TAR Roma, sez. I, sentenza 2023-06-27, n. 202310820

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. I, sentenza 2023-06-27, n. 202310820
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 202310820
Data del deposito : 27 giugno 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/06/2023

N. 10820/2023 REG.PROV.COLL.

N. 03995/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3995 del 2021, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avv. A M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero della giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per il risarcimento

dei danni subíti in conseguenza dell’illegittimo operato dell’amministrazione.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della giustizia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 aprile 2023 il dott. M V e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Parte ricorrente agisce per il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’operato del Ministero resistente che avrebbe determinato il mancato percepimento dei ratei pensionistici tra il 31 gennaio 2006 ed il 13 marzo 2011, il conseguente mancato adeguamento automatico dell’importo della pensione mensile, oltre interessi e rivalutazione, nonché per chiedere la ripetizione delle somme ingiustamente versate come condanna alle spese in due giudizî contabili ed il ristoro dei danni alla salute ed esistenziali.

2. Si è costituita in giudizio l’amministrazione.

3. Le parti depositavano documenti e memorie in vista della pubblica udienza del 19 aprile 2023, all’esito della quale il Collegio tratteneva la causa per la decisione di merito.

4. È necessario, a questo punto, ripercorrere la vicenda fattuale oggetto del presente giudizio.

4.1. Il ricorrente è un ex magistrato ordinario rimosso dall’incarico a seguito di procedimento disciplinare, introdotto il 22 settembre 2005 a seguito di emissione, da parte del giudice per le indagini preliminari del Tribunale dell’Aquila, del decreto di giudizio immediato per il reato di omissione di atti d’ufficio. Successivamente alla condanna in primo grado, il Procuratore generale formulava domanda di sospensione cautelare dal servizio, ai sensi degli artt. 30 e 31 r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, che la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Csm) accoglieva, con ordinanza, la richiesta, a far data dal 31 gennaio 2006.

4.2. All’esito delle impugnazioni nel processo penale l’odierno esponente veniva prosciolto, mentre il procedimento disciplinare si concludeva con la sentenza di Cass., sez. un., 14 marzo 2011, n. 5924 che, rigettando il ricorso, conferma la sanzione della destituzione. Conseguentemente, il Presidente della Repubblica adottava ai sensi dell’art. 17 l. 24 marzo 1958, n. 195, in data 11 aprile 2011, il decreto che infliggeva la sanzione disciplinare della rimozione, « a decorrere dal 14 marzo 2011 ».

4.3. Va poi osservato che in data 9 ottobre 2001 (ossia mentre l’odierno ricorrente era ancora regolarmente in servizio) l’esponente aveva avanzato istanza per la ricongiunzione dei contributi versati presso la diversa forma obbligatoria di previdenza per liberi professionisti (segnatamente, la Cassa forense) ai sensi dell’art. 1 l. 5 marzo 1990, n. 45.

4.4. L’ iter amministrativo si caratterizzava per l’assoluta complessità, tanto che in un primo momento la Cassa forense deliberava il rigetto dell’istanza di ricongiungimento. Avverso tale atto veniva presentato ricorso al Tribunale di Rimini, in funzione di giudice del lavoro, che si pronunciava con la sentenza depositata il 22 luglio 2004 dichiarando l’illegittimità dell’operato della Cassa, atteso che quest’ultima avrebbe dovuto unicamente comunicare la durata del periodo assicurativo presso di essa e l’ammontare dei contributi versati.

4.5. Successivamente al citato pronunciamento, l’interessato inoltrava varie missive al Ministero per sollecitare la definizione della pratica: nondimeno, il dicastero replicava osservando come fosse impossibile procedere al calcolo della somma dovuta in assenza di comunicazione del periodo contributivo presso la Cassa forense. Quest’ultimo ente, inoltre, si opponeva al rilascio delle informazioni richieste, precisando di aver appellato la sentenza del Tribunale di Rimini e di attendere, pertanto, l’esito del giudizio d’impugnazione.

4.6. Il diniego della Cassa forense veniva nuovamente censurato dal ricorrente con un ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. al Tribunale di Rimini che, in accoglimento della domanda, ordinava all’ente previdenziale di comunicare al Ministero i dati utili ai fini del ricongiungimento. In conseguenza di quest’ultimo pronunciamento del giudice del lavoro, la Cassa forense adottava la nota del 17 maggio 2006 (quindi successiva alla sospensione disciplinare) con cui veniva comunicato al Ministero della giustizia che il ricorrente aveva versato per gli anni 1974, 1975, 1976 e 1977 complessive ₤ 550.000 rimborsate nel 1980 ai sensi dell’art. 18 l. 25 febbraio 1963, n. 289.

4.7. In data 11 aprile 2011 (ossia poco dopo la pubblicazione della sentenza definitiva di destituzione) l’odierno ricorrente sollecitava il Ministero e l’Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (Inpdap) a definire la domanda di ricongiunzione dei contributi;
contestualmente veniva anche avanzata istanza di versamento autonomo ( riscatto ) dei contributi per il periodo di sospensione dal servizio. Inoltre, l’interessato formulava istanza di collocamento a riposo a far data dal 15 aprile 2011 ove fossero accolte sia la domanda di ricongiungimento sia quella di riscatto, ovvero dal 31 gennaio 2006, ove fosse accolta solo la prima.

4.8. L’amministrazione resistente, pertanto, curato l’ultimo adempimento di competenza della Cassa forense, procedeva a calcolare la differenza a carico del lavoratore per il ricongiungimento dei contributi e, con nota dell’8 agosto 2011, veniva indicato l’importo da versare, ai sensi dell’art. 2 l. 45 cit., pari alla differenza tra la riserva matematica di cui all’art. 13 l. 12 agosto 1962, n. 1338 ed i contributi corrisposti dalla Cassa forense (cioè zero), ossia € 98.850,59: il ricorrente accettava di versare in 44 rate mensili la somma indicata con atto del 2 settembre 2011 (la ricongiunzione veniva poi formalizzata nell’atto del 14 ottobre 2011).

4.9. Inoltre, il Ministero inoltrava (in data 27 ottobre 2011) all’Inpdap anche la documentazione necessaria ai fini del calcolo dell’importo del riscatto, nonché per la liquidazione della pensione. Tra gli atti figura anche il mod. PA04 che indicava il 30 gennaio 2006 come ultimo giorno di servizio.

4.10. Successivamente, il 23 novembre 2011, l’Inpdap comunicava l’importo del riscatto per tre degli anni di sospensione, indicando la somma di € 93.620,61, come onere contributivo, rateizzabile in 36 rate mensili. Tuttavia, con mail del 16 febbraio 2013 l’odierno ricorrente rinunciava al riscatto, per come modificato con successivo atto del 17 gennaio 2013.

4.11. Nondimeno, prima della decisione sul riscatto, il ricorrente avrebbe appreso verbalmente da un funzionario del Ministero che il trattamento di quiescenza sarebbe decorso dal giorno successivo alla rimozione ossia dal 14 marzo 2011 e non dalla data della sospensione cautelare. In conseguenza di ciò, l’interessato inviava (in data 7 dicembre 2011) una mail al Ministero e all’Inpdap contestando quando esposto telefonicamente: tale missiva sarebbe rimasta senza riscontro.

4.12. Al contempo, considerato che l’Inpdap non stava versando i ratei pensionistici, l’interessato si attiva presso l’istituto previdenziale venendo a conoscenza dell’asserita mancata completezza della documentazione trasmessa dal Ministero (non sarebbe stato trasmesso il già citato mod. PA04). Una volta ottenuta copia della missiva spedita dal Ministero all’istituto, l’odierno ricorrente domandava nuovamente la liquidazione della pensione a decorrere dal giorno della sospensione cautelare. Nondimeno, in data 2 maggio 2013 l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps, succeduto medio tempore all’Inpdap) ha liquidato il trattamento di quiescenza dal giorno successivo alla definitività della sentenza di rimozione (ossia dal 14 marzo 2011).

4.13. Quest’ultimo provvedimento veniva reclamato al comitato di vigilanza dell’Inps che il successivo 8 giugno 2016 respingeva la doglianza, osservando che il Ministero della giustizia aveva attestato nel mod. PA04 che l’interessato era cessato dal servizio il 14 marzo 2011 (ultimo giorno lavorativo il 13 marzo 2011).

4.14. A questo punto l’odierno ricorrente adiva il giudice contabile (segnatamente la Corte dei conti, sez. giur. reg. per l’Emilia-Romagna) per far dichiarare la spettanza del trattamento previdenziale sin dal 2006. Nondimeno, la Corte dei conti dichiarava il proprio difetto di giurisdizione in ordine alla liquidazione del trattamento di fine servizio (Tfs), spettando la cognizione al giudice amministrativo, e rigettava nel resto la domanda osservando la correttezza dell’operato del dicastero resistente, precisando come il decreto presidenziale indicasse proprio nel 14 marzo 2011 il giorno di cessazione del rapporto di servizio, nonostante contraria giurisprudenza sul punto (v. sentenza 69/2017/C).

4.15. In conseguenza del pronunciamento del giudice contabile, il ricorrente chiedeva al Ministero di retrodatare la cessazione dal servizio al momento della sospensione cautelare, ovvero, in subordine, ricostruire la carriera sino all’ultimo giorno di servizio, ossia il 13 marzo 2011. Inoltre, veniva avanzata istanza di accesso al fine di ottenere copia degli altri decreti relativi a magistrati rimossi: tali documenti sarebbero stati necessarî al fine di evidenziare, nel giudizio contabile d’appello, l’erroneità della sentenza di primo grado della Corte dei conti.

4.16. Non avendo ottenuto risposta dall’amministrazione, l’odierno esponente impugnava il silenzio-rifiuto dell’amministrazione dinanzi a questo Tribunale riproponendo altresí le domande per le quali il giudice contabile aveva declinato la giurisdizione. Inoltre, veniva proposto un distinto ricorso per l’accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a.

4.17. Quest’ultima azione veniva respinta in primo grado ma accolta da Cons. Stato, sez. V, 27 giugno 2018, n. 3956, ordinando all’amministrazione di rendere disponibili gli altri decreti presidenziali di rimozione di magistrati ordinarî, cui non veniva però immediatamente ottemperato. Tuttavia, prima di quest’ultima pronuncia, la prima sezione giurisdizionale d’appello della Corte di conti respingeva l’impugnazione avverso la sentenza del giudice emiliano, confermando la bontà del decorso del trattamento pensionistico dal 14 marzo 2011 (sentenza 134/18). Avverso quest’ultima sentenza veniva, quindi, avanzata istanza di revocazione.

4.18. Al contempo, questo Tribunale accoglieva l’azione impugnatoria citata al § 4.16. (v. Tar Lazio, sez. I, 13 maggio 2019, n. 5920), accertando che la data di cessazione dal servizio, ai fini dell’erogazione del Tfs, fosse il 31 gennaio 2006, retroagendo la destituzione al giorno della sospensione cautelare. Questa sentenza veniva impugnata dall’odierno ricorrente e dall’Inps, ferma restando l’acquiescenza di tutte le parti alla statuizione circa la decorrenza della destituzione dal 31 gennaio 2006 (data del provvedimento di sospensione): in conseguenza dell’irrevocabilità del predetto capo di sentenza, l’interessato formulava istanza all’istituto previdenziale per il « “ricalcolo” della pensione dal 31 gennaio 2006 » cui però veniva fornita risposta soltanto interlocutoria, stante la pendenza del giudizio d’appello.

4.19. Successivamente, il 1° settembre 2020 veniva pubblicata la sentenza della Corte dei conti che dichiarava inammissibile l’istanza di revocazione del precedente pronunciamento. Contestualmente, Cons. Stato, sez. V, 29 settembre 2020, n. 5726, accoglieva l’appello dell’esponente precisando come la data del 31 gennaio 2006 dovesse essere considerata anche ai fini del ricalcolo della pensione, evidenziando anche una responsabilità del Ministero della giustizia nell’equivoca indicazione della data di cessazione dall’impiego.

4.20. In conseguenza di ciò, l’odierno ricorrente avanzava istanza all’Inps di ricalcolo della pensione sin dal 2006, nonché domandava al dicastero resistente il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’operato « per l’ipotesi in cui l’Inps avesse persistito nel suo inadempimento ». Tuttavia, il Ministero rigettava la richiesta: conseguentemente, l’interessato agiva dinanzi a questo Tribunale al fine di ottenere il ristoro dei danni patiti.

4.21. Per mera completezza si osserva come, successivamente all’introduzione del presente giudizio, il ricorrente agiva per l’ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato 5726/20, ottenendo la condanna del Ministero della giustizia e dell’Inps, ognuno per la propria parte, a dare completa esecuzione al precedente pronunciamento (Cons. Stato, sez. VII, 9 gennaio 2023, n. 263).

5. Esaurita l’illustrazione della vicenda fattuale, va osservato come la domanda svolta nell’odierno processo sia finalizzata ad ottenere il risarcimento dei danni procurati dal Ministero resistente e consistenti nella « mancata percezione della differenza tra l’importo dei ratei di pensione, che il -OMISSIS- avrebbe dovuto percepire dall’Inps dal 31 gennaio 2006 sino al 13 marzo 2011 […] nel conseguente ricalcolo della pensione, […] negli interessi/rivalutazione sugli importi come sopra determinati […] nel rimborso dei 3.112,50 euro corrisposti al Ministero di giustizia e all’Inps per le inique condanne giudiziarie […] nei danni alla salute ed esistenziali cagionati dal martirio giudiziario », sulla base di otto distinti addebiti spiegati nel ricorso.

5.1. Con il primo addebito si contesta di aver redatto due atti relativi al mod. PA04, rispettivamente in data 21 ottobre 2011 e 26 ottobre 2012, attestando nel primo caso la cessazione del servizio alla data di sospensione e nel secondo alla data di definitività della sentenza disciplinare. Inoltre, di tale duplicità di moduli il ricorrente veniva a conoscenza solo a seguito di acceso al fascicolo previdenziale nel 2020, nonostante l’Inpdap avesse già a disposizione la documentazione necessaria sin dal 2011, senza aver proceduto immediatamente alla liquidazione della pensione e del Tfs.

5.2. A mezzo del secondo addebito si evidenzia l’illegittimo operato dell’ufficio pensioni del Ministero che aveva riferito al ricorrente come « la pensione non poteva decorrere dal 31.1.2006 perché il D.P.R. dell’11.4.2011 aveva disposto la sua “cessazione dal servizio” dal 14.3.2011” e che, per ottenere la pensione dal 31.1.2006, “si sarebbe dovuto dimettere volontariamente dall’impiego il 31.1.2006” », nonostante la contraria giurisprudenza sul punto evidenziata nella mail (del 7 dicembre 2011) dell’interessato: a tale missiva sarebbe seguito non un adeguamento dell’operato amministrativo, ma la compilazione del secondo mod. PA04 indicato al punto precedente.

5.3. Il terzo addebito è rivolto alla condotta omissiva del Ministero che, nonostante l’invito da parte dell’istituto previdenziale, non collaborava nel fornire all’Inpdap i chiarimenti circa il disallineamento delle date relative alla cessazione dal servizio e alla destituzione.

5.4. Con il quarto addebito si contesta la mancata tempestiva ostensione dei decreti presidenziali di destituzione di altri magistrati che, ove prodotti nel giudizio contabile, avrebbero evitato l’errore compiuto nella pronuncia delle sentenze di rigetto della domanda pensionistica.

5.5. Tramite il quinto addebito viene evidenziato come nella memoria processuale prodotta nel giudizio dinanzi alla Corte dei conti, il Ministero avrebbe sostenuto che il decreto fisserebbe la data di cessazione del servizio nella data di definitività della sentenza disciplinare.

5.6. Per mezzo del sesto addebito, invece, si contesta la mancata retrodatazione della cessazione del servizio al 2006, richiesta nel gennaio 2017 da cui poi scaturiva il giudizio concluso con la sentenza del Consiglio di Stato n. 5726/20.

5.7. Con il settimo addebito viene dedotta l’illegittimità del diniego di accesso agli altri decreti presidenziali di destituzione.

5.8. Infine, con l’ultimo addebito si rappresenta come il Ministero abbia impiegato dieci anni per evadere l’istanza di ricongiunzione dei contributi.

6. Ciò premesso, appare necessario chiarire che la domanda risarcitoria si fonda sull’illegittimo operato dell’amministrazione intesa come datrice di lavoro, inerendo gli addebiti il rapporto d’impiego affidato alla giurisdizione esclusiva di questo Tribunale ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a. Appare necessario, quindi, verificare in primo luogo se gli otto addebiti possano qualificarsi come illeciti e poi passare all’esame degli eventuali danni che essi abbiano cagionato al ricorrente.

7. Orbene, i primi tre addebiti possono essere affrontati congiuntamente, trattandosi di condotte intimamente connesse da un punto di vista logico.

7.1. In particolare, quanto al primo addebito non appare condivisibile la tesi dell’interessato circa la falsità del secondo mod. PA04 (quello del 2012) trasmesso all’Inpdap.

7.2. Difatti, dall’esame dei due documenti emergono divergenze ulteriori rispetto a quelle evidenziate dal ricorrente circa la data di cessazione dal servizio: tali circostanze consentono di ipotizzare l’esistenza di divergenze interpretative circa i dati da riportare sul modulo e non anche di « un ostile, malevolo e concordato disegno che è stato ordito ed orchestrato dal Ministero di giustizia e dall’Inpdap per finalità abiette, cioè al fine di nuocere al -OMISSIS-, privandolo di un diritto che entrambe le Amministrazioni sapevano e sanno competergli ». Difatti, il primo mod. PA04 del 21 ottobre 2011 indicava unicamente l’istanza di congiunzione ai sensi dell’art. 1 l. 45 cit. senza precisare l’eventuale importo della rata;
inoltre, difettava la precisazione del ricongiungimento del servizio prestato presso il comune di Cingoli (cfr. il quadro 4 nei due moduli).

7.3. Ne consegue che le differenze riscontrate depongono per un’integrazione tra i due documenti che debbono essere letti congiuntamente, essendo le finalità differenti. Invero, va rammentato come l’esponente avesse avanzato sia istanza di corresponsione del trattamento pensionistico, sia di riscatto dei contributi per gli anni di sospensione dal servizio: risulta evidente, pertanto, come le differenti indicazioni circa la data di cessazione dal servizio, siano da correlare alle distinte attività cui veniva chiamato l’istituto previdenziale.

7.4. In aggiunta, va rilevato che l’osservazione del ricorrente circa la « scoperta » dell’esistenza del secondo mod. PA04 solo nell’agosto 2020 risulta smentita dal fatto che quantomeno sin dal novembre 2016 il Ministero aveva indicato nella memoria per l’udienza nel giudizio pensionistico di primo grado di aver compilato due moduli, trasmessi all’Inpdap rispettivamente nel 2011 e nel 2012.

7.5. Quanto all’asserito danno subíto in conseguenza della predetta condotta, va osservato, che esso sia insussistente. Difatti, in relazione alla liquidazione del Tfs, va precisato come il disallineamento della data di cessazione non determinava conseguenze patrimoniali negative in capo al ricorrente. Invero, se è corretto (come evidenziato da questa Sezione e confermato dal Consiglio di Stato) che la data di cessazione dal servizio è da individuarsi nel 31 gennaio 2006, ossia il giorno successivo all’adozione del provvedimento disciplinare cautelare, retroagendo la sanzione della destituzione sino all’inizio della sospensione, è altresí da osservare come tale circostanza non influisca concretamente sul pagamento del Tfs.

7.6. Quest’ultimo, come è noto, è correlato alla cessazione del rapporto d’impiego, determinandosi l’entità dell’importo dell’indennità alla durata del servizio prestato: orbene, dalla consultazione di qualunque dei due mod. PA04, emerge immediatamente come il ricorrente avesse prestato servizio sino al 30 gennaio 2006 con la conseguenza che il periodo successivo non possa considerarsi utili ai fini della liquidazione del Tfs. Quanto al pagamento degli accessorî (interessi e rivalutazione) dovuti per legge (cosí il Consiglio di Stato), va osservato che effettivamente sussiste un disallineamento tra la decorrenza giuridica e quella economica, ma la retrodatazione della sanzione espulsiva non incide sul perfezionamento della fattispecie legittimante la percezione dell’indennità: in altri termini, sino all’adozione del decreto presidenziale di destituzione non era possibile pagare l’indennità, atteso che, sebbene non in servizio attivo, il ricorrente non era ancora stato espulso dal ruolo organico della magistratura ordinaria (ma solo collocatovi al di fuori). In tal senso, puntuali sono le osservazioni della Corte dei conti che evidenziava come il dipendente pubblico sospeso si trovi in una sorta di « limbo » lavorativo (il rapporto d’impiego è, invero, quiescente), destinato a chiarirsi solo con il completamento del procedimento disciplinare.

7.7. D’altronde, se il ricorrente, all’esito del procedimento disciplinare, avesse subíto una condanna di natura conservativa (es. una sospensione dalle funzioni) egli non avrebbe avuto titolo alla liquidazione del Tfs, non essendo cessato dal servizio (e gli sarebbe stata ricostruita la carriera).

7.8. Similmente, sulla liquidazione della pensione, va osservato che l’erroneità della valutazione dell’Inps è già stata acclarata con sentenza definitiva del Consiglio di Stato. Conseguentemente, l’istituto previdenziale dovrà procedere al ricalcolo nel rispetto dei termini di legge, individuando l’importo che sarebbe spettato nel 2006, facendolo però decorrere dal momento dell’integrazione di tutti i requisiti previsti per l’ottenimento della pensione (anagrafici e contributivi), ivi compresa la definitiva uscita dal ruolo della magistratura, vuoi per volontarie dimissioni, vuoi per espulsione disciplinare, nonché la richiesta di pagamento del trattamento di quiescenza (v. Cass., sez. lav., 27 novembre 2013, n. 26526).

7.9. D’altro canto, la richiesta all’Inpdap di riscattare i contributi per il periodo di sospensione costituisce la piú chiara evidenza del fatto che la decorrenza economica (non quella giuridica) della pensione non potesse essere retrocessa al 2006.

7.10. Conseguentemente, alla luce di quanto esposto nei paragrafi che precedono, non appare illegittima la condotta contestata con il secondo addebito, atteso che essa costituisce una mera spiegazione (forse non cristallina) della differenza nelle decorrenze giuridiche ed economiche ai fini della corresponsione della pensione.

7.11. Viceversa, come già evidenziato dal Consiglio di Stato, la mancata collaborazione del Ministero della giustizia contestata con il terzo addebito costituisce contegno non conforme ad un canone cooperativo di correttezza e buona fede che deve informare l’azione amministrativa. Nondimeno, come si avrà modo di osservare infra , non appare sussistente il lamentato danno conseguente l’irregolare operato del dicastero.

8. Anche il quarto e il settimo addebito possono essere trattati unitariamente, vertendo entrambi sulla mancata ostensione dei decreti presidenziali relativi alle sanzioni disciplinari inflitte ad altri magistrati.

8.1. Sul punto va osservato come la condotta del Ministero, seppure censurata dal Consiglio di Stato, fosse caratterizzata da una valutazione giuridica di insussistenza dell’interesse all’ostensione: conseguentemente, tale condotta non può essere considerata illecita, vertendosi in materia di interpretazione di norme giuridiche.

8.2. D’altronde, l’eventuale danno (ove mai reputato sussistente) appare riparato dalla liquidazione delle spese di lite che sono state poste dal giudice d’appello a carico del Ministero della giustizia.

9. Il quinto addebito, concernente la difesa dell’amministrazione nel giudizio contabile, non può essere accolto: difatti, al di là dell’eventuale superamento delle libertà della difesa processuale (v. art. 88 c.p.c.), va osservato come l’esposizione delle argomentazioni difensive dell’amministrazione appaia pienamente in linea con quanto indicato supra , essendo basata sulla riferita differente lettura (giuridica ed economica) della decorrenza della data di destituzione.

9.1. In altre parole, la cessazione dall’impiego indicata nella memoria (14 marzo 2011) andava intesa come terminazione di qualsiasi rapporto con l’amministrazione, ivi compresa la corresponsione dell’assegno alimentare. Sul punto, infatti, il Ministero riferiva come, a far data dal 14 marzo 2011, era stata altresí chiusa la partita aperta presso la Ragioneria territoriale dello Stato, circostanza che dimostra come da tale data il dicastero avesse cessato di corrispondere qualsivoglia somma al ricorrente.

10. Il sesto addebito, poi, appare pienamente assorbito dalla pronuncia del Consiglio di Stato n. 5726/20 che ha già riconosciuto la necessità di retrodatare la data della cessazione del servizio.

10.1. Appare quindi precluso, ostandovi un giudicato, procedere ad una nuova valutazione della condotta del Ministero, già reputata non conforme ai canoni di leale collaborazione. Quanto all’asserito danno, si rinvia a quanto verrà esposto infra .

11. Infine, l’ultimo addebito appare infondato, atteso che la durata del procedimento amministrativo per il ricongiungimento dei contributi non è imputabile al Ministero.

11.1. Invero, il procedimento si è protratto, come si è visto, per quasi un decennio anche a causa dell’operato della Cassa forense che non rendeva disponibili i documenti necessarî ai fini del perfezionamento della fattispecie: va ribadito come la nota della Cassa forense veniva infatti trasmessa solo successivamente alla sospensione dal servizio. In seguito all’acquisizione della documentazione, l’ iter procedimentale non veniva immediatamente completato in attesa della definizione del procedimento disciplinare: difatti, l’amministrazione evidenziava come risultava comunque pregiudiziale tale pronunciamento.

11.2. Sul punto va rammentato, contrariamente alle osservazioni del ricorrente, che le dimissioni volontarie dall’ordine giudiziario in pendenza di disciplinare non costituiscono un diritto, bensí un interesse legittimo: difatti, con valutazione discrezionale, il Csm può decidere di respingere la domanda del magistrato (v. art. 19, ult. comma, r.d.lgs. 511 cit.).

11.3. In ogni caso, va rilevato come il ricorrente non alleghi elementi che possano far ipotizzare di aver formulato istanza di dimissioni e che l’eventuale ritardo abbia pregiudicato effettivamente la sua posizione. Difatti, il lavoratore, conscio della facoltà di ricongiungere i contributi, avrebbe potuto dimettersi volontariamente e chiedere (ove le dimissioni fossero state accettate), quindi, il trattamento di quiescenza sin da tale momento. Orbene, solo in questo caso, qualora l’amministrazione avesse ulteriormente tardato a completare l’ iter per il ricongiungimento, impedendo la percezione della pensione, si sarebbe verificato un effettivo danno suscettibile di risarcimento.

11.4. Viceversa, nel caso in esame l’esponente manteneva il proprio rapporto lavorativo quiescente, circostanza che non può portare alla formulazione di una domanda di pensionamento ora per allora , atteso che la mancata tempestiva richiesta di liquidazione del trattamento di quiescenza non potrebbe essere « sanata » dalla retrodatazione dell’espulsione dal servizio.

11.5. Ne consegue che, anche sotto questo aspetto, non illegittimo appare l’operato del dicastero resistente.

12. Confutati nei modi anzidetti gli addebiti mossi dal ricorrente, residua da verificare l’eventuale danno patito in conseguenza dell’azione censurata del Ministero della giustizia (terzo e sesto addebito).

12.1. Sul punto appare evidente che non sussista alcun tipo di danno, come già statuito dal Consiglio di Stato sia nella pronuncia n. 5726/20, sia in quella resa in sede di ottemperanza (263/23): in tal senso, impeccabile appare il percorso argomentativo del giudice d’appello che rilevava come, trattandosi di tardiva erogazione di somme di danaro, i profili di danno sono coperti dal ricalcolo cui sarà chiamata l’Inps. Conseguentemente, nessun danno potrebbe rivendicare il ricorrente nei confronti del Ministero della giustizia. D’altro canto la stessa domanda concerne unicamente la corresponsione delle differenze pensionistiche (interessi, perequazioni, rivalutazioni etc…), che sono di competenza dell’Inps.

12.2. Quanto all’obbligazione relativa alle spese di lite, va rammentato che essa sorge per legge alla definizione di un processo giurisdizionale: le spese, inoltre, vengono regolate all’interno del giudizio al quale ineriscono (v. art. 91 c.p.c. espressione di un principio giuridico generale). Ne consegue che è precluso a questo Tribunale procedere ad una nuova disciplina delle stesse. In aggiunta, va osservato che l’eventuale ripetizione presuppone l’indebita corresponsione delle stesse, circostanza che imporrebbe un’evidente ed inammissibile invasione del giudice amministrativo su un titolo giudiziario formato in altra giurisdizione.

12.3. Difatti, la qualificazione di « inique condanne giudiziarie » implica una valutazione sull’esito del giudizio, cui, ovviamente, non può essere chiamato questo Collegio, pena la violazione dei principî di riparto della giurisdizione.

12.4. Infine, sui danni esistenziali, appare evidente la totale assenza di allegazione e prova. Difatti, la mera attestazione del medico di medicina generale dell’assunzione di un farmaco per sindrome ansiosa-depressiva non costituisce elemento sufficiente per sostenere l’esistenza della patologia, essendo all’uopo necessaria un’apposita documentazione specialistica che accerti, alla luce di un’approfondita indagine medico-legale, gli elementi fattuali necessarî per la formulazione della diagnosi. In aggiunta, totalmente sfornito di allegazione è il nesso di causalità, essendo indimostrato che la suddetta sindrome sia da ricondurre alla condotta del Ministero e non anche alle pregresse esperienze lavorative di magistrato ovvero alle vicende penali o disciplinari.

13. L’accertata infondatezza della domanda risarcitoria determina il rigetto del ricorso.

14. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

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