi accusatoria a suo dire dubbia.

A tal fine, il -ricorrente- aveva infatti chiesto l’escussione dell’assistente di Polizia autore della relazione di servizio supponendo che detta dichiarazione avrebbe potuto chiarire i rapporti interpersonali che incorrevano con l’addetto all’accoglienza, il perché avesse relazionato in modo asseritamente falso su come sia venuto a conoscenza del fatto e altresì le ragioni per cui non avesse redatto alcun verbale a seguito di una ricognizione fotografica, nonché spiegare il motivo per cui non avesse provveduto a richiedere il congelamento delle immagini del sistema di sorveglianza.

Le doglianze relative alle “condotte” da essi tenute sono tuttavia inerenti al procedimento penale e in quella sede avrebbero dovuto essere sollevate;
esse nulla tolgono e nulla aggiungono alla obiettiva dinamica dei fatti, mai contesta. Il ricorrente ha effettivamente asportato da capi di abbigliamento placche antitaccheggio, come effettivamente è stato rinvenuto in possesso di un indumento occultato addosso in modo del tutto anomalo per una persona che si limita a fare compere in un centro commerciale.

A tale, pacifica e mai contestata condotta, nulla toglie nulla aggiunge se l’addetto alla sicurezza avesse una conoscenza personale del funzionario di polizia cui ha fatto la segnalazione come nulla potevano aggiungere riprese di telecamera in un contesto in cui i fatti, oggettivi, sopra riportati non sono contesta.

Né paga ai fini della difesa di una condotta oggettivamente biasimevole o incide sulla responsabilità disciplinare del ricorrente paventare presunte altrui irregolarità.

È dunque evidente che la mancata escussione dei testi indicati dal ricorrente trovi giustificazione nella circostanza che le integrazioni richieste erano finalizzate ad una diversa lettura e valutazione di fatti al più rilevanti in sede penale e inconferenti nel procedimento disciplinare.

Non può, pertanto, legittimamente sostenersi ora che sarebbe stato necessario l’espletamento di ulteriore attività istruttoria in ordine agli addebiti mossi, peraltro su circostanze “ipotetiche” supposte dal ricorrente.

In ogni caso, l’Amministrazione non si è limitata a prendere atto dell’esistenza del procedimento penale, ma ha svolto una propria autonoma istruttoria. le cui risultanze sono state puntualmente indicate nella relazione istruttoria e nel provvedimento gravato. Né il fatto che l’istruttoria non sia stata condotta secondo i desiderata del ricorrente ne inficia ex se la bontà.

Risulta, in particolare, che l'Amministrazione, oltre ad aver effettuato il confronto richiesto dal ricorrente tra quest’ultimo e l’addetto all’accoglienza clienti, ha assunto informazioni nei confronti del direttore e, limitatamente all’aspetto del riconoscimento del ricorrente medesimo, dell’addetto all’accoglienza, che hanno confermato la versione esposta nell’ambito del procedimento penale. Nel corso dell’attività istruttoria sono stati altresì acquisiti e vagliati tutti gli atti del procedimento penale e la relativa documentazione, sia presso la locale Squadra Mobile che presso il Tribunale di Torino, con particolare riferimento alla documentazione contenente elementi investigativi o di prova, compresi i verbali di sommarie informazioni rese dall’addetto all’accoglienza e dal direttore, nonché le relazioni rese dall’assistente capo coordinatore e dal commissario capo.

Il Consiglio Centrale di Disciplina, avendo dunque già preso in considerazione le relazioni dell’assistente capo coordinatore e del commissario capo, non ha ritenuto necessaria la loro escussione come testimoni e ha inoltre valutato le memorie difensive del ricorrente effettuando, quindi, un confronto tra le contrapposte versioni dei fatti oggetto di contestazione.

Il provvedimento impugnato motiva infatti adeguatamente in ordine agli elementi di prova che hanno consentito di riconoscere la responsabilità disciplinare dell'appellante, le cui tesi non solo sono riportate nel provvedimento disciplinare, ma risultano esposte chiaramente nelle memorie depositate nel corso del procedimento, che l'Amministrazione mostra di aver esaminato e validamente confutato.

In definitiva, l’Amministrazione ha analiticamente analizzato il caso e gli atti del procedimento disciplinare e ha rilevato numerose incongruenze in merito a quanto dichiarato dal ricorrente e, soprattutto, un contegno tenuto nella circostanza dal medesimo assolutamente non consono ad un funzionario della Polizia di Stato.

Alla luce di ciò anche il terzo motivo appare privo di pregio e deve essere disatteso.

Stante l’infondatezza delle suesposte censure, il ricorso deve pertanto essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

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