TAR Potenza, sez. I, sentenza 2020-03-24, n. 202000213

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Potenza, sez. I, sentenza 2020-03-24, n. 202000213
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Potenza
Numero : 202000213
Data del deposito : 24 marzo 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/03/2020

N. 00213/2020 REG.PROV.COLL.

N. 00347/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 347 del 2019, proposto da
- N G C, I E P, rappresentati e difesi dall'avv. L D M, con domicilio digitale come da casella p.e.c. risultante dai registri di giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Potenza, via n. Sauro 102;

contro

- Comune di Pietragalla, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'avv. A P, con domicilio digitale come da casella p.e.c. risultante dai registri di giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Potenza, alla via E. Ciccotti n. 36/C;

nei confronti

- Donato Sabia, Vito Coviello, Salvatore Bevilacqua non costituiti in giudizio;

per l'annullamento,

previa sospensione dell’efficacia,

- della deliberazione del Consiglio comunale n. 17 del 13 giugno 2019;

- dell'atto sindacale n. 6 del 7 luglio 2019;

- dell'atto sindacale n. 7 del 7 giugno 2019;

- dell'atto sindacale n. 9 del 7 giugno 2019;

- della nota n. prot. 6703 del 2 luglio 2019, e della nota di riscontro indirizzata alla consigliere regionale di parità effettiva e dei relativi allegati, per quanto di interesse;

- di ogni ulteriore atto anteriore e conseguenziale, comunque connesso e finalizzato all'adozione dei provvedimenti impugnati.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Pietragalla;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, alla pubblica udienza del giorno 12 febbraio 2020, il Primo Referendario avv. Benedetto Nappi;

Uditi per le parti i difensori presenti, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. N G C e I E P, nella rispettiva qualità di cittadina elettrice e di “consigliere regionale di parità effettiva”, con atto depositato il 17 luglio 2019, sono insorte avverso gli atti sindacali di nomina dell’assessore con delega alle Attività Produttive e all'Ambiente nonché quale Vicesindaco, dell’assessore con delega al Personale e ai Tributi, e di quello con delega al Bilancio e alla programmazione finanziaria, alla Tutela animali e randagismo, e alle Politiche giovanili, nonché avverso l’atto mediante cui il Sindaco ha comunicato le cennate nomine al Consiglio comunale, deducendo in diritto, da più angolazioni, la violazione di legge e l’eccesso di potere.

2. L’Ente civico intimato, costituitosi in giudizio, ha concluso per l’inammissibilità in rito e il rigetto nel merito del ricorso.

3. All’esito della camera di consiglio svoltasi il 18 settembre 2019, il Collegio, con ordinanza n. 149 del 2019 ha fissato la data di trattazione dell’affare nel merito.

4. Alla pubblica udienza del 12 febbraio 2020 il giudizio è transitato in decisione.

DIRITTO

1. In limine litis , il Collegio procede alla delibazione dell’eccezione di difetto di legittimazione sollevata dal Comune resistente.

1.1. L’eccezione coglie nel segno con riguardo al “consigliere regionale di parità effettiva”.

In forza dei principi generali in materia di condizioni dell’azione, ritraibili dall’art. 24, I comma, Cost., secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, e dall’art. 100 cod. proc. civ., cui fa rinvio l’art. 39 cod. proc. amm., l’interesse processuale presuppone, nella prospettazione della parte istante, una lesione concreta ed attuale dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio e l’idoneità del provvedimento richiesto al giudice a tutelare e soddisfare il medesimo interesse sostanziale.

In mancanza dell’uno o dell’altro requisito, l’azione è inammissibile.

In altri termini, l’interesse ad agire è dato dal rapporto tra la situazione antigiuridica che viene denunciata e il provvedimento che si domanda per porvi rimedio mediante l’applicazione del diritto, e questo rapporto deve consistere nella utilità del provvedimento, come mezzo per acquisire all’interesse leso la protezione accordata dal diritto (Cass. civ., sez. III, n. 12241/98).

In particolare, nel processo amministrativo l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che qualificano l’interesse ad agire di cui all’art. 100 cod. proc. civ., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato.

Inoltre, in materia di legittimazione ad agire la regola fondamentale è quella sancita dall'art. 81 cod. proc. civ., secondo cui fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui.

In sintesi, per agire in giudizio bisogna essere portatori di un interesse personale proprio, salvi i casi in cui la legge espressamente preveda la legittimazione a difendere interessi altrui o collettivi o generali (Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2009, n. 4134).

E’ di palmare evidenza che nel caso di specie difettino in capo al consigliere regionale sia la legitimatio ad causam , non sussistendo la titolarità del rapporto controverso dal lato attivo, sia la legittimazione a ricorrere dal punto di vista della sussistenza di un interesse proprio.

1.1.1. Nell’evidente consapevolezza di quanto innanzi, il procuratore di parte ricorrente, per tale versante, ha sostenuto che la legittimazione ad agire sarebbe espressamente riconosciuta dall’ordinamento attraverso il codice delle pari opportunità.

La tesi non coglie nel segno.

L’art. 36 (rubricato “legittimazione processuale”) del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, recante il “codice delle pari opportunità tra uomo e donna” così recita:

«1. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni poste in essere in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo, o di qualunque discriminazione nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile o, rispettivamente, dell'articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite la consigliera o il consigliere di parità della città metropolitana e dell'ente di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 o regionale territorialmente competente.

2. Ferme restando le azioni in giudizio di cui all'articolo 37, commi 2 e 4, le consigliere o i consiglieri di parità delle città metropolitane e degli enti di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 e regionali competenti per territorio hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima».

A sua volta, l’art. 37, rubricato “legittimazione processuale a tutela di più soggetti” del medesimo decreto prevede che:

«1. Qualora le consigliere o i consiglieri di parità regionali e, nei casi di rilevanza nazionale, la consigliera o il consigliere nazionale rilevino l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo o comunque nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni compresa la retribuzione, nella progressione di carriera, nonché' in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, prima di promuovere l'azione in giudizio ai sensi dei commi 2 e 4, possono chiedere all'autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a centoventi giorni, sentite, nel caso di discriminazione posta in essere da un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato idoneo alla rimozione delle discriminazioni, la consigliera o il consigliere di parità promuove il tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia autenticata, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del tribunale in funzione di giudice del lavoro.

2. Con riguardo alle discriminazioni di carattere collettivo di cui al comma 1, le consigliere o i consiglieri di parità, qualora non ritengano di avvalersi della procedura di conciliazione di cui al medesimo comma o in caso di esito negativo della stessa, possono proporre ricorso davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti.

3. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 2, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina all'autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, sentite, nel caso si tratti di datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o la consigliera o il consigliere nazionale. Nella sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano.

4. Ferma restando l'azione di cui al comma 2, la consigliera o il consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d'urgenza davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. Il Tribunale in funzione di giudice del lavoro adito, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all'autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l'ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 3. Contro il decreto è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva. La tutela davanti al giudice amministrativo è disciplinata dall'articolo 119 del codice del processo amministrativo.

5. L'inottemperanza alla sentenza di cui al comma 3 e al comma 4, al decreto di cui al comma 4 o alla sentenza pronunciata nel relativo giudizio di opposizione è punita con l'ammenda fino a 50.000 euro o l'arresto fino a sei mesi e comporta altresì il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento da versarsi al Fondo di cui all'articolo 18 e la revoca dei benefici di cui all'articolo 41, comma 1».

Il d.lgs. n. 198 del 2006 individua e disciplina, dunque, due speciali e distinte forme di legittimazione processuale in capo al consigliere di parità: la prima per le discriminazioni di carattere individuale, la seconda per quelle di portata collettiva.

La vicenda sottoposta all’esame del Collegio non è sussumibile in alcuno dei descritti ambiti previsionali.

1.1.2. Non lo è in primo luogo per l’oggetto. Il ruolo processuale del consigliere di parità è testualmente riferito alle «discriminazioni poste in essere in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo, o di qualunque discriminazione nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché' in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252».

In tal senso è, infatti, agevole osservare come la riserva di genere nelle nomine assessorili non rientri nelle “pari opportunità nel lavoro”, ovverosia quelle di cui al libro III del codice, e segnatamente nei divieti di discriminazione di cui all’evocato capo II: art. 27 - discriminazione nell'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro;
art. 28 - discriminazione retributiva;
art. 29 - discriminazione nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera;
- art. 30 - discriminazione nell'accesso alle prestazioni previdenziali;
art. 30 -bis - discriminazione nelle forme pensionistiche complementari collettive;
art. 31- discriminazione nell'accesso agli impieghi pubblici;
art. 35 - divieto di licenziamento per causa di matrimonio.

In effetti, la carica assessorile va ricondotta, quanto alla natura giuridica, alla figura del c.d. “funzionario onorario”. Quest’ultima si configura ogni qualvolta esista un rapporto per lo svolgimento di funzioni pubbliche, ma manchino gli elementi caratterizzanti dell'impiego pubblico, quali la scelta del dipendente di carattere prettamente tecnico-amministrativo effettuata mediante procedure concorsuali (che, si contrappone, nel caso del funzionario onorario, ad una scelta politico- discrezionale), l'inserimento strutturale del dipendente nell'apparato organizzativo della p.a. (rispetto all'inserimento meramente funzionale del funzionario onorario), lo svolgimento del rapporto secondo un apposito statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura dello stesso), il carattere retributivo - perché inserito in un rapporto sinallagmatico - del compenso percepito dal pubblico dipendente (rispetto al carattere indennitario rivestito dal compenso percepito dal funzionario onorario), la durata tendenzialmente indeterminata del rapporto di pubblico impiego, a fronte della normale temporaneità dell'incarico onorario (in termini, Cass. civ. SS.UU. 20 aprile 2007 n. 9363).

1.1.3. Non lo è ove si voglia ritenere – ma così a giudizio del Collegio non è – che gli atti impugnati configurino una discriminazione individuale subita dalla ricorrente G G C, in quanto il consigliere di parità nella fattispecie non ha agito su sua delega o in sua sostituzione processuale, come espressamente prescritto dal co. 2 dell’art. 36.

1.1.4. Non lo è, ancora, ove si riguardino gli atti impugnati come discriminatori nei confronti della generalità delle donne residenti nel Comune di Pietragalla, in quanto il commi 2 dell’art. 37 espressamente limita la legittimazione processuale di cui è cenno ai casi di cui al comma 1, ovverosia i medesimi già analiticamente individuati al precedente § 1.1.2.. Quanto al co. 4 dello stesso art. 37, esso è inteso a disciplinare le situazioni in cui sono ravvisabili gli estremi dell’urgenza, senza nulla aggiungere allo spettro dei casi in cui il ricorso è consentito. Chiaro indice di ciò, con riguardo al giudizio dinanzi al Giudice amministrativo, è l’assoggettamento della sola azione di cui al co. 4 (e non anche di quelle di cui all’art. 36, co. 1, e 37, co. 2) al “rito abbreviato comune a determinate materie” di cui all’art. 119 cod. proc. amm., nonché, con riguardo al Giudice ordinario in funzione di Giudice del lavoro, lo speciale rito disciplinato dal medesimo co. 4 dell’art. 37.

1.1.5. Del resto, il processo amministrativo non costituisce una giurisdizione di diritto oggettivo, volta semplicemente a ristabilire una legalità che si assume violata, ma ha la funzione di dirimere una controversia fra un soggetto che si afferma leso in modo diretto e attuale da un provvedimento amministrativo e l’amministrazione che lo ha emanato (Cons. Stato, sez. V, 9 dicembre 2019, n. 8399, che richiama sez. V, 19 febbraio 2007, n. 826). A fronte di ciò, le disposizioni che attribuiscano il potere di accedere al giudice a determinato soggetti preposti istituzionalmente alla tutela di interessi che travalicano la dimensione individuale, ponendosi in relazione di eccentricità rispetto all’ordinario, vanno ritenute di stretta interpretazione.

1.1.6. In sintesi, e concludendo sul punto, i riferimenti alla competenza del Tribunale amministrativo regionale recati dalle cennate norme non possono che essere riferiti ai casi di rapporti di pubblico impiego in atto, di cui all’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ove residua, appunto, la giurisdizione del Giudice amministrativo.

1.1.7. Neppure, infine, posso ritrarsi argomenti per fondare nel caso di specie la legittimazione a ricorrere del consigliere di parità dalle disposizioni di fonte regionale.

1.2. Sussiste, diversamente, la legittimazione processuale di G G C, rispetto alla quale lo status di cittadino del Comune intimato e la configurabilità della lesione dell’interesse a conseguire la nomina ad assessore costituiscono sufficiente base per l’esercizio del potere di reazione processuale alla lamentata illegittimità dell’azione amministrativa.

2. Nel merito, il ricorso è fondato, alla stregua della motivazione che segue.

Colgono nel segno le censure di violazione del giusto procedimento e di eccesso di potere per motivazione apparente in relazione al mancato rispetto del principio di pari opportunità. In particolare, si è lamentato che il Sindaco dell’Ente civico resistente non avrebbe adeguatamente ricercato possibili candidate alla carica di assessore, essendosi limitato a un’attività di indagine «volutamente limitata a poche figure femminili, peraltro attestata tramite dichiarazioni senza nessuna data certa, con la conseguente conferma dell’assenza di coinvolgimento della popolazione, ivi inclusi soggetti anche estranei all’ambito politico-consiliare di riferimento».

Sul punto, il Collegio richiama, dando qui a essa continuità, il precedente del Tribunale reso in analoga questione, secondo cui: «[…] non può escludersi a priori l’effettiva impossibilità di assicurare nella composizione della Giunta comunale la presenza dei due generi, ma tale impossibilità deve essere adeguatamente provata sia mediante la effettuazione di un’accurata e approfondita istruttoria, sia con una puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori, che specifichi le ragioni che hanno impedito il rispetto della suddetta normativa in materia di parità di genere nella composizione delle Giunte. Alla luce di tali norme il Sindaco […] avrebbe dovuto svolgere un’adeguata istruttoria […], volta a reperire, per la nomina di assessori, la disponibilità di idonee personalità di sesso femminile nell’ambito di tutti i cittadini residenti o che abbiano un significativo legame con […], come per esempio l’indizione di un apposito avviso pubblico, finalizzato all’acquisizione dell’interesse di donne, appartenenti al partito politico o alla coalizione di partiti che hanno vinto le elezioni comunali, a ricoprire la carica di assessore, le quali condividano il programma della lista, capeggiata dal Sindaco» (T.A.R. Basilicata, 4 aprile 2018, n. 237). In tale prospettiva, l’inadeguata azione di ricerca si ricava dal resoconto della seduta consiliare del 30 luglio 2019, da cui emerge come non siano state interpellate le donne candidate nella lista di riferimento e non elette.

2. Dalle considerazioni che precedono discende in parte la declaratoria di inammissibilità e per il resto l’accoglimento del ricorso, con assorbimento di ogni ulteriore censura e, per l’effetto, l’annullamento degli atti impugnati, con espressa salvezza di ulteriore effusione provvedimentale.

3. Sussistono i presupposti, in ragione delle peculiarità della questione e dell’esito del giudizio, per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti.

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