TAR Catania, sez. III, sentenza 2016-11-10, n. 201602893

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Catania, sez. III, sentenza 2016-11-10, n. 201602893
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Catania
Numero : 201602893
Data del deposito : 10 novembre 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 10/11/2016

N. 02893/2016 REG.PROV.COLL.

N. 01201/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1201 del 2015, proposto da S P, rappresentato e difeso dall'avvocato N M C.F. MNCNNZ60L30A028J, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Vito Bellia in Catania, via Musumeci, 171;

contro

Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania, domiciliata in Catania, via Vecchia Ognina, 149;

per l'ottemperanza

del giudicato nascente da sentenza n. 1518/2010 resa dalla Sezione terza del Tar Catania.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;

Viste le memorie difensive;

Visto l 'art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 6 luglio 2016 il dott. F M e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con il ricorso in epigrafe il ricorrente espone che:

1) con sentenza n. 1518/2012, questo Tribunale annullava gli atti impugnati emessi dal Presidente del Tribunale di Catania a favore della dott.ssa A. Puglisi, del dott. F. Lentano e del dott. A. G, siccome emessi in violazione del suo diritto di dirigere interinalmente la sezione di Acireale e condannava il Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni nella misura di € 30.000,00, oltre al pagamento delle spese legali quantificate in € 4.000,00;

2) con ricorso notificato in data 11.10.2012, rubricato al n. 870/2012 R.R. C.G.A., il Ministero della Giustizia impugnava i capi della sentenza pronunciati sul ricorso n. 438/2010 (con il quale era stato impugnato il provvedimento emesso il 29.1.2010 a favore della dott.ssa Puglisi), sul ricorso per motivi aggiunti n. 438/2010 (con il quale era stato impugnato il provvedimento del 3.2.2010, a favore del dott. Lentano), sul ricorso n. 795/2010, sul ricorso n. 1295/2010 (con il quale era stato impugnato il provvedimento del 3.5.2010 a favore del dott. Lentano), omettendo di impugnare il capo della sentenza che accoglieva il ricorso per motivi aggiunti sul ricorso 1295/2010 (con il quale si annullava il provvedimento di nomina nei confronti del dott. A G) che veniva pretermesso dal giudizio di appello;

3) con sentenza n. 609 depositata il 20 giugno 2013, il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, pronunciandosi sull’appello proposto dal Ministero della Giustizia avverso i capi della sentenza impugnati, lo accoglieva in parte e, in riforma della sentenza impugnata, respingeva il ricorso introduttivo n. 438/2010 e le richieste risarcitorie, respingendo per il resto l’appello con la conferma della sentenza impugnata e compensando le spese e gli onorario del giudizio;

4) avverso la citata sentenza, presentava ricorso per revocazione, dichiarato inammissibile dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con sentenza n. 96/2015.

Per quanto sopra esposto, il ricorrente deduce:

a) che la sentenza di questo TAR n. 1518/2012 sarebbe passata in cosa giudicata limitatamente al capo della sentenza che accoglieva il ricorso per motivi aggiunti registrato al n.1295/2010, pronunciato nei confronti del Ministero della Giustizia e nei confronti del dott. A G;

b) che sarebbe rimasto immodificato il capo di detta sentenza che ha condannato il Ministero della Giustizia al pagamento delle spese legali, oltre spese generali, IVA e CPA, atteso che la sentenza del C.G.A. n. 609/2013, avrebbe accolto l’appello limitatamente al capo impugnato della sentenza che ha statuito sul risarcimento del danno, rigettando, “per il resto”, l’appello e compensando le spese legali solo del giudizio di appello;

c) che il giudicato su tutte le statuizioni concernenti il provvedimento “ pro G” coprirebbe il dedotto e il deducibile, vale a dire anche l’eccezione d’illegittimità della liquidazione complessiva del danno, anziché partitamente in relazione al danno a lui derivato da ogni singolo provvedimento lesivo.

d) che la sentenza del C.G.A. n. 609/2013 di accoglimento dell’appello del Ministero per quanto riguarda il risarcimento del danno, non si estenderebbe “alle statuizioni passate in giudicato al momento stesso della proposizione da parte del Ministero dell’appello parziale, prima che il C.G.A. sentenziasse” ;

e) l’indivisibilità dell’obbligazione risarcitoria, considerato che il T.A.R. Catania ha quantificato il danno causato a seguito dell’emanazione dei provvedimenti seriali quale menomazione del prestigio della funzione negata e del ruolo che il magistrato assume innanzi all’ufficio di appartenenza e non soltanto al foro e all’opinione pubblica;

f) che il Ministero non avrebbe impugnato, con motivo specifico o subordinato, il capo della sentenza relativo all’annullamento del provvedimento emesso dal Presidente del Tribunale di Catania il 25.5.2010, impugnato dal ricorrente con ricorso per motivi aggiunti, depositato il 15.6.2010, nel ricorso iscritto al n. 1295/2010, né avrebbe notificato l’atto di appello al dr. A G;

g) di essere creditore del Ministero della Giustizia, in forza dei provvedimenti giudiziari richiamati, passati in giudicato, della complessiva somma di € 35.836,48, così specificata: € 30.000,00 somma dovuta in forza della sentenza n. 1518/2012;
€ 4.000,00 per spese legali liquidate in sentenza;
€ 600 per spese generali;
€ 1236,48 per IVA e CPA su imponibile di € 4.600,00.

h) di avere diffidato, costituendolo in mora, il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di € 35.836,48 come sopra specificata.

Non avendo ricevuto quanto a suo dire dovuto, il ricorrente ha proposto il ricorso in esame, al fine di ottenere il pagamento della suddetta somma (oltre agli interessi maturati e a maturare) anche a mezzo di commissario ad acta.

Nella camera di consiglio del giorno 6 luglio 2016, il ricorso è stato trattenuto in decisione, alla presenza dei procuratori delle parti presenti come da verbale.

Il ricorso è inammissibile.

Giova premettere che l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato (art. 112, co. 2, let. a) c.p.a) e che, in tal caso, “il ricorso si propone al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta;
la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado” (art. 113, co. 1, c.p.a.).

Il ricorrente - dopo avere ricostruito nei termini sopra riportati la vicenda processuale che ha avuto ad oggetto i provvedimenti di supplenza, emanati nel 2010 dal Presidente del Tribunale di Catania, a favore della dott.ssa P A e del dott. L F e del dott. G A, a copertura della posizione dirigenziale vacante nella Sezione distaccata di Acireale – assume che sia stato confermato dal C.G.A., in sede di revocazione, che “la sentenza di primo grado era passata in giudicato per tutti i capi riguardanti il dott. G, compresa la condanna del Ministero al pagamento della somma di euro 30.000 a titolo di risarcimento dei danni subiti dal dr. S in conseguenza del detto provvedimento lesivo” (cfr. memoria depositata in data 11 maggio 2016).

Tale assunto è errato.

Rileva il Collegio che, con la sentenza di secondo grado (n. 609/2013), il C.G.A., decidendo sull’appello del Ministero della giustizia avverso la sentenza di questo Tribunale n. 1518/2012, ha così statuito: “a) accoglie in parte l’appello, e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso introduttivo n. 438/2010 e respinge le richieste risarcitorie formulate dal ricorrente;
b) per il resto respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata;
c) compensa spese e onorari …”.

Nel respingere le richieste risarcitorie dell’appellato, odierno ricorrente, il C.G.A. così disponeva:

“Nell'ambito di tutti i ricorsi proposti il dott. S ha chiesto il risarcimento dei danni fisici e morali patiti a causa dei provvedimenti impugnati.

Al riguardo il Tribunale ha in sostanza attribuito il risarcimento (per euro 30.000) dei danni patiti dal dott. S in conseguenza del mancato riconoscimento del suo diritto ad esercitare la supplenza sino alla definizione del provvedimento tabellare, in considerazione del prestigio della funzione negata e del ruolo che il Magistrato assume innanzi all'ufficio di appartenenza, al foro e all'opinione pubblica.

Il relativo capo di sentenza è impugnato dall'amministrazione appellante la quale deduce l'insussistenza dei presupposti soggettivi e oggettivi sui quali fonda la domanda risarcitoria proposta dal magistrato.

In ogni caso, secondo l'appellate, il Tribunale ha anche errato per eccesso nella liquidazione del danno come si evince chiaramente dal fatto che il TAR Lazio — a seguito dell'annullamento della definitiva variazione tabellare — ha attributo all'interessato un quantum risarcitorio pari ad un terzo di quello riconosciuto dal Tribunale etneo per il limitato periodo della mancata supplenza.

Il mezzo merita, a giudizio dì questo Collegio, positiva considerazione.

In effetti, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, asseritamente patito, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. In particolare mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento.

Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.

Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 c.c. (cfr. Cass. sez. lavoro n. 9860 del 2012).

Vero è che in materia assume rilievo precipuo la prova per presunzioni, ma ciò come si è detto non esime la parte istante dall'onere (per il giudizio amministrativo cfr. art. 64 comma 1 cod. proc. amm.) di allegare e dimostrare i fatti da cui il giudice possa poi inferire la sussistenza e l'entità del pregiudizio lamentato.

In altri e piani termini il danno, anche da mobbing, deve essere dimostrato nella sua effettiva esistenza e cioè nell'an, ferma restando la possibilità di esercizio dei poteri equitativi del giudice solo in ordine alla determinazione della sua precisa entità e cioè del quantum.

In nessun modo invece il giudizio equitativo può surrogare il mancato assolvimento dell'onere della prova.

Applicando i descritti e consolidati criteri al caso in esame deve rilevarsi che il ricorrente ha richiesto il risarcimento del c.d. danno morale causato dall'illegittimità dei provvedimenti impugnati limitandosi a dedurre il nocumento all'immagine e al suo personale prestigio che da essi sarebbe derivato.

Sennonché, come eccepisce l'Amministrazione, la vicenda contenziosa sopra esaminata concerne oggettivamente il mancato conferimento - per pochi mesi - di un incarico attinente ad una funzione dirigenziale non di titolarità ma sostanzialmente di mera supplenza, oltre tutto da esercitare presso una sezione staccata e dunque presso una articolazione interna del Tribunale priva di effettiva autonomia.

A ciò deve aggiungersi che l'interessato non ha in nessun modo fornito argomenti dai quali possa dedursi che la vicenda abbia avuto un'eco mediatica e che la stessa sia stata oggetto di un qualche riscontro o impatto presso il locale Foro e nell'ambiente di lavoro.

Quindi, in conclusione, non sussistono elementi - nel senso sopra detto - dai quali possa effettivamente desumersi un intervenuto nocumento all'immagine morale e professionale del magistrato.

Il mezzo in rassegna va quindi accolto, con riforma in parte qua della sentenza impugnata e reiezione della domanda risarcitoria” .

Come si evince dalla mera lettura del passo della sentenza sopra riportato, il Consiglio di Giustizia, in sede di appello, ha provveduto a scrutinare partitamente e dettagliatamente i profili risarcitori con riferimento all’intera vicenda, concludendo per la reiezione della domanda risarcitoria.

Ne consegue che il capo della sentenza di primo grado di cui qui si chiede l’esecuzione - relativo alla “questione risarcitoria” (così denominata a pag. 8 della sentenza del C.G.A. n. 609/13) - è stato riformato in appello in conseguenza dell’effetto devolutivo di detto mezzo di impugnazione.

Sul punto la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che “la sentenza pronunciata in grado di appello travolge la sentenza emessa in primo grado e le statuizioni in essa contenute, che non conservano più alcuna validità, e rende quindi "inutiliter data" la precedente attività giurisdizionale. Ai sensi dell'art. 336 del c.p.c., la sentenza di riforma, resa in grado d'appello, si sostituisce infatti immediatamente, integralmente o per i capi riformati, alla sentenza di primo grado, travolgendo le statuizioni modificate e quelle da esse dipendenti e, per l'effetto devolutivo dell'appello, l'annullamento di un capo di sentenza travolge anche gli altri capi, legati al primo da vincolo di presupposizione e di conseguenzialità logica, oltre che giuridica, anche se non fatti espressamente oggetto di gravame” (Cons. Stato, Sez. V, sentenza 13/01/2014, n. 86).

Nel caso di specie, a seguito della sentenza del C.G.A. n. 609/13, il giudicato venutosi a creare in ordine alla spettanza del diritto al risarcimento (in origine, lamentato dal ricorrente) è nel senso della sua insussistenza, senza riviviscenza alcuna della sentenza di primo grado che, pertanto, risulta inidonea ad essere ottemperata, nel senso voluto dal ricorrente, innanzi a questo Tribunale.

Né a conclusioni diverse può giungersi per effetto del ricorso per revocazione proposto dal ricorrente avverso la citata sentenza n. 609/2013 in quanto lo stesso C.G.A., con la sentenza n. 96/2015, ha dichiarato inammissibile il predetto ricorso senza dunque in alcun modo scalfire le statuizioni del giudice d’appello.

Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

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