TAR Cagliari, sez. I, sentenza 2010-02-05, n. 201000135
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Testo completo
N. 00135/2010 REG.SEN.
N. 01397/2002 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1397 del 2002, proposto da:
CENTRO RIABILITATIVO SANTA LUCIA di C D &C., s.a.s., in persona della legale rappresentante I D, rappresentato e difeso dall'avv. M L, con domicilio eletto presso il suo studio in Cagliari, via G. Deledda n.74;
contro
REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA - Assessorato regionale igiene e sanita' e assistenza sociale - Direttore Servizio assistenza sanitaria territoriale, non costituitasi in giudizio;
per l'annullamento
determinazione del Direttore IV Serv. dell’Assessorato regionale della sanità del 22.8.2002 recante la “REVOCA dell’AUTORIZZAZIONE all’ APERTURA e all’ESERCIZIO del CENTRO DI FISIOTERAPIA alla società S. Lucia di C D sito in Assemini via Madrid n. 21 (piano terra)”
e di ogni altro atto presupposto, consequenziale o connesso;
NONCHÉ PER LA CONDANNA
delle resistenti amministrazioni al RISARCIMENTO DEI DANNI, “da liquidarsi in separato giudizio”.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Vista la memoria difensiva;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16/12/2009 il Consigliere dott. G F e udito per la parte ricorrente l’avv. Lai;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
La società ricorrente s.a.s. Santa Lucia fu autorizzata, l’ 1/8/1997, dalla Regione Sardegna (Assessore alla sanità) ad "aprire e porre in esercizio un centro di fisioterapia in Assemini, in via Madrid n. 21" (cfr. DAIS n. 1940/22001 del 1997).
Con tale autorizzazione il centro Santa Lucia veniva abilitato ad "erogare" prestazioni di fisioterapia con oneri esclusivamente a carico degli utenti, non essendo il centro titolare (anche) di "convenzione" con la ASL territorialmente competente.
Diversa la situazione di altro Studio (D Antonio &C. s.a.s. –studio di radiologia, ecografia e fisioterapia), titolare di autorizzazione e (anche) di convenzione concernenti le prestazioni di “terapia fisica” (ma non anche di quelle di “fisioterapia”).
A seguito di ispezione svolta dai NAS di Cagliari (cfr. relazione del Comando dei carabinieri per la sanità del 18/12/2000, esaminata dall’Amministrazione regionale) risultava che il centro Santa Lucia, in realtà, svolgeva l'attività di “terapia fisica” in favore di altra società (del dott. D), la quale era convenzionata con la ASL.
I rapporti tra le due società erano in origine disciplinati da due contratti, entrambi del 29/6/1998:
-un contratto di "comodato", con durata a tempo indeterminato, con il quale la società Santa Lucia concedeva alla società s.a.s. del dottor D i locali siti al piano terra e al piano seminterrato dello stabile di via Madrid;
-un contratto di "associazione in partecipazione”, con durata dal 1°/3/1998 al 28/2/1999, con rinnovo annuale per tacito consenso salvo disdetta, tramite il quale la società Santa Lucia è stata "associata in partecipazione" dalla società di radiologia e fisioterapia del dottor D s.a.s. ai sensi dell'articolo 2549 e ss. del codice civile, con l'obbligo di apportare attività lavorativa e di servizio in favore di D in cambio di una partecipazione agli utili. In particolare (punto 2 del contratto) l'associante (D) attribuiva all'associato (S. Lucia), quale corrispettivo per i suddetti apporti, una “partecipazione agli utili” derivanti dall'attività di “fisioterapia” nella misura del 90% .
La regione ritenendo che tale intreccio societario avrebbe consentito, di fatto, al centro riabilitativo Santa Lucia di erogare surrettiziamente “prestazioni di fisioterapia e di terapia fisica” con oneri a carico del servizio sanitario regionale pur in carenza dei presupposti contemplati dalla legge, vale a dire la titolarità di una convenzione/accreditamento con la ASL competente, riteneva di dover procedere alla revoca delle autorizzazioni regionali (ambedue):
-per D revoca e chiusura del 29/4/2002 (provvedimento impugnato con il ricorso al Tar 862/2002 ed annullato con sentenza n. 128 del 28/1/2003, con accoglimento anche della domanda “generica” risarcitoria);
-per Santa Lucia revoca dell'autorizzazione all'apertura ed all'esercizio disposta con provvedimento dirigenziale del 22/8/2002 (provvedimento impugnato con il presente ricorso n. 1397/2002).
Le norme poste a base del provvedimento impugnato sono:
D.Lgs. 30.12.1992 n. 502 e ss.mm. ii.;
-art. 194 del RD 27.7.1934 n. 1265;
-LR 13.10.1998 n. 30.
Con ricorso notificato alla regione il 12-13 novembre 2002 e depositato il successivo 27/11, la società centro Santa Lucia ha impugnato il provvedimento n. 1405 /4° del 22/8/2002 di revoca dell'autorizzazione all'apertura e all'esercizio del proprio centro fisioterapico, formulando le seguenti censure:
1) difetto di motivazione - violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e 8 ter del decreto legislativo 502/1992 e ss. mm. ii. e d.p.r. 14/1/1997 - eccesso di potere per carenza di presupposti - errore di fatto e sviamento - carenza di potere;
2) eccesso di potere per illogicità manifesta, errore di fatto sui presupposti e carenza della motivazione;
3) difetto di istruttoria e di motivazione - violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e ss. del decreto legislativo 502/2002 - violazione e falsa applicazione dell'articolo 2551 del codice civile - eccesso di potere per errore di fatto e sui presupposti, violazione del DAIS 1957/1998 e della delibera della giunta regionale 26/21 del 1998;
4) violazione e falsa applicazione dell'articolo 7 della legge 241/1990 e dell'articolo 12 della legge regionale 40/1990 per difetto di comunicazione dell'avvio del procedimento - violazione del principio del giusto procedimento;
5) difetto di motivazione - eccesso di potere.
Con il ricorso non è stata presentata anche istanza cautelare.
Invece la ricorrente ha formulato, con il ricorso, una domanda risarcitoria “generica” formulata con richiesta di condanna delle amministrazioni resistenti al risarcimento del danno cagionato da provvedimento illegittimo "da liquidarsi in separato giudizio" (cfr. le conclusioni del ricorso originario).
Con successiva memoria conclusionale depositata il 4 dicembre 2009, in prossimità dell'udienza di trattazione, il difensore della ricorrente, dopo aver illustrato lo svolgimento dei fatti intervenuti (in particolare il contenzioso sorto in merito alla medesima questione sia presso la Corte dei conti sia presso il tribunale penale e la Corte di appello penale), ha richiesto al Tar, in applicazione dell'articolo 35 comma 2° del decreto legislativo 80/1998 e ss.mm., la fissazione di specifici "criteri" per la quantificazione delle somme da offrire in pagamento a titolo di risarcimento dei danni scaturiti dal provvedimento illegittimo, tenendo conto:
per "l'utile d'impresa" dei fatturati relativi agli anni 1998 (Lire 597.700.559, relativi a soli 6 mesi di attività) -1999 (Lire 1.348.048.827) e 2000 (Lire 1.667.283.585), considerati quali seri indici presuntivi del danno patito dal centro Santa Lucia per l'impossibilità di utilizzare economicamente la struttura autorizzata, con richiesta di riconoscimento del 10% delle somme lorde attribuite dall'associante in partecipazione – il 90% degli utili - (e quindi pari a Lire 107.586.100 per l'anno 1998 - Lire 121.324.394 per l'anno 1999 - Lire 150.053.722 per l'anno 2000) – nulla si dice invece relativamente al 2001 ed alla prima parte del 2002 -;in sostanza il danno patito viene quantificato, per ciascun anno successivo alla revoca dell'autorizzazione (e quindi dall'agosto 2002 fino alla pronuncia della sentenza), in una somma compresa tra lire 107.586.100 (€ 55.563) e lire 150.053.722 (€ 77.496);la correttezza della suddetta quantificazione del danno subito emergerebbe, inoltre, dall'analisi del valore di locazione della struttura che, dal 2002, non è stato più possibile utilizzare (locali di recente costruzione, arredati e attrezzati con macchinari di ultima generazione -dell'epoca-);richiamando le tabelle redatte dalla CCIAA di Cagliari relative ai prezzi di locazione degli immobili ad uso commerciale, per i locali situati in Cagliari nella zona Viale Monastir/Viale Elmas, ove risulta che il prezzo di locazione è compreso tra € 5,50 ed € 13 a metro quadro per mese;secondo la ricorrente il valore locativo dei locali (situati peraltro nella periferia di Assemini), aventi una superficie di 320 m², sarebbe quantificabile in € 49.920 annui (frutto del valore massimo di € 13 x 320 mq. x 12 mesi) tale valore dovrebbe poi essere incrementato in ragione del fatto che la struttura era modernamente attrezzata con tutti i macchinari e gli arredi necessari per l'esercizio dell'attività sanitaria, con specifica autorizzazione regionale, giungendo in tal modo a risultati sostanzialmente sovrapponibili a quelli emergenti dal 10% dell'utile (di cui al criterio precedente).
Su tutte le somme liquidate ai sensi di quanto sopra indicato la parte richiede la rivalutazione monetaria, secondo gli indici Istat, trattandosi di debito di valore, da computarsi dalla revoca/interruzione dell'attività fino al deposito della sentenza.
L'Amministrazione regionale non si è costituita in giudizio.
All'udienza del 16 dicembre 2009 il collegio ha evidenziato un possibile profilo di inammissibilità della domanda “ specifica” di risarcimento del danno, con richiesta di quantificazione delle somme (successivamente al ricorso, con memoria non notificata all'amministrazione), in considerazione del fatto che il contraddittorio costituito con l'amministrazione (con il ricorso originario) si limitava ad un "petitum" connaturato da richiesta “generica” di condanna, con quantificazione da compiersi in separato giudizio. Veniva così assegnato alla parte un termine di 20 giorni per illustrare, con memoria, tale limitato profilo (sollevato d'ufficio del Collegio).
All'udienza del 16 dicembre 2009 la causa è stata spedita in decisione.
Con memoria depositata il 17 dicembre 2009 il difensore ha approfondito l'esame dell’aspetto sollevato d’ufficio dal Collegio, con citazioni giurisprudenziali, ribadendo la richiesta di fissazione dei criteri di cui all'articolo 35 comma 2 del decreto legislativo 80/1998 o, in alternativa, di decisione di condanna risarcitoria (solo) nell' “an”, da quantificarsi in un successivo giudizio.
DIRITTO
A) DOMANDA IMPUGNATORIA
La questione sottesa dei rapporti contrattuali sussistenti fra il centro Santa Lucia (solo autorizzato), associata, e la società D (autorizzata e accreditata), associante, è stata affrontata, per i rispettivi profili, da una pluralità di giudici, con analisi della legittimità o meno dell'utilizzo dello strumento giuridico dell'associazione in partecipazione (pronunzie tutte successive all'instaurazione del presente ricorso):
-la Corte dei conti-sezione giurisdizionale regione Sardegna pronunciava l’assoluzione per lo studio D e il difetto di giurisdizione per il centro Santa Lucia (cfr. sentenza del 14/4/2004 n. 214);
- il Tribunale penale di Cagliari (per il periodo marzo 1998-giugno 2000) pronunciava l’assoluzione per D Antonio Michele, Simone, Marina e C D perché il fatto non sussiste (cfr. sentenza del 26/1/2005 n. 2612);
- la Corte d'appello penale di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, condannava D Simone, D Marina e I D Maria ad 1 anno e 2 mesi di reclusione e € 1500 di multa (per truffa aggravata e frode in contratti pubblici -640 e 356 C.P.-, con ingiusto profitto della somma complessiva di Lire 3.294.794.571 a danno della ASL 8;peraltro riconosceva l’intervenuta prescrizione fino al 27.1.2000;nonché l’estinzione per 2 imputati nel frattempo deceduti –D Antonio Michele e C D-), ;inoltre condannava gli stessi, in solido, al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita (ASL n. 8), rimettendo le parti davanti al giudice civile per la liquidazione (cfr sentenza C.A. del 10/11/2008 n. 729).
Inoltre va evidenziato che il Tar con propria sentenza n. 128 del 28/1/2003 ha accolto il ricorso 862/2002 proposto (avverso l’analogo provvedimento di chiusura 449/2002) dallo studio di radiologia, ecografia e fisioterapia di D Antonio s.a.s. (sia per la parte impugnatoria, sia per la domanda risarcitoria, con condanna “generica” dell'amministrazione al risarcimento dei danni provocati alla ricorrente dall'adozione del provvedimento annullato).
In particolare in quella sentenza si riteneva assorbente l'esame del motivo (n.6) concernente l'omessa preventiva comunicazione dell'avvio del procedimento (con assorbimento delle ulteriori censure prospettate).
In conformità e in coerenza alla pronunzia n. 128/2003 il Collegio ribadisce il medesimo orientamento, con l'accoglimento, in via prioritaria, della censura indicata al n. 4 (violazione e falsa applicazione dell'articolo 7 della legge 241/1990 e dell'articolo 12 della legge regionale e 40/1990 per difetto di comunicazione dell'avvio del procedimento - violazione del principio del giusto procedimento), con assorbimento degli ulteriori motivi.
Trattandosi, la revoca dell'autorizzazione con ordine di chiusura, di un provvedimento che incideva pesantemente sulla attività autorizzata, questo non poteva che essere soggetto all'obbligo del preavviso al fine di costituire un contraddittorio ed un diritto di partecipazione al procedimento.
Inoltre, neppure potrebbe sostenersi oggi applicabile alla fattispecie l’art. 21 octies della L. 241/1990 (inserito dall'articolo 14, comma 1, della legge 11 febbraio 2005, n. 15) che afferma che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Non trattavasi infatti di atto vincolato, né è stato dimostrato dall’Amministrazione (nemmeno costituitasi) che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso.
Anzi e proprio la differente valutazione compiuta anche da organi giurisdizionali diversi dimostra che la partecipazione dell’interessata al procedimento avrebbe ben potuto introdurre elementi di conoscenza fondamentali nella valutazione finale.
***
B) DOMANDA RISARCITORIA.
Problema più complesso si presenta con l'analisi della domanda di risarcimento dei danni.
La domanda "nasce" inequivocabilmente, con il ricorso del 2002, come domanda "generica", in quanto in quella sede veniva richiesta espressamente la condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno cagionato "da liquidarsi in separato giudizio".
Successivamente con memoria (non notificata alla Regione) depositata il 4/12/2009 la domanda assumeva contorni e consistenza di diverso spessore:
si provvedeva, in particolare, alla “quantificazione” reale del danno, con richiesta (per la prima volta) di definizione, da parte del giudice, dei criteri ai sensi dell'articolo 35 comma 2 del decreto legislativo 80/1998, alla luce delle quantificazioni dettagliate compiute (utile di impresa, valore locativo,..).
Non si arrivava cioè a formulare una richiesta di condanna dell’Amministrazione per un quantum determinato, ma in realtà lo si definiva già nello specifico (indicando l'utile d'impresa perduto per tutti gli anni di riferimento –dal 2002 al 2009-, rapportato agli utili degli anni 1998,1999 e 2000, nonché il valore locativo dell'immobile, con macchinari ed arredi, sempre dal 2002) al fine di sorreggere la richiesta dei criteri ex articolo 35 e al fine di definirne, in sostanza, il loro contenuto.
La giurisprudenza sul punto si diversifica, in quanto:
- innanzitutto non è chiara nemmeno l’utilizzabilità dello strumento giuridico della "condanna generica" ex articolo 278 c.p.c., tanto da essere stata necessaria la rimessione all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato da parte della VI sezione con ordinanza 2/2/2009 n. 546, in particolare in riferimento alla possibilità o meno di procedere per il giudice (in caso di domanda di condanna generica formulata dall’attore) attivando comunque il meccanismo di cui all'articolo 35 comma 2 del decreto legislativo n. 80/1998;
- alcune pronunzie, sia civili che amministrative, hanno ritenuto poi non ammissibile la “trasformazione” in corso di causa perfino da condanna "specifica" a condanna "generica", stante il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (cfr. Cass. Civ. III 15.3.2007 n. 5997;CS IV 22.6.2006 n. 3885;CS IV 17 settembre 2004 n. 6056;CS. IV 20 dicembre 2002 n. 7260);
- alcune pronunzie dell’organo d’appello amministrativo si sono espresse in senso assolutamente negativo rispetto all’ammissibilità nel processo amministrativo della condanna “generica” ex art. 278 c.p.c. (cfr. Cons. Stato, V, n. 2967 13.6.08;IV, n. 942 del 2.3.2004;secondo quest’ultima, in particolare, “la l. 21 luglio 2000 n. 205 non ha introdotto nel giudizio amministrativo –sia di legittimità, sia di merito, sia di giurisdizione esclusiva- l'azione di condanna <generica>prevista nell'art. 278, c.p.c.” e neppure vi è una norma che ne consenta l’applicazione per rinvio);
-una pronuncia del Tar del Lazio del 2007 ritiene, poi, che in caso di domanda formulata nel ricorso introduttivo in modo “generico” e con la precisazione che la quantificazione del dovuto sarebbe stata effettuata in corso di causa, la successiva memoria contenente la quantificazione del danno se non notificata alle controparti viola il principio del contraddittorio, rendendo inammissibile la domanda di risarcimento danni formulata (cfr. Tar Lazio, III 29 ottobre 2007 n. 10541).
In sostanza, in estrema sintesi, per la giurisprudenza civile, si può affermare il principio che la proposizione della domanda di liquidazione del danno, in sostituzione di quella di condanna generica, si traduce in una "mutatio libelli" (Cass. III 1 ottobre 1998 n. 9760) la cui inammissibilità può essere rilevata d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento, anche quando sia avvenuta nel corso del giudizio di primo grado (Cass. Sez. U 22 maggio 1996 e n. 4712;Cass. Sez. I 16 novembre 1998 n. 11.508), non potendo equipararsi ad accettazione del contraddittorio il mero silenzio della controparte (Cass. Sez. II 15 maggio 2000 n. 6238;Cass. I 12 luglio 2000 n. 9273) –e tanto più lo sarebbe nel nostro caso ove l'amministrazione è rimasta contumace- (il principio è stato complessivamente affermato da Cass. Civ. I 25 gennaio 2001, n. 1057).
Si tratta a questo punto di definire come "gioca", nella peculiarità del giudizio amministrativo, la domanda di individuazione dei criteri ex articolo 35 2° comma del D.Lgs. n. 80 del 31.3.1998 (qui formulata per la prima volta con memoria non notificata);in particolare se tale richiesta debba essere "inquadrata" nell'ambito della richiesta risarcitoria “generica” oppure se tale domanda definisca, in senso proprio, una domanda risarcitoria “specifica”, inerendo a “criteri di quantificazione”.
La norma (sostituita dall'articolo 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205) così dispone:
“ Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.
Nei casi previsti dal comma 1°, il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall'articolo 27, primo comma, numero 4) , del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, può essere chiesta la determinazione della somma dovuta.
Il giudice amministrativo, nelle controversie di cui al comma 1, può disporre l'assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d'ufficio, esclusi l'interrogatorio formale e il giuramento. L'assunzione dei mezzi di prova e l'espletamento della consulenza tecnica d'ufficio sono disciplinati, ove occorra, nel regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, tenendo conto della specificità del processo amministrativo in relazione alle esigenze di celerità e concentrazione del giudizio.
Il primo periodo del terzo comma dell'art. 7 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, è sostituito dal seguente: "Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.”
Sono abrogati l'articolo 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, e ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi”.
Come si è già indicato, il Consiglio di Stato (si veda in particolare Consiglio di stato, sez. IV, 2 marzo 2004 , n. 942) ha precisato, in modo estremamente approfondito, alcuni punti, che così si possono sintetizzare e che questo Collegio ritiene di condividere:
non è stata introdotta con la L. 205/2000 l’azione di condanna generica prevista dall'art. 278 c.p.c.;
manca una previsione espressa legislativa che estenda l'applicabilità di istituti tipici del processo civile a quello amministrativo (cfr. in tema di azioni possessorie, Cass. sez. un., 6 giugno 2003, n. 9139;Cons. Stato, sez. IV, ord., 4 febbraio 2003, n. 431;28 agosto 2001, n. 4826;in tema di inapplicabilità degli artt. 669 bis c.p.c. e 633 c.p.c. sempre al giudizio amministrativo ante riforma ex lege n. 205 del 2000, Cons. Stato, sez. V, ord., 28 aprile 1998, n. 781;Corte cost., ord. 10 maggio 2002, n. 179, in relazione all’assenza nel processo amministrativo della tutela cautelare ante causam ex art. 700 cpc., ha negato al contempo l'applicabilità di altri istituti propri del processo civile in assenza di norme che ne affidino la cognizione ad altro giudice);
neppure è possibile ritenere che l'art. 35, secondo comma, abbia introdotto ex se una speciale azione di condanna “generica” nel processo amministrativo, in quanto la disposizione in esame non individua una ipotesi speciale di azione di condanna generica al risarcimento del danno da proporsi davanti al giudice amministrativo, limitata al solo “an debeatur”, prevedendo invece, in via alternativa la scelta del giudice in ordine a: a) una condanna "tradizionale" sia sull'an che sul quantum, con specifica ed analitica quantificazione del risarcimento;b) una condanna sull'an e quantum, che si limiti per il quantum all'individuazione dei soli criteri di determinazione;
esigenze di immediatezza e concentrazione di tutela, connaturate al processo amministrativo, anche a salvaguardia degli interessi pubblici coinvolti, comunque intrecciati a interessi legittimi e diritti soggettivi, spingono ad escludere soluzioni ermeneutiche dilatorie, contrastanti, peraltro, con il canone costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.);
l’ interpretazione (che esclude l’ammissibilità di condanna generica) sarebbe coerente con le esigenze di celerità sottese al processo amministrativo in considerazione del rilievo pubblicistico degli interessi in gioco, esigenze, vieppiù esaltate dalla recente riforma introdotta dalla l. n. 205\2000, che richiedono un quadro di certezza in ordine all'esercizio dell'azione amministrativa (cfr. CS sez. IV, 25 gennaio 2002, n. 396);diversamente opinando, si obbligherebbe il vincitore alla via crucis della proposizione di un ulteriore processo (articolato sui consueti due gradi di giudizio), per ottenere la definizione del “quantum” debeatur;
inoltre, l'inammissibilità della domanda risarcitoria –in sede di ottemperanza- varrebbe solo nel caso in cui essa concerna anche l' “an” del risarcimento;se invece essa concerne il solo “quantum”, allora la domanda dovrebbe ritenersi ammissibile (cfr. CS sez. IV, n. 396 del 2001).
In applicazione di tali principi la domanda risarcitoria qui proposta va qualificata ammissibile, in quanto la peculiarietà dell’azione risarcitoria nell’ambito del giudizio amministrativo impone che la condanna debba necessariamente accompagnarsi alla valutazione concreta del quantum (o in termini diretti, in base alla situazione documentata e provata;o tramite lo strumento “intermedio”, ma pur sempre di quantificazione, dell’individuazione dei criteri per definire il quantum dovuto).
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Per quanto concerne, poi, il profilo soggettivo (ai fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della Pubblica amministrazione) il Consiglio Stato , sez. V, 12 giugno 2009 , n. 3750 non ritiene sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma richiede necessariamente che sia configurabile anche la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa.
Occorre quindi verificare, in sede di accertamento della responsabilità della Pubblica amministrazione per danno a privati conseguenti ad un atto illegittimo, che l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede;il giudice amministrativo può, cioè, affermare la responsabilità quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato e negandola quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell' “errore scusabile” per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.
Nel caso di specie, sebbene possa riconoscersi un margine oggettivo di incertezza in ordine all’utilizzo dello strumento contrattuale dell’associazione in partecipazione per l’effettuazione di prestazioni accreditate (tanto che il giudice penale di appello ha ritenuto – contrariamente al giudice monocratico penale di primo grado e alla Corte dei conti - di condannare D Simone, D Marina, I D, nel 2008), va ulteriormente considerato che in una causa “gemella” (ancorchè non identica, stante la diversa posizione sottostante) al Tar (ricorso 862/2002) l’Amministrazione regionale (anche in quel caso non costituita in giudizio) fin dal gennaio 2003 era a piena conoscenza della sentenza di accoglimento (prettamente procedimentale) pronunziata nella causa collegata D (sentenza n. 128/2003). La Regione avrebbe potuto provvedere in autotutela (rivalutando la situazione, eventualmente, rinnovando il procedimento in caso di insistenza), quanto meno per limitare la materia del contendere e la riduzione del danno in capo agli interessati. Specie in considerazione del fatto che trattavasi di “sanzione atipica” in relazione alla condotta del Centro S. Lucia e, comunque, non avrebbe potuto coinvolgere anche le prestazioni autorizzate (a pagamento da parte degli utenti) e non accreditate.
Lo strumento che avrebbe potuto essere adottato, in caso di ritenuta inapplicabilità del contratto dell’associazione in partecipazione per prestazioni accreditate, avrebbe potuto essere –da parte delle Amministrazioni, in particolare dall’ASL competente- l’eventuale mancato pagamento delle relative somme all’accreditato (D), ma in ogni caso previa idonea contestazione, ma non anche la chiusura a tempo indeterminato del centro autorizzato (per prestazioni non accreditate) S. Lucia.
L’art. 193, ult. comma e seconda parte, del RD 27/07/1934 n. 1265 (per gli ambulatori e i gabinetti di analisi) ammette la sanzione della chiusura fino a tre mesi in caso di violazioni compiute da strutture “autorizzate” (la sanzione della chiusura totale è riservata ai casi di strutture non autorizzate, ult. comma prima parte). L’art. successivo 194 (richiamato nel provvedimento impugnato) si riferisce a strutture (peraltro diverse) e contempla la (sola) sanzione totale di chiusura in caso di “assenza” di autorizzazione.
Inoltre, va evidenziato l’ulteriore aspetto che dopo le assoluzioni della Corte dei conti e del giudice penale di primo grado il Centro S. Lucia ed il suo difensore hanno richiesto, in più occasioni (10.1.2005, 8.6.2006, 24.1.2007) una rivalutazione della situazione, formulando specifiche istanze di “autotuela”.
La Regione, dal canto suo, con nota del Servizio Assistenza del 17.10.2005 prot. 35786/3 comunicava unicamente di essere in attesa della definizione del presente procedimento (cont. TAR 1397/2002), senza considerare in alcun modo la già emessa sentenza nella causa gemella (sent. 128/2003) di annullamento del provvedimento a carico dello studio D. Mentre la successiva nota del 10.7.2006 del medesimo servizio regionale prot. N. 22849/3, sostenendo la tesi della necessità di “nuova” autorizzazione, rinviava ad un sopralluogo tecnico da compiersi appena possibile (?) per l’accertamento del possesso dei requisiti minimi richiesti dalla vigente normativa (concetto, poi, ribadito anche nella successiva nota del 5.12.2006).
In ogni caso come il Consiglio di Stato ha recentemente affermato “in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell'Amministrazione l'onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile per contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione della norma, per la complessità del fatto ovvero per l'influenza di altri soggetti” (cfr. Consiglio Stato , sez. V, 20 luglio 2009 , n. 4527);analogo orientamento è stato ribadito anche recentissimamente da C.S., VI , 11 gennaio 2010 n. 14: “il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile;spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.”
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Si segnala, inoltre, che una fattispecie analoga di richiesta risarcitoria per illegittima chiusura di strutture accreditate (annullamento per incompetenza a seguito della rilevata incompatibilità del medico) è stata esaminata, favorevolmente, dal TAR Puglia – Lecce con la approfondita sentenza della sez. II, 3 aprile 2007 , n. 1492 (con la peculiarità che, in quel caso, il parametro di quantificazione del danno poteva prendere come riferimento anche l’ulteriore dato del budget poi assegnato in sede di riapertura dei centri);anche in quel caso trattavasi di prestazioni “non eseguite”. Peraltro va evidenziato che, in quella fattispecie, annullato il provvedimento di chiusura, le prestazioni erano inequivocabilmente lecite e legittime (in quanto svolte da un centro accreditato), mentre nel nostro caso il giudice penale ha valutato i rapporti in modo radicalmente diverso –e di ciò non si può non prenderne atto, stante il passaggio in giudicato della decisione-, specie in considerazione della rilevata insussistenza di influenza (in termini di responsabilità e controllo) da parte del titolare del centro accreditato e del suo direttore sull’attività del centro esecutore (cfr. motivazioni della sentenza di appello).
Ciò non toglie, peraltro, valore all’insorgenza di un danno in capo al Centro esecutore per aver dovuto subìre in modo non legittimo la chiusura del proprio centro, con revoca regionale dell’autorizzazione (oltretutto anche per prestazioni non accreditate), senza la preventiva contestazione/avviso.
La considerazione che il Centro non abbia avuto alcun preavviso in ordine al procedimento intrapreso (di revoca all’autorizzazione) e/o una contestazione preventiva e/o sanzione provvisoria a termine in ordine alla ritenuta non legittimità dell’attività esercitata (tramite il contratto di associazione in partecipazione) non ha consentito all’interessato di controdedurre, ma soprattutto non ha consentito di porre in discussione eventuali “rimedi” per consentire la collaborazione fra le società (che non poteva essere esclusa a priori), pur nel doveroso rispetto dei principi di responsabilità e controllo (nella gestione, nell’organizzazione e nelle modalità di esecuzione delle prestazioni) da parte del soggetto accreditato (e del suo direttore sanitario), unico soggetto titolare del rapporto con la ASL e percettore dei relativi compensi.
Il Collegio sulla base dei suddetti principi ritiene, quindi, di poter accogliere la domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente, con determinazione dei seguenti criteri:
l’attività che è stata impedita al Centro S. Lucia, con l’emissione del provvedimento di revoca dell’autorizzazione, dovrà essere valutata annualmente sulla base della “media dei fatturati dell’ultimo triennio” rispetto alla data della disposta chiusura (cioè secondo i dati emergenti dai bilanci 1999, 2000, 2001 e 2002), nei cui bilanci dovrebbe essere confluito il 90% degli utili (del fatturato derivante dall’attività di “fisioterapia”) derivanti dalla collaborazione con lo studio D;
il risarcimento dovrà essere computato e commisurato all’ “utile di impresa” che risulta dai medesimi bilanci , rapportato agli anni di reale inattività;
al “quantum” annuale così definito dovrà essere apposta una decurtazione del 30%, in quanto l’omessa esplicazione dell’attività non può comportare l’automatico identico riconoscimento economico (potenziale), in quanto va comunque considerato il sussistente rischio di impresa;
spetta poi la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valore, sulle somme quantificate fino alla data di pubblicazione della sentenza.
In ordine a spese ed onorari di giudizio la condanna segue la soccombenza, come da liquidazione in dispositivo.