TAR Roma, sez. 2Q, sentenza breve 2018-11-14, n. 201811007

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 2Q, sentenza breve 2018-11-14, n. 201811007
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201811007
Data del deposito : 14 novembre 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 14/11/2018

N. 11007/2018 REG.PROV.COLL.

N. 08013/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 8013 del 2018, proposto da
Imago Company S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato M F, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

- del provvedimento di cui alla nota prot. n. 145/113241 del 13.06.2018, successivamente conosciuto, recante il “nulla osta di proiezione in pubblico” nella parte in cui il M.B.A.C.T. ha posto il “divieto di visione ai minori degli anni diciotto”;

- del parere espresso dalla Commissione di revisione di II grado richiamato nel provvedimento;

- del decreto ministeriale del 28.05.2018, ivi richiamato;

- ove e per quanto occorra, del provvedimento di cui alla nota prot. n. 96/113241 del 30.04.2018, successivamente conosciuto, recante il “nulla osta di proiezione in pubblico” nella parte in cui il M.B.A.C.T. ha posto il “divieto di visione ai minori degli anni diciotto”;

- del parere espresso dalla Commissione di revisione di I grado;
del decreto del 17.04.2018;
del provvedimento di cui alla nota prot. n. 82/113170 del 13.04.2018, del parere espresso dalla Commissione di revisione di I grado richiamato nel provvedimento;

- del decreto del 3.04.2018;

nonché per la declaratoria, in sede di giurisdizione di merito ai sensi dell'art. 8 della L. n. 161/1962

del diritto della ricorrente di proiezione in pubblico del film in oggetto in assenza di qualsivoglia divieto per i minori e/o, tutt'al più, col solo divieto di visione ai minori degli anni 14.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 30 ottobre 2018 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;


Con il ricorso in esame la società di distribuzione ricorrente ha impugnato il decreto ministeriale del 28.05.2018, di cui alla nota prot. n. 145/113241 del 13.06.2018, con cui il M.B.A.C.T. ha posto il “divieto di visione ai minori degli anni diciotto”, nonché, quali atti presupposti, il parere espresso dalla Commissione di revisione di II grado, il parere espresso dalla Commissione di revisione di I grado, chiedendo, previo annullamento degli atti impugnati, la declaratoria, in sede di giurisdizione di merito ai sensi dell’art. 8 della L. n. 161/1962, del diritto della ricorrente di proiezione in pubblico del film in oggetto in assenza di qualsivoglia divieto per i minori o, tutt’al più, col solo divieto di visione ai minori degli anni 14.

La ricorrente contesta le valutazioni delle predette Commissioni ritenendole non corrispondenti alla “natura documentaristica” del film “avente ad oggetto la liberazione sessuale in relazione al rapporto dell’uomo con la sessualità ed il corpo femminile”.

La ricorrente espone che la Commissione di revisione di I grado aveva espresso il proprio “parere favorevole al rilascio del nulla osta per la proiezione in pubblico con il divieto di visione ai minori degli anni diciotto” ritenendo che “... le ripetute scene di sesso spinto, che peraltro penalizzano in maniera pressoché inaccettabile il rapporto uomo – donna, rendono assolutamente improponibile la visione ai minori di anni diciotto”.

Tale avviso non era stato superato nemmeno a seguito del taglio di alcune scene (per cui la durata del film è stata ridotta da 100 minuti a 77 minuti ed alcuni dettagli corporei sono stati sfumati) nella versione depositata per la revisione con la seconda istanza, dato che con nota prot. n. 96/113241 del 30.04.2018, il Ministero ha confermato il “divieto di visione ai minori degli anni diciotto”.

La Commissione di revisione di I grado, infatti, “sentito l’interessato”, ha ritenuto, anche alla luce di n. 17 tagli apportati, di confermare il divieto di visione ai minori “in quanto appaiono immagini complessivamente finalizzate ad esaltare il desiderio sessuale, cui si accompagna una evidente mercificazione del corpo femminile”.

Avverso tale giudizio valutativo la ricorrente ha presentato ricorso alla Commissione di revisione di II grado, incentrato sulla presentazione del film “come il seguito e la continuazione di un discorso sulla liberazione sessuale e sul rapporto dell’uomo con la sessualità ed il corpo femminile iniziato nel 1975 del medesimo regista Jean-Francois Davy”, per cui, “ben lungi dall’avere un contenuto pornografico o anche solo indirettamente portatore di messaggi finalizzati all’esaltazione del desiderio sessuale, è invece un’opera di tipo didascalico documentaristico” , che “tralascia del tutto il tentativo di generare quel fenomeno di immedesimazione che è quel prerequisito per l’eccitazione sessuale”;
“quanto all’argomento della mercificazione del corpo femminile”,
la ricorrente rappresentava che “questo sembra attenere alla tematica del film più che a singole scene o immagini, scene e immagini che ritraggono sempre adulti consenzienti impegnati in dialoghi, corteggiamenti e rapporti accennati e non del tutto disvelati e dove il mercimonio se forse intuibile non è comunque mostrato”; infine precisava che “la tematica del film, in questo caso poi solo intuita e mai dichiarata apertamente, non rientra tra le ragioni che possono essere indicate come cause di divieto;
ciò a norma del DPR 11/11/1963 n. 2029 ... che all’art. 9 elenca in modo chiaro gli elementi scenico/narrativi che possono determinare l’applicazione del divieto di visione ai minori”.
Inoltre, a supporto della propria richiesta, la ricorrente lamentava la disparità di trattamento, con altri film (tra gli altri, “Exibition”) di natura pressoché identica, che invece aveva conseguito il nulla osta con la sola limitazione ai minori di anni 14 e non 18.

La Commissione di secondo grado ha tuttavia confermato il divieto relativo al film in contestazione ritenendo che “al di là della riconduzione al generale documentario come proposta dalla produzione, deve essere considerato come una rappresentazione dal contenuto pornografico;
e ciò non solo per la incessante continua proposizione di scene di sesso ma anche per il contenuto complessivo esposto nella narrazione che accompagna quelle scene dalle considerazioni svolte dall’autore a commento delle stesse, dall’immagine della donna che, ben oltre all’apparente funzione di ispiratrice del genere letterario – cinematografico erotico finisce per costituire un mero oggetto della rappresentazione priva di ogni ruolo che non sia riconducibile alla sola idea di mercificazione, sconfinando in una pratica vuoyeristica”
.

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi: 1) violazione di legge (art. 2 e ss. della l. n. 241/1990artt. 6 e 7 della l. n. 161/1962 e 9 del d.p.r. n. 2029/1963) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità manifesta).

In sostanza la ricorrente contesta le conclusioni delle Commissioni in parola, dato che sono state eleminate le scene con passaggio di denaro, le scene di nudo sono state “blurrate”, la natura del film è documentaristica e non pornografica, non è ravvisabile alcuna violazione alle regole del buon costume di cui all’art. 21 Cost..

2) violazione di legge (art. 2 e ss. l. n. 241/1990artt. 6 e 7 della l. n. 161/1962 e 9 del d.p.r. 2029/1963) - violazione del giusto procedimento - eccesso di potere (disparità di trattamento - difetto assoluto di istruttoria - del presupposto – sviamento - erroneità- perplessità).

La ricorrente lamenta l’ingiustificata discriminazione perpetrata rispetto al film “Exhibition”, che pur presentando un oggetto del tutto analogo ha ottenuto dalla Commissione di primo grado il nulla osta alla proiezione in pubblico con la sola limitazione ai minori di 14 anni.

3) violazione di legge - (art. 10 bis l. n. 241/90) – violazione del giusto procedimento – eccesso di potere – (difetto assoluto del presupposto – di istruttoria – erroneità – sviamento).

La ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 bis della L. n. 241/1990 rappresentando che il rispetto del prescritto iter procedurale avrebbe sicuramente consentito, attraverso la partecipazione del destinatario del provvedimento finale una esatta valutazione delle vicenda, dato che nel ricorso depositato presso la Commissione di revisione di 2° grado s’era resa “disponibile ad effettuare i tagli che la Commissione di 2° grado vorrà ritenere necessari ai fini dell’annullamento del divieto di visione”.

4) violazione di legge (art. 2 e ss. l. n. 241/1990artt. 6 e 7 della l. n. 161/1962 e 9 del d.p.r. 2029/1963) - violazione del giusto procedimento - eccesso di potere (disparità di trattamento - difetto assoluto di istruttoria - del presupposto – sviamento - erroneità- perplessità).

Nel merito contesta i pareri vincolanti espressi dalle Commissioni di revisione di I e II grado, che s’erano pronunciate rispettivamente nel senso che “le ripetute scene di sesso spinto, che peraltro penalizzano in maniera pressoché inaccettabile il rapporto uomo-donna, rendono assolutamente improponibile le visione ai minori di anni diciotto” (Commissione di primo grado) e che “al di là della riconduzione al genere documentario come proposta dalla produzione, deve essere considerato come una rappresentazione dal contenuto pornografico;
e ciò non solo per la incessante continua proposizione di scene di sesso ma anche per il contenuto complessivo esposto nella narrazione che accompagna quelle scene dalle considerazioni svolte dall’autore a commento delle stesse, dall’immagine della donna che, ben oltre all’apparente funzione di ispiratrice del genere letterario – cinematografico erotico finisce per costituire un mero oggetto della rappresentazione priva di ogni ruolo che non sia riconducibile alla sola idea di mercificazione, sconfinando in una pratica voyeristica”
(Commissione di secondo grado).

La ricorrente lamenta l’errore di apprezzamento della Commissione che non avrebbe nemmeno tenuto conto delle modifiche introdotte soprarichiamate, della possibilità di ricondurre il film “al genere documentario” , né dell’evoluzione dell’attuale “sensibilità dell’età evolutiva ed alle esigenze della sua tutela morale”.

Con ordinanza n. 8801/2018 è stato richiesto il deposito della copia del film visionata dalla Commissione in sede di revisione (cioè quella visionata per ultima, con i tagli apportati dal ricorrente).

Alla camera di consiglio del 30.10.2018 la causa è stata trattenuta in decisione ai sensi dell’art. 60 c.p.a. (previo rituale avviso ai procuratori delle parti presenti, che nulla hanno obiettato al riguardo).

Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere respinto.

Giova ricordare la particolare natura, il carattere e la funzione del controllo dei giudizi valutativi in esame, che comportano un rimodellamento della tipologia del sindacato tradizionale sotto forma del “giudizio di legittimità”, trattandosi di una delle rare e tassative ipotesi di giurisdizione di merito.

Va innanzitutto precisato, per quanto riguarda l’oggetto della valutazione, che non concerne il “pregio artistico” dell'opera cinematografica (che rileva, invece, a diversi fini, per le controversie sul riconoscimento del carattere culturale del film o per l’attribuzione del premio di qualità, che rientrano nella giurisdizione di legittimità), bensì la valutazione del diverso profilo degli effetti della visione dello stesso sugli spettatori che, in ragione della fase di maturazione, non sono in grado di tollerare, senza problemi, i sentimenti negativi suscitati dalla rappresentazione di scene violente, sconce etc., ovvero non sono in grado di discernere la negatività di alcuni modelli di comportamento proposte;
ed è solo sulla base delle conseguenze psicologiche e di formazione morale dei giovani che deve essere assunta la decisione se autorizzare o meno la proiezione nelle sale cinematografiche del prodotto filmico, da parte delle Commissioni, in prima e seconda istanza, e, in caso di ricorso, da parte del TAR e del Consiglio di Stato che, in tale materia, esercitano una giurisdizione di merito.

Non è stata mai messa in discussione dalla giurisprudenza l’inequivoca scelta, in tal senso, del legislatore, essendo anche di recente stato ribadito che il giudice amministrativo conosce delle controversie concernenti i provvedimenti di nulla osta alla proiezione in pubblico dei film (ai sensi dell'art. 8, comma ultimo, l. 21 aprile 1962 n. 161), con giurisdizione estesa al merito e potendo anche emanare un provvedimento diverso da quello adottato dal Ministero, può valutare diversamente i fatti esaminati da questo e pervenire, sulla scorta di considerazioni diverse, alla medesima conclusione cui è giunta l'autorità amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV 10/12/1991, n. 1086).

Si tratta di un punto fermo del nostro sistema di giustizia amministrativa, tanto che il controllo giurisdizionale, secondo il modello della giurisdizione di merito configurato dall’art. 8 della legge n. 161/1962, è stato confermato dall'art. 134, lett. e), del codice del processo amministrativo e resta in vigore fino all’adozione del regolamento di funzionamento delle Commissioni di cui all’art. 3 co. 6 del d.lgs. n. 203/2017 ai sensi dell’art. 13 dello stesso decreto legislativo.

A differenza, pertanto, di analoghe valutazioni, finalizzate sempre alla tutela dei minori, da parte di Autorità diverse, che sono soggette invece al consueto sindacato “debole”, secondo il modello classico del controllo di ragionevolezza sull’esercizio della “discrezionalità tecnica” della PA, come nel caso delle sanzioni pecuniarie irrogate ad emittenti televisive dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni per la violazione dell'art. 15, comma 11, L. 223/90, come trasfuso nell'art. 34, comma 1, D.Lgs. 177/2005, in cui la giurisdizione di merito del giudice amministrativo concerne solo il quantum della sanzione pecuniaria irrogata, ma non si estende alla valutazione dei presupposti relativi alla natura e qualità dell’opera trasmessa (vedi, tra tante, TAR LAZIO, sez. III ter, n. 11748/17, nel senso che le valutazioni sul contenuto delle "scene problematiche" e sulla lesività per i minori di una singola scena effettuate dall'Agcom rientrano nella discrezionalità di tale Autorità e non sono sindacabili in sede giurisdizionale se non entro i consueti limiti della manifesta irragionevolezza e del travisamento dei fatti;
vedi, da ultimo, per l’applicazione del canone di proporzionalità in materia di tali sanzioni T.A.R. Lazio, sez. III, n. 2230/2018).

L’ampiezza dei “poteri” attribuiti al giudice in tale materia di giurisdizione esclusiva si riflette anche sulla disciplina dell’attività istruttoria, in relazione alla quale si è affermata la necessità, sin dalle prime decisioni intervenute sul punto, della visione della copia del film depositata presso il Ministero, al fine di stabilire la “idoneità” ad un pubblico di minori (vedi, in tal senso, già Consiglio di Stato, Sez. IV, 8 giugno 1966 n. 497, sul divieto di visione ai minori di 18 anni del film “Io la conoscevo bene”, nonché 28 luglio 1966 n. 589, da ultimo, Cons. St., sez. VI, ordinanza 16 giugno 2016, n. 2656 ha disposto l’acquisizione della versione originale del film, che i giudici di primo grado avevano visionato solo nella versione disponibile sui siti internet).

La normativa in materia attribuisce al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione di merito, il compito di controllare le valutazioni espresse dal Comitato facendo applicazione di criteri relativi alle esigenze riconducibili alla “particolare sensibilità dell'età evolutiva” ed alla sua “tutela morale”. Non si tratta di un’endiadi, ma di due concetti distinti, desunti dall’ambito delle scienze umane, ed in particolare dalla psicopedagogia dell’età evolutiva, quello che impone di avere riguardo all’impatto della visione del film sulla sensibilità di giovani ancora in età di formazione per evitare danni psicologici (ed è solo per la revisione di tale giudizio che il giudice può, ma non è obbligato, avvalersi di periti, come chiarito da Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 583/1998 e n. 139/1996);
ma esso non coincide e non esaurisce le valutazioni demandate alla Commissione, non assorbendo il criterio di giudizio della “tutela della morale” – che nella materia in esame corrisponde a quello della morale della società attuale (quest’ultimo riservato al solo giudice amministrativo, in quanto interprete dei valori del momento e non delegabile dallo stesso a “consulenti esterni” - come chiarito già dai primi commentatori osservando che “il buon costume costituisce un concetto il cui “contenuto” è determinato non da un bilanciamento fra interessi e neppure dall'applicazione di un sapere specialistico, bensì unicamente dal sentimento sociale e dalla sua variabilità nel tempo, di cui il giudice costituisce l'arbitro insindacabile”, nel senso che “ad esso è demandato il compito di farsi interprete di tali valori, espressi dalla società: non spetta né all’amministrazione, né al giudice sostituirli con valori propri” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.9.1988 n. 773, nel senso che la valutazione di compatibilità di un film con il buon costume non è riconducibile “all’effettuazione di scelte stricto sensu amministrative, bensì … all’individuazione di fattispecie che, considerate concretamente e in relazione alla realtà di una dato momento storico”, debbano essere ritenute in contrasto con la morale comune. In tale prospettiva non vale in senso contrario invocare l’orientamento apparentemente divergente espresso in un unico precedente, reso su un caso, del tutto eccezionale, in cui la valutazione dell’idoneità di una “rielaborazione in chiave moderna” della favola di “Hansel e Gretel”, ha indotto il giudice d’appello, proprio per la difficoltà di individuare, nello specifico caso in esame, un criterio di giudizio sufficientemente condiviso, a ripiegare su una sentenza di annullamento con “rinvio” alle Commissioni per un approfondimento (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4250/2016 che ha accolto il ricorso, annullando la sentenza T.A.R. Lazio Sez. II quater , n. 853/2015, facendo riferimento all’istituto del remand - ispirato ad un “dialogo tra giudice ed amministrazione” - remand che peraltro è rimasto sostanzialmente ineseguito, con conseguente annullamento, da parte di questa Sezione, dell’atto meramente confermativo: vedi, TAR Lazio, sez. II quater , n. 8821/2017).

In tale prospettiva, il Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.4.1998 n. 583 ha chiarito che il giudice amministrativo è chiamato “a pronunziarsi con la sensibilità media del bonus pater familias” e basarsi sul “comune sentire”, per cui è stato ritenuto legittimo il divieto di visione del film “Arancia Meccanica” ai minori di 18 anni, in considerazione del «totale contrasto con i doveri minimi di solidarietà di qualsiasi cittadino» e l'impossibilità di ricondurre talune scene del film al mondo famigliare per gli adolescenti «alla stregua del sentire comune» (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.4.1998 n. 584, che conferma il divieto ai minori degli anni quattordici del film "Ritorno dal nulla", in cui ricorrono frequenti scene riguardanti l'uso di sostanze stupefacenti). Il concetto è stato ulteriormente precisato da Consiglio di stato, sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 1005, in cui viene operata la fondamentale distinzione tra “i parametri di giudizio basati sulla cultura e sulla morale dell'uomo medio che assiste alla proiezione nelle sale cinematografiche e sulla sua capacità di filtrare i messaggi che gli vengono inviati dalle immagini e dalla scene cui egli assiste” e la diversa capacità dei “critici dello spettacolo”, che possono ben addivenire ad un diverso apprezzamento della stessa opera cinematografica, in ragione del “più elevato grado di cultura e senso critico delle persone appartenenti al mondo dello spettacolo e dell'arte, come lo sono i critici che hanno valutato il film positivamente o gli spettatori che hanno assistito alla sua proiezione nelle manifestazioni e ne hanno tratto giudizi favorevoli” ).

La dottrina ha analizzato il ruolo del giudice amministrativo in questa materia, concentrando l’attenzione, in particolare, sul riferimento al concetto di “buon costume” – che consente non solo di limitare la visione a determinate fasce di età di utenti, ma addirittura di vietare la proiezione in pubblico delle opere ritenute ad esso contraria – precisando, anche in tempi recenti, che tale concetto “si fonda essenzialmente sul sentimento morale (che si ritiene che sia) diffuso nella popolazione e sulla capacità (anche questa, ovviamente, come giudicata dall'autorità pubblica competente) di un ipotetico uomo medio di accettare con relativa tranquillità l'impatto di determinate rappresentazioni: è quindi, per definizione, un parametro valutativo dotato della massima flessibilità, capace di evolversi (quasi per accumulazione) nel tempo, ma la cui applicazione non richiede conoscenze tecnico-specialistiche”.

Si tratta pertanto di un’operazione interpretativa, non creativa, con cui il giudice è chiamato a rinvenire il canone di giudizio dal comune sentimento sociale del suo tempo secondo il criterio del buon pater familias , facendosi interprete dei valori espressi dal corpo sociale. In particolare è stato chiarito il proprium della giurisdizione di merito nel settore in esame, che si caratterizza proprio perché l’oggetto ed il criterio di valutazione sono profondamente diversi da quelli tipici del giudizio di legittimità sull’atto amministrativo evidenziando che nel giudizio sul nulla osta alla proiezione dei film le valutazioni delle Commissioni sono analoghe a quelle dei giudici: “quel che cambia è solo la composizione materiale dei collegi giudicanti, non il metro del giudizio” .

Ovviamente il criterio “morale” su cui si basa l'art. 9 del D.P.R 11 novembre 1963, n. 2029 non può essere “declassato” a quello meramente “statistico” dei costumi più diffusi in determinati momenti storici, ma va individuato sulla base della “accettabilità” secondo “il criterio normale dell’uomo di media cultura e di sani principi” – alla stregua dei valori espressi dal corpo sociale - dei comportamenti rappresentati come “modello” nel film esaminato.

Tali considerazioni sul delicato compito del giudice amministrativo, formulati - già dai primi commentatori, e recepiti da risalente e consolidata giurisprudenza – all’inizio degli anni ’60 valgono a maggior ragione nell’attuale momento storico, in cui l’evoluzione della società, pluralistica e multietnica, è caratterizzata dal confronto tra due diversi modelli – altrettanto estremizzati - di morale (iconoclasticamente rappresentati dal chador da una parte e dall’esibizione della nudità in funzione provocatoria e dalla mitizzazione della disinibizione e della trasgressione nei comportamenti pubblici e privati dall’altra) che ingenerano conflitti tra i gruppi sociali ed intergenerazionali e che spingono per una ricerca di un punto minimo di equilibrio, che sia accettabile da entrambe le parti, anche in funzione di garanzia della necessaria coesione del corpo sociale.

Ciò implica, da un lato, l’esigenza di non negare (né negativizzare) la componente sessuale della personalità degli individui, riconosciuto come diritto fondamentale della persona umana (tanto che il danno alla vita sessuale è risarcibile come danno esistenziale in sede civile, e la lesione è stata di recente riconosciuta anche nell’ambito matrimoniale nel diritto canonico), dall’altra parte, l’esigenza di protezione giuridica della libertà e della dignità della persona umana, come consacrata dalla nostra Carta Costituzionale, impediscono che questa possa essere ridotta alla sola dimensione sessuale, declassando la persona in mero corpo fisico e trasformando quest’ultimo in mero strumento di piacere altrui, come oggetto da mercanteggiare in cambio di denaro o di favori.

È proprio questa, invece, la dimensione umana rappresentata nel film in esame esaltandola come “valore” costituito dalla “liberazione sessuale”: a parte l’inesistenza di dialoghi (ripetitive domande alle figure femminili in merito alle pratiche sessuali preferite, con risposte del pari ripetitive), i contenuti dell’opera sono espressi dai monologhi del protagonista, tutti concentrati sulla tematica della liberazione da qualsiasi morale, rievocando “il periodo felice dalla pillola all’aids ” (in tal modo svilendo un tema degli anni 70 che aveva anche e soprattutto un valore “politico-sociale”, indirizzando i giovani verso una lettura storica non corretta di un periodo storico).

Applicando i criteri soprarichiamati al film, si osserva che, anche a voler superare le ripetute esplicite scene di rapporti sessuali con nudo integrale, particolarmente insistenti, è proprio il messaggio complessivo dell’opera a risultare inadatto ad un pubblico non adulto, sia per la rappresentazione dei personaggi femminili (a tutta evidenza professioniste del settore, come si evince anche dalla dichiarazione delle preferenze sessuali, che coincidono con i desiderata maschili, viste solo come corpi trasformati in strumento di piacere anziché come persone) e maschili (il protagonista, in fuga dall’avvilimento dal trascorrere del tempo ed insoddisfatto della sua forma fisica, cerca evasione in rapporti puramente fisici e trova la felicità nella soddisfazione dei propri bisogni sessuali a mezzo di una ragazza disinibita più giovane di 40 anni, priva di ulteriori qualità personali), sia per lo squallido epilogo finale (il rapporto uomo anziano e giovane ragazza disinibita basato sullo scambio tra potere nel settore cinematografico del primo e mercificazione sessuale della seconda). A quest’ultimo riguardo va ribadito che il criterio meramente “quantitativo” della frequenza statistica di tale modalità di rapporto personale (uomo di potere anziano/giovane ambiziosa disposta allo scambio) e la sua recente diffusione nella società non comporta affatto la sua “legittimazione” sotto il profilo dell’accettabilità del modello, tanto meno della desiderabilità della sua diffusione tra gli adolescenti.

In sostanza, l’inadeguatezza dell’opera, sotto il profilo dei criteri previsti dall'art. 9 del D.P.R 11 novembre 1963, n. 2029 non va ravvisata tanto nell’esplicito carattere pornografico dell’opera – in cui le scene di puro sesso rappresentano l’unica azione ripetuta per quasi tutta la durata del film e che comunque di per sé sole giustificherebbero il diniego di nulla osta (cfr., anche in settori in cui le valutazioni di tali caratteri del film non sono soggette a giurisdizione di merito, T.A.R. Lazio, sez. III ter, n. 32811/2010, nel senso che “l’esibizione dei corpi umani (recante l’ostentazione di nudità e di parti intime) non presentava carattere di neutralità ma si accompagnava a pose e atteggiamenti richiamanti, in modo esplicito e oggettivo l’attività sessuale) - quanto per la propagazione del modello di relazione uomo-donna basato sulla mercificazione del corpo femminile (che risulta di tutta evidenza per gli atteggiamenti, i comportamenti e le dichiarazioni rese dalle donne interessate, che sono chiaramente operatrici del settore, anche se non si vede il materiale passaggio di denaro a pagamento delle prestazioni rese dalle stesse), la soppressione di qualunque tratto caratteristico dei personaggi (le “protagoniste” femminili si propongono in termini identici in luoghi “non luoghi” sostanzialmente identici nei diversi Paesi visitati, ai quali non si fa alcun riferimento oltre le camere da letto), la mancanza di soggetto e trama, l’inesistenza di dialoghi (non potendosi considerare tali le mere interviste relative alle preferenze sessuali).

Nel valutare la visionabilità dell’opera per i minori, il Collegio ha fatto applicazione dell’orientamento giurisprudenziale in materia più evoluto, che non si limita ad escludere le fasce più giovani sulla sola base di alcune scene, ma, al contrario, nel rispetto del principio di ragionevolezza e proporzionalità di tali valutazioni, tiene conto dell’impatto complessivo dell’opera (Consiglio di Stato, sez. IV, 30/09/1988, n. 773, nel senso che per valutare la "gravità" delle scene volgari e/o di violenza contenuta in un film, al fine di stabilirne il divieto di visione per i minori, si deve far riferimento non soltanto a qualche scena particolare, bensì al contesto complessivo dell'opera in cui le dette scene sono inserite;
nello stesso senso, Consiglio di stato, sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 1005, che, conferma il diniego di nullaosta di proiezione in pubblico al film "Totò che visse due volte", ritenendo che “la Commissione, nel valutare che il film non potesse superare il limite di età degli anni diciotto, non abbia fatto malgoverno delle proprie facoltà discrezionali per la le scene di violenza verso uomini o animali, data la gravità ed insistenza dei predetti elementi. Sia pur rapportato alla realtà attuale e al complesso delle scene visibili nei film proiettati in assenza dell'anzidetto divieto, il contenuto dell'opera non appare immune dalla censure appuntate dalla Commissione ed esattamente rilevate dal Giudice di primo grado, ove afferma l'assenza nel film di qualsiasi messaggio di speranza e di un qualsiasi impianto narrativo nell'ambito dei tre episodi di cui il film si compone”), nonché, secondo un criterio di gradualità, della possibilità di eliminare le scene che comunque non risultino “accettabili” (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 139/1996, riformando la sentenza TAR Lazio, Sez. I, 21.4.1995, n. 709, ha ritenuto illegittimo il diniego del nulla osta per la visione ai minori di 18 al film “Pulp Fiction”, ritenendo, a tal fine, sufficiente il taglio delle scene più scabrose;
ugualmente TAR Lazio, Sez. III, n. 262 del 5.2.1988 ha ritenuto sufficiente eliminare alcune sequenze per ridurre il divieto dai 18 ai 14 anni per il film “Full metal jacket”).

Trattandosi di una valutazione d’impatto globale del film, che ha natura di giudizio di sintesi, non si basa solo sulla considerazione di singoli episodi o specifiche sequenze (che consentirebbero ai ricorrenti di superare il parere negativo della Commissione semplicemente tagliando le scene “incriminate”), ma anche e soprattutto sul “messaggio” che l’opera intende trasmettere (la cd. “morale della favola”), che può eventualmente “riscattare” anche scene altrimenti “inaccettabili” Così con la sentenza n. 139/1996 sopra richiamata il Consiglio di Stato ha rimosso il divieto della visione ai minorenni del film “Pulp Fiction ” in quanto ha ritenuto che in alcune scene particolarmente “forti” sia possibile ravvisare messaggi positivi e di riscatto dei personaggi, o di repulsione verso, ad esempio, le sostanze stupefacenti. In base alla medesima impostazione la sentenza del Consiglio di stato, sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 1005, ha confermato il giudizio della Commissione sull’inidoneità dell’opera alla visione da parte di pubblico non adulto in considerazione della “mancanza nel film di qualsiasi messaggio di riscatto e di speranza” – oltre che “di qualsiasi momento che valesse ad alleggerire l'atmosfera angosciante del film stesso” – criterio che è stato applicato anche di recente, nel valutare negativamente la possibilità di visione a pubblico minori del film “Apocalypto” ( T.A.R. Lazio, sez. II quater , n.2301/2007).

Proprio in tale prospettiva globale risulta ininfluente l’eliminazione di singole scene, dato che è il film nel suo complesso, proprio per l’impostazione complessiva dell’opera ed il suo epilogo, a rendere l’opera - alla stregua dei principi e dei criteri soprarichiamati - inadatta alla visione da parte di un pubblico “impressionabile” e non in grado di apprezzare criticamente le situazioni in esso rappresentate e dal tentativo di “legittimare” il comportamento rappresentato (nel senso di proporlo come accettabile o addirittura come modello), nel caso in esame, la mercificazione della persona ridotta a mero corpo-strumento dello scambio di piacere-potere.

In conclusione, i giudizi formulati dalle competenti commissioni risultano immuni dai vizi dedotti.

Per completezza di osserva, quanto alle restanti censure che, proprio alla luce dell’ininfluenza di ulteriori tagli, la doglianza relativa alla violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241/90 – anche a prescindere dall’ovvio rilievo dell’inapplicabilità della norma in parola nei procedimenti in esame, che sono assistiti da specifiche garanzie procedimentali, che hanno addirittura anticipato il contraddittorio con l’interessato ben prima della legge generale sul procedimento amministrativo - risulta inconcludente, dato che l’eliminazione di ulteriori scene non consente comunque di pervenire ad una diversa valutazione del film.

Quanto, infine, alla denunciata disparità di trattamento, con connessa contraddittorietà del comportamento dell'Autorità, rispetto ad altre opere, è sufficiente ribadire che essa “è configurabile solo in presenza di due fattispecie che ricevono trattamento differenziato pur avendo l'identico presupposto di fatto comune” - evenienza la cui verificazione, nel caso di specie, non è stata affatto dimostrata (T.A.R. Lazio, Sez. II quater , n. 853/2015), non essendo, in genere, prospettabile nel settore in esame, dato che “si tratta di prodotti cinematografici diversi e passibili di valutazioni individuali” (vedi, da ultimo, TAR Lazio, sez. II quater , n. 8821/2017), ed in ogni caso, l'eventuale illegittima omissione del divieto per film molto più crudi ed "espliciti" e, quindi, di per sé idonei a turbare la particolare sensibilità dei minori, non potrebbe essere invocata per ottenere ulteriori provvedimenti in contrasto con la legge (T.A.R., Lazio, sez. I, 17/03/1995, n. 468, con impostazione ripresa - oltre che nella sentenza n. 853/2015 soprarichiamata - anche nell’ambito della giurisdizione di mera legittimità sulle valutazioni filmiche operate a presupposto dell’irrogazione di sanzioni pecuniarie, chiarendo che “l'illegittima archiviazione di altri casi non potrebbe certamente costituire un vincolo per l'amministrazione, fino a concludere che quest'ultima non possa reiterare l'illegittimo comportamento solo per non cadere in contraddizione;
ciò soprattutto laddove il provvedimento impugnato [...] risulti immune rispetto ai rilievi di illegittimità che siano stati mossi, in modo autonomo, nei suoi confronti"
e ciò, va ribadito, indipendentemente dall'identità delle fattispecie poste a raffronto” (T.A.R. Lazio, sez. III, n. 10870/2014, nonché da ultimo n. 11748/2017).

Il ricorso va pertanto respinto con conseguente condanna alle spese della parte soccombente, liquidate come in dispositivo.

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