TAR Salerno, sez. I, sentenza 2010-10-18, n. 201011810
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N. 11810/2010 REG.SEN.
N. 00760/2009 REG.RIC.
N. 01407/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 760 del 2009, proposto da:
E S, rappresentato e difeso dagli avv. D B, M A B, con domicilio eletto presso D B in Salerno, via Dogana Vecchia,40 c/o Visone;
contro
Comune di Chianche in Persona del Sindaco P.T., rappresentato e difeso dall'avv. A G, con domicilio eletto presso A G in Salerno, c.so Garibaldi,8 c/o Rossi-Manzo;
nei confronti di
Ditta Lanzara Antonio;
e con l'intervento di
ad opponendum:
B.P. Costruzioni S.r.l., rappresentato e difeso dagli avv. Salvatore Napolitano, Matteo Baldi, con domicilio eletto presso Salvatore Napolitano Avv. in Salerno, via Pirro, 12 c/o M. Baldi;
Sul ricorso numero di registro generale 1407 del 2009, proposto da:
B.P. Costruzioni S.r.l., rappresentato e difeso dagli avv. Matteo Baldi, Salvatore Napolitano, con domicilio eletto presso Salvatore Napolitano Avv. in Salerno, via Pirro, 12 c/o M. Baldi;
contro
Comune di Chianche, rappresentato e difeso dall'avv. A G, con domicilio eletto presso A G in Salerno, c.so Garibaldi,8 c/o Rossi-Manzo;
nei confronti di
Edilcastello S.r.l., rappresentato e difeso dagli avv. D B, M A B, con domicilio eletto presso D B in Salerno, via Dogana Vecchia,40 c/o Visone;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
quanto al ricorso n. 760 del 2009:
1) del provvedimento del Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Chianche n.18/09, recante l'annullamento della procedura di gara per l'aggiudicazione dei lavori di messa in sicurezza del Castello Ducale di Chianche;2) dell'avviso di gara 9.03.2009;3) della determinazione n.28/09;.
quanto al ricorso n. 1407 del 2009:
della determinazione n.104/09, avente ad oggetto “lavori di messa in sicurezza del Castello Ducale di Chianche-III lotto-Ordinanza TAR Campania Sez. di Salerno n.484/09-provvedimenti”, della determinazione n.105/09, nonché per la condanna al risarcimento del danno;.
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Chianche in Persona del Sindaco P.T.;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Chianche;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Edilcastello S.r.l.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 giugno 2010 il dott. G G e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
1.- Con ricorso notificato in data 22 aprile 2009 e ritualmente depositato il 30 aprile successivo, la Edilcastello s.r.l., come in atti rappresentata e difesa:
a ) premetteva di aver partecipato alla procedura negoziata, indetta dal Comune di Chianche giusta delibera municipale n. 75 del 2 novembre 2006, per l’affidamento, ai sensi dell’art.204, 1° comma del d. lgs. n. 163/2006, del terzo lotto dei lavori di messa in sicurezza del locale Castello Ducale, da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso e con offerta a prezzi unitari compilata secondo le norme e con le modalità previste dal disciplinare di gara;
b ) precisava che – inoltrata, con nota prot. n. 4798 del 19 dicembre 2008, la lettera di invito a quindici imprese – nella seduta del 29 gennaio 2009 essa ricorrente era stata dichiarata aggiudicataria provvisoria, seconda graduata risultando l’impresa del geom. A L;
c ) aggiungeva, peraltro, che – con determina n.18 del 6 febbraio 2009 – il responsabile del locale ufficio tecnico, nella qualità di responsabile del procedimento, aveva inopinatamente deciso di annullare in autotutela la procedura, sull’assunto che una delle quindici imprese invitate era stata esclusa in quanto non abilitata alla formulazione dell’offerta, di tal che il numero dei soggetti invitati era risultato inferiore a quello minimo fissato dalla legge;
d ) assumeva di aver avuto effettiva conoscenza della ridetta determinazione in autotutela solo a seguito della pubblicazione di (nuovo) avviso di gara (a procedura aperta), avvenuta il 9 marzo 2009;
e ) impugnava – sulle esposte premesse – sia il provvedimento assunto in autotutela sia il bando pedisse quamente inteso alla indizione di nuova procedura evidenziale, all’uopo criticamente prospettando, con unica ed articolata doglianza, violazione degli artt. 10, 11 e 15 delle disposizioni sulla legge in generale regolanti la successione delle norme nel tempo, nonché del generale principio per cui tempus regit actum , una a violazione e falsa applicazione dell’art. 204 del d. lgs. n. 163 del 2006, nel suo combinato disposto con l’art. 122, commi 7 e 7 bis , e – segnatamente – assumendo che – posto l’espresso rinvio effettuato dall’art. 204 cit. all’art. 122 ed alle sue successive modifiche ed integrazioni – avrebbe, giusta gli evocati principi generali, dovuto tenersi conto della formulazione della norma così come vigente al momento della sua applicazione, allorquando, in forza della sopravvenuta l. n. 201 del 22 dicembre 2008, il numero minimo dei soggetti da invitare alla procedura negoziale era pari a cinque e non più a quindici.
2.- Con ordinanza n. 484, resa inter partes alla camera di consiglio del 22 maggio 2009, il Tribunale accoglieva l’articolata domanda cautelare, all’esito della quale l’Amministrazione comunale procedeva, in prospettiva conformativa, al ritiro della impugnata delibera e del pedissequo avviso di indizione della nuova procedura evidenziale, di conserva definitivamente aggiudicando (con determina n. 105 del 22 luglio 2009) i lavori alla ricorrente Edilcastello.
3.- Con atto notificato in data 4 agosto 2009 e depositato il 7 agosto successivo, la società B.P. Costruzioni s.r.l., come in atti rappresentata e difesa, proponeva intervento ad opponendum , con il quale – previa declaratoria di invalidità e/o nullità della ridetta ordinanza cautelare – prospettava, in via pregiudiziale, l’inammissibilità dell’avverso gravame (in quanto non notificatole, nella sua prospettata qualità di necessario contraddittore) e, comunque, ne deduceva, nel merito, la radicale infondatezza (avuto riguardo, per un verso, alla natura speciale della procedura scolpita all’art. 204 d. lgs. n. 163/2006, in quanto afferente a contratti relativi ai beni culturali, come tale insuscettibile di essere derogata e/o integrata, quanto al numero minimo delle imprese da invitare, dal richiamo all’art.122, comma 7 bis e, per altro verso, alla irrilevanza ratione temporis delle modifiche introdotte con la l. n. 201/2008, non applicabile in quanto posteriore alla lex specialis di procedura).
4.- Con distinto ricorso notificato il 4 agosto 2009 e depositato il 7 agosto successivo, la B.P. Costruzioni impugnava, altresì, in via autonoma le ridette determinazioni con le quali l’Amministrazione comunale aveva posto nel nulla l’originaria misura adottata in autotutela e conformativamente aggiudicato i lavori alla Edilcastello.
5.- Alla pubblica udienza del 3 giugno 2010 entrambe le cause venivano riservate per la decisione.
DIRITTO
1.- Preliminarmente occorre disporre la riunione dei ricorsi, sussistendo evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva.
2.- Il ricorso R.G. n. 760/2009 è infondato e merita di essere respinto, in tali sensi dovendo essere complessivamente rimeditato, re plene cognita e melius perpensa , l’ordito motivazionale posto a fondamento dell’accoglimento della misura cautelare invocata in pendenza di lite.
L’infondatezza delle proposte doglianze – giustificata alla luce delle considerazioni che seguono – esime il Collegio dalla delibazione delle preliminari questioni inerenti, per un verso, la ritualità dell’intervento ad opponendum (contestata non meno dall’Amministrazione comunale che dalla parte ricorrente) e, per altro verso, l’ammissibilità del ricorso quanto alla ventilata omissione della doverosa notifica alla B.P. Costruzioni, nella sua dedotta qualità di contraddittore necessario.
3.- Si deve rammentare, avuto riguardo alla scansione temporale degli atti relativi alla procedura negoziata indetta con provvedimento n. 162 del 18 dicembre 2008, che la relativa lettera di invito (concretante, ai fini per cui è causa, la lex specialis di procedura) fu inoltrata giusta nota prot. n. 4798 del 19 dicembre 2008.
A tale data, il positivo paradigma normativo di riferimento – scolpito agli artt. 198, 204, 1° comma e 122, 7° comma del d. lgs. n. 163 del 2006 – era congegnato nel senso che l’affidamento con procedura negoziata dei lavori pubblici concernenti i beni del patrimonio culturale, come tali sottoposti alle disposizioni di tutela di cui al d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, fosse consentito (oltreché nei casi – nella specie non rilevanti – di cui agli artt. 56 e 57 del d. lgs. n. 163 del 2006) in due distinte eventualità, segnatamente relative: a ) alla ipotesi (autonomamente prefigurata, in termini generali, dall’art. 122, 7° comma, all’uopo espressamente richiamato dall’art. 204) in cui l’importo complessivo dei lavori non fosse superiore a centomila euro; b ) alla distinta e speciale ipotesi (scolpita all’art. 204) in cui l’importo complessivo dei lavori fosse superiore ai centomila euro ma non ai cinquecentomila euro (nel qual caso – fermo il rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza) alla previa gara informale avrebbero dovuto essere invitati, ove esistenti, almeno quindici concorrenti qualificati.
Ciò posto, considerato che l’importo dei lavori per cui è causa era superiore ai centomila euro, non era revocabile in dubbio che – alla data del 19 dicembre 2008 – la lettera di invito dovesse essere obbligatoriamente invocata ad un numero minimo di quindici imprese qualificate.
Sennonché, in pendenza di procedura, con la legge 22 dicembre 2008, n. 201, entrata in vigore il giorno successivo 23 dicembre (art. 1, 2° comma), all’art. 1 del d. l. 23 ottobre 2008, n. 162 (c.d. decreto salva prezzi) veniva aggiunto, in sede di conversione, il comma 10 bis , che, a sua volta, al dichiarato scopo di fronteggiare la crisi nel settore delle opere pubbliche e al fine di semplificare le procedure d'appalto per i lavori sotto soglia, innovativamente innestava nell’ordito normativo in esame il comma 7 bis dell’art. 122, con il quale il ricorso alla procedura negoziata veniva, in via generale , autorizzato anche per lavori superiori ai centomila euro (purché inferiori ai cinquecentomila euro), con la previsione dell’obbligo (fermo il rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza) di invitare almeno cinque soggetti idonei.
4.- Alla luce di tale jus superveniens parte ricorrente – sul pregiudiziale assunto della sua immediata applicabilità alle procedure in corso – coerentemente argomenta illegittimità del provvedimento di annullamento in autotutela disposto sull’erroneo assunto che difettasse il numero minimo di quindici soggetti qualificati invitati: e ciò perché, in buona sostanza, doveva ritenersi ormai sufficiente l’invito a cinque soggetti.
5.- L’assunto è, tuttavia, erroneo (così come frutto di correlativo errore ermeneutico è l’ordinanza con il quale il Collegio, nella sommaria delibazione propria della fase cautelare, ebbe a recepirlo).
Valga, in proposito, il rilievo per cui – indipendentemente dal profilo di diritto intertemporale , che ha indotto a prospettare l’immediata operatività delle modifiche introdotte con il riassunto comma 7 bis – in ogni caso l’affidamento, con procedura negoziata, dei lavori relativi a beni culturali resta regolato dalla ( immutata ) disposizione di cui all’art. 204 del codice dei contratti, il quale non opera alcun richiamo alla (autonoma) sottoipotesi di cui al ridetto comma 7 bis , ma continua a richiamare solo il comma 7, relativo a lavori inferiori ai centomila euro.
Il che vuol dire, con ogni evidenza, che per i lavori de quibus il ricorso alla procedura negoziata deve ancora ritenersi consentito (in disparte, come vale ripetere, il riferimento agli artt. 56 e 57) sia per lavori inferiori ai centomila euro (nel qual caso si applica l’immutato art. 122, 7° comma, nella sua perdurante autonomia rispetto alla distinta ipotesi del successivo comma 7 bis ) sia per lavori superiori a centomila ed inferiori a cinquecentomila euro (nel qual caso si applica recta via il 1° comma dell’art. 204, il quale continua a prescrivere il limite delle quindici imprese da invitare a pena di invalidità).
Con più lungo discorso: la discrasia tra l’art 122, comma 7 bis e l’art. 204 del codice (che prescrivono soglie minime differenziate di imprese da invitare) è solo apparente , posto che ai lavori relativi ai beni culturali il comma 7 bis (che, non a caso, non è richiamato dall’art. 204 , che fa esclusivo riferimento alla diversa ipotesi di cui al comma 7) non trova punto applicazione . Ciò che – val la pena di soggiungere – trova, sul piano telelogico, non implausibile fondamento nella esigenza, evidentemente sentita dal legislatore, di tutelare, con la garanzia di partecipazione di un maggior numero di imprese, i beni culturali.
6.- Alle considerazioni che precedono (già di per sé sufficienti ad argomentare la non erroneità della primigenia determinazione assunta dal Comune intimato, con la quale – avendo verificato che solo quattordici ditte erano state invitate alla procedura negoziata – si era consequenzialmente indotto a ritirare in autotutela l’atto di indizione della gara) vale, per soprammercato, aggiungere come, per diffuso e condivisibile intendimento, il bando, unitamente alla lettera di invito, assolve la funzione precipua di dettare il regolamento della gara e, in quanto lex specialis della procedura di selezione, imponendo per tal via all'Amministrazione la stretta osservanza delle relative prescrizioni, discendone, quale logico corollario, l'indifferenza e l'insensibilità delle scolpite regole di gara alle modifiche, sopravvenute, del regime normativo vigente al momento della sua emanazione e trasfuso nella lex specialis ( in terminis , da ultimo Cons. Stato, sez. V, 23 giugno 2010, n. 3964, che ne trae la conseguenza per cui l'Amministrazione è tenuta, nella conduzione della procedura selettiva, ad applicare le regole in esso contenute, anche nel caso di sopravvenuta abrogazione o modifica della disciplina vigente al momento della sua adozione, e, al contempo, le è precluso di derogare al regolamento di gara per come cristallizzato nella lex specialis , quand'anche fosse divenuto medio tempore difforme dallo ius superveniens ).
Con il che – anche alla luce dei principi in tema di diritto intertemporale – il ricorso (una volta puntualizzato che la lettera di invito era stata inoltrata prima della entrata in vigore della nuova previsione normativa di cui all’art. 122, comma 7 bis ) risulta in ogni caso destituito di fondamento.
7.- Le stesse considerazioni che, nei sensi che precedono, inducono a respingere il primo dei proposti ricorsi fondano e giustificano, reciprocamente, la fondatezza delle doglianze articolate, con il secondo gravame, dalla controinteressata B.P. Costruzioni: ond’è che gli atti con i quali – pur coerentemente conformandosi al dictum cautelare del Tribunale – il Comune di Chianche ha revocato gli atti di indizione della (seconda) procedura aperta, con i relativi esiti (per l’appunto favorevoli alla B.P. Costruzioni) devono essere annullati.
8.- A questo punto, il Collegio – a fronte del rilievo della impossibilità di disporre, stante l’avvenuto affidamento dei lavori per cui causa, che l’Amministrazione attesta essere in avanzato stato di realizzazione – deve trascorrere alla disamina della istanza di risarcimento del danno per equivalente formulata dalla B.B. Costruzioni.
La domanda va respinta, decisivo in tal senso essendo il difetto – argomentato nei sensi delle considerazioni che seguono – di colpa in capo alla Amministrazione aggiudicatrice. Vero è, infatti, che la riscontrata illegittimità provvedimentale evidenza un errore di diritto compiuto nella gestione del complessivo iter procedimentale, ma si tratta di errore la cui evidente scusabilità discende, per un verso, dalla complessità del quadro normativo di riferimento, oggetto delle rammentate modifiche nel corso di svolgimento della procedura, e, per altro verso, dal rilievo che l’azione amministrativa in contestazione non ha fatto, in concreto, che conformarsi al pronunciamento cautelare del Tribunale, che quell’errore di diritto aveva, in sede di summaria cognitio , sia pur provvisoriamente avallato.
9.- A proposito del (necessario) requisito della colpa della pubblica amministrazione quale (autonomo e distinto) presupposto per la tutelabilità, in via aquiliana, degli interessi legittimi pretensivi compromessi dalla adozione di provvedimenti contra legem , importa rammentare come la sentenza n. 500/1999 delle Sezioni unite della Cassazione segni, ai fini che qui interessano, il passaggio dalla culpa in re ipsa (frutto della tradizionale e postulata impossibilità di prefigurare un giudizio di colpa ancorato alla personale negligenza o imperizia del funzionario agente) alla colpa c.d. di apparato, discendente dalla violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona Amministrazione da parte della organizzazione amministrativa (colpa come “disorganizzazione”).
Alla base del significativo revirement c’è, come è noto, una duplice e concorrente esigenza:
a ) da un lato infatti – sotto un profilo schiettamente dogmatico – l’affermazione che l’attività provvedimentale illegittima integrasse di per sé (nella logica della responsabilità in re ipsa ) la colpa dell’apparato pubblico aveva finito (pur nel, più raffinato, ambito di una concezione normativa della colpevolezza essenzialmente ispirata alla logica penalistica della colpa specifica ex art. 43 c.p.) per porre dubbi di compatibilità con il principio della personalità della responsabilità civile (anche alla luce del ribadito carattere eccezionale della responsabilità oggettiva) e per evocare, parallelamente, una sintomatica (ed in certo senso paradossale) disparità di trattamento tra l’Amministrazione pubblica e gli altri soggetti dell’ordinamento, la cui colpa di regola deve essere provata e non è presunta: onde la tesi della culpa in re ipsa finiva per risolversi in una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 2043 c.c. o in una sua sostanziale riscrittura, allorquando fossero in gioco i rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione;
b ) dall’altro lato – ed in termini assai significativi – proprio la riconosciuta applicabilità dell’art. 2043 anche alla attività provvedimentale della pubblica Amministrazione e la rottura dell’argine della postulata irrisarcibilità degli interessi legittimi imponeva di distinguere chiaramente il profilo della illegittimità (dell’ atto ) da quello della illiceità (della condotta ), al fine di predisporre una necessaria “rete di contenimento” ai giudizi risarcitori.
In sostanza, i tentativi volti a svalutare l’elemento soggettivo nell’illecito aquiliano della Pubblica Amministrazione sono stati smentiti da considerazioni di carattere generale attinenti all’ordinamento positivo, alla stregua delle quali, se si vuole inquadrare la responsabilità dell’Amministrazione nell’ambito dello schema dell’illecito di cui all’art. 2043 c.c., non si può prescindere dall’indagine della imputabilità della condotta, così come avviene per i privati: di guisa che, ad un certo punto, le ragioni di semplificazione probatoria sottese all’orientamento tradizionale (volte a non imporre al privato un onere di allegazione eccessivamente pesante ed ad adeguare l’accertamento dell’elemento psicologico ad una organizzazione complessa) non sono logicamente sembrate più decisive.
In definitiva, la sentenza n. 500/1999 muove, per un verso, dalla esigenza (formale) di adeguare il giudizio di colpevolezza alla (nuova) lettura dell’art. 2043 c.c. (ricostruito quale norma primaria nel contesto di una concezione tecnica e non più etica della responsabilità civile, incentrata sulla ingiustizia del danno più che sulla illiceità del fatto e correlativamente orientata in funzione compensativa piuttosto che sanzionatoria,con consequenziale dequotazione della centralità della colpa) e, per altro verso, dalla esigenza (sostanziale) di evitare quella automatica sovrapposizione tra giudizio di illegittimità e valutazione di illiceità che avrebbe trasformato (una volta rotto l’argine della irrisarcibilità degli interessi legittimi) la responsabilità dell’Amministrazione in vera e propria responsabilità oggettiva.
Tuttavia, la formula della “colpa d’apparato” finisce per essere, in concreto, scarsamente euristica, cogliendo (come non si è mancato di evidenziare soprattutto nelle più attente elaborazioni dottrinarie) l’essenza del problema senza risolverlo.
Essa, infatti, è – per un verso – scontata (ovvio essendo che la colpa oggettiva e specifica riconnessa alla violazione delle regole poste all’azione amministrativa provvedimentale non può confondersi con la colpa soggettiva e generica derivante dalla negligenza, imprudenza o imperizia del funzionario agente), per altro verso ambigua (in quanto ancora la colpa alla violazione di quelle stesse regole di azione in base alle quali si formula il giudizio di illegittimità, disancorandola da una manifestazione di volontà: si può, infatti, osservare che le regole di azione, riferite alla pubblica Amministrazione, concretano, nella prospettiva in esame, ad un tempo regole di condotta e regole di validità , concorrendo nella qualificazione della fattispecie in termini di illegittimità sub specie acti ed illiceità sub specie facti ). Onde – in termini chiaramente paradossali – per un verso potrebbe sembrare troppo agevole al privato dimostrare la colpa allegando la violazione delle regole “di buona amministrazione” (ma sarebbe questa una sostanziale sovrapposizione tra il giudizio di illegittimità e quello di illiceità, che fonda proprio la denegata logica della colpa in re ipsa ), dall’altro la prova della colpa (ove – come sembra allora necessario precisare - distinta dalla prova della illegittimità) finisce per diventare diabolica se non impossibile (una “colpa senza colpevoli”, come si è criticamente ma efficacemente osservato).
Le reazioni di dottrina e giurisprudenza agli evidenziati paradossi si sono mosse in duplice direzione:
a ) da un lato evocando, sul piano teorico ed in prospettiva sostanziale, un “ritorno”, in chiave “aggiornata” alla nozione oggettiva di colpa (come distinta dalla colpa in re ipsa );
b ) dall’altro agevolando (sul piano applicativo ed in prospettiva processuale) la posizione del privato mediante letture interpretative che comportassero una sostanziale inversione dell’onere probatorio (alla luce del sotteso e fondamentale criterio di vicinanza della prova ).
Dal primo punto di vista, si osserva che la tesi della culpa in re ipsa finiva per risolversi in una vera e propria “finzione di colpa” e, in buona sostanza, in una forma di responsabilità oggettiva (“occulta”), in quanto postulava (l’assunto di) una presunzione assoluta di colpa in presenza di illegittimità dell’atto (“se l’atto è illegittimo, l’Amministrazione versa per ciò stesso in colpa”).
Il chiarimento sul punto muove dall’osservazione che la c.d. colpa oggettiva (o specifica : arg. ex art. 43 c.p.) non va confusa con la colpa presunta , ma rappresenta solo la base normativa del giudizio di colpevolezza, inteso quale autonomo criterio di imputazione del danno ingiusto, distinto (ancorché beninteso correlato) rispetto al giudizio di illegittimità, che dà la stura all’apprezzamento del danno in termini di ingiustizia (per cui: se il provvedimento è illegittimo, il danno cagionato deve riguardarsi come ingiusto , siccome lesivo di un interesse protetto e tutelato dall’ordinamento;ma perché sia anche risarcibile occorre che sia imputabile secondo il canone di colpevolezza, che – per definizione – non può circolarmente riconnettersi alla mera illegittimità, che ne rappresenta solo il presupposto).
Il (proficuo) richiamo alla giurisprudenza comunitaria (basata sulla logica della “violazione grave e manifesta” della norma attributiva al privato della situazione di vantaggio lesivamente compromessa dall’operato dei soggetti pubblici) ha, in tale prospettiva, indotto ad intendere la colpa quale mera “qualificazione” (in termini di gravità) dei vizi del provvedimento. Se si vuole, semplificando: non ogni illegittimità sollecita il risarcimento, ma solo quelle illegittimità “gravi” che fondino un giudizio di effettiva “rimproverabilità” in capo all’Amministrazione (ciò che avviene sulla scorta di indici sintomatici quali: a ) il grado di chiarezza e precisione della norma violata; b ) la presenza o meno di orientamenti giurisprudenziali consolidati; c ) l’ampiezza del potere discrezionale attribuito all’autorità; d ) il carattere intenzionale o meno della violazione; e ) l’eventuale novità della questione).
La tesi della “gravità della violazione” (per quanto in certo senso positivamente corroborata dalla recente modifica dell’art. 24 della l. n. 262/2005 operata, in tema di responsabilità delle autorità di vigilanza, dall’art. 4, 2° comma lett. d) del d. lgs. n. 303/2006, che si riferisce , a proposito della responsabilità delle autorità di vigilanza, ad “atti o comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave) si è, peraltro, prestata ad alcune valutazioni critiche:
a ) per un verso, si osserva, la postulata equivalenza tra colpa e “violazione grave” esclude la risarcibilità in presenza di vizi formali non gravi , per i quali non può essere pregiudizialmente escluso un atteggiamento colposo dell’Amministrazione (una volta che lo si ancori non già – come la tesi in esame postula – alla misura della difformità dal paradigma legale di riferimento, sibbene al processo generativo dell’atto illegittimo , anche in relazione agli affidamenti privati lesi);in altri termini, “gravità della violazione” significa “gravità del vizio” del provvedimento, per cui il “vizio non grave”, che pure legittima l’annullamento dell’atto, varrebbe ad escludere pregiudizialmente la risarcibilità dei danni;
b ) nella stessa prospettiva, il requisito di gravità della violazione finisce per porsi in rapporto di proporzione inversa rispetto all’ampiezza del potere discrezionale, poiché più il potere è discrezionale più il giudizio di gravità è disagevole (onde – non certo a caso – sulla scia della tesi in esame si è finito per distinguere il grado della colpa a seconda del tipo di vizio lamentato, per cui in caso di violazione di legge si avrebbe una colpa obiettivizzata , mentre in caso di eccesso di potere l’elemento colposo andrebbe specificamente dimostrato );
c ) per altro verso, laddove la colpa si ancori, nella chiave “quantitativa” postulata dalla impostazione in esame, al grado di divergenza tra regola violata ed azione amministrativa, la “gra-vità della violazione” finisce per coincidere con la “gravità della colpa”, con conseguente limitazione , in assenza di base normativa, della responsabilità della p.a. (in violazione, oltretutto, dei principi di eguaglianza e di pienezza della tutela giurisdizionale: artt. 3 e 24 Cost.);
d ) in direzione affatto opposta, l’inserimento tra gli indici rivelatori della colpa della univocità della normativa di riferimento finisce per aprire spazi notevoli di non colpevolezza e circostanze esimenti a favore della pubblica Amministrazione, per il tramite della canone di scusabilità dell’ error juris (arg. ex Corte cost. n. 364/1988).
In diversa direzione – sul piano delle regole probatorie – la dottrina e la giurisprudenza hanno inteso svolgere in termini negativi il giudizio sull’elemento soggettivo, rimettendo alla pubblica Amministrazione (nella richiamata logica della vicinanza della prova) l’onere di dimostrare l’eventuale scusabilità dell’errore. In tal senso si rileva che l’illegittimità della determinazione amministrativa rappresenta, appunto, un errore del soggetto pubblico, di guisa che – ai fini della imputabilità delle conseguenze risarcitorie – occorra distinguere se si tratti di errore scusabile o meno (gravando, ovviamente, il relativo onere dimostrativo sulla stessa Amministrazione).
Il tentativo più radicale in questa direzione è, peraltro, compiuto dai teorici della responsabilità da “contatto sociale qualificato”, che ripudiano radicalmente il paradigma aquiliano per evocare un criterio di riparto dell’onere probatorio corrispondente a quello codificato, a tutto favore del privato, dall’art. 1218 c.c.. Rispetto al precedente orientamento della culpa in re ipsa , la tesi si risolve, sotto lo specifico angolo di osservazione della colpa, nel postulare una presunzione (non più assoluta, ma solo) relativa di colpa, superabile dalla pubblica Amministrazione con la dimostrazione che, in concreto, l’accertata violazione della regula agendi è derivata da vicende estranee al normale limite di esigibilità della condotta imposta al soggetto pubblico.
Tuttavia – al di à delle note critiche alla teoria del contatto sociale qualificato (che rischia di aprire la strada ad una tutela risarcitoria disancorata non solo dalla colpa, ma anche e prima ancora dallo stesso danno, in quanto sganciato dal necessario riferimento al finale bene della vita e riconnesso, in termini di interesse negativo da lesione di “affidamento procedimentale”, alla mera violazione delle formali regole dell’azione amministrativa;oltretutto il riferimento al paradigma contrattuale sembra oggi concretamente smentito dalla previsione di cui all’art. 2 bis della l. n. 241/90, come modificata dalla l. n. 69/2009, in tema di danno da ritardo, che si colloca inequivocamente all’interno del paradigma aquiliano) – si è osservato che anche la configurabilità di una (generalizzata) presunzione (ancorché relativa) di colpa in presenza di un atto illegittimo non è plausibile, in mancanza di idonea base positiva: quel che può operare è solo una presunzione semplice ex art. 2727 e 2729 c.c., fondata su regole e massime di esperienza, nella logica dell’ id quod plerumque accidit , secondo un criterio di normale regolarità: ma si tratterebbe, allora, di una presunzione non (come la tesi criticata postula) in abstracto , ma solo in concreto ( praesumptio , infatti, hominis e non legis ), cioè a dire contestualizzata .
È questa, infatti, la tesi sostenuta da altra dottrina e da parte della giurisprudenza, le quali – ripudiando non meno la tesi della “gravità della violazione” che quella della natura contrattuale della responsabilità da contatto – assumono che la colpa andrebbe valutata “ con riferimento al processo generativo del provvedimento illegittimo ” ed alla sua “ attitudine a pregiudicare l’affidamento del privato ”, di tal che – a seguito dell’instaurarsi del rapporto amministrativo procedimentale – le regole che governano il procedimento amministrativo rappresentano la misura oggettiva della diligenza richiesta, in concreto, alla pubblica Amministrazione: onde la violazione di quelle regole, oltre a tradursi nella illegittimità dell’atto, rappresenta (in chiave sintomatica) indice presuntivo della colpa del soggetto pubblico (e la colpevolezza potrà dirsi provata quando la violazione risulti operante in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, laddove dovrà essere negata in presenza di un errore scusabile, per esempio imputabile al concorso di colpa dello stesso privato).
Provando a sintetizzare: ancorché la colpa (beninteso, in senso normativo e non psicologico ) si ri-solva pur sempre nella violazione delle medesime regole – formalizzate o meno – di ammi-nistrazione, il giudizio di responsabilità si colloca nella prospettiva ( dinamica ) della genesi (procedimentale) del provvedimento (regole che valgono ad apprezzare la condotta amministrativa in termini di “comportamento”, per saggiarne la lesione di affidamenti in capo alle controparti private), laddove diversa è la valutazione ( statica ) in termini di illegittimità: nel primo caso di tratta di culpa in concreto ( sub specie facti ), nel secondo di culpa in astracto ( sub specie acti ).
È in simile prospettiva che, in dottrina e nella più avveduta giurisprudenza, la tematica della colpa dell’Amministrazione ha finito per risolversi nella questione della scusabilità dell’errore commesso nella adozione del provvedimento illegittimo, elaborata mutuando in gran parte gli esiti della elaborazione penalistica in tema di scusabilità dell’ error juris (art. 5 c.p., nella “ricostruzione” di Cost. Cost. n. 364/1988). Con l’importante e triplice rilievo:
a ) che – in quanto l’errore sia propriamente di diritto , e coinvolga perciò (l’interpretazione e la concreta applicazione del)la norma violata, il profilo probatorio risulta in larga parte assorbito dalla quaestio juris (che sollecita l’officioso accertamento giudiziale, secondo il canone del jura novit Curia ): il che finisce per sdrammatizzare significativamente l’onere probatorio a carico del privato, il quale non dovrà fornire una plena probatio circa la (pretesa) inequivocità e la assoluta chiarezza della normativa da applicarsi al caso di specie, ma solo allegarla, spettando al giudice adito di conoscere lo stato dottrinale e giurisprudenziale relativo alla disposizione operante;
b ) che il discorso sarebbe diverso solamente in relazione agli elementi di fatto che concorrano a qualificare la colpa dell’Amministrazione (per esempio inerenti il disatteso apporto partecipativo in sede procedimentale), per i quali – tuttavia – un discorso in termini di error facti potrebbe utilmente essere condotto (nella medesima prospettiva della sua scusabilità in chiave esimente) secondo la sopra evocata logica presuntiva ex art. 2727 e 2729 c.c..
9.- Le riflessioni che precedono orientano nella definizione del caso concreto.
Importa, invero, ribadire come l’acclarata ragione di illegittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati sia dipesa (non già da una istruttoria carente e consapevolmente superficiale, quanto essenzialmente) da una errata applicazione dell’art. 204 d. lgs. n. 163/2006: errore di diritto, questo, che deve peraltro essere senz’altro ritenuto (sulla scorta delle esposte premesse) scusabile, avuto riguardo alla complessità della ricostruzione del quadro normativo in rapida evoluzione e, soprattutto, alla attitudine conformativa del dictum cautelare reso in sede giudiziale.
Deve, per tal via, escludersi la sussistenza della colpa della stazione appaltante, necessario presupposto e requisito per imputarle il danno subito dalla ricorrente, il quale – ancorché obiettivamente ingiusto – non può essere traslato all’Amministrazione intimata.
10.- In definitiva, deve essere respinto il ricorso RG n. 760/2009;deve essere correlativamente accolto il ricorso RG n. 1407/2009;deve essere, peraltro, respinta la domanda di risarcimento del danno ivi articolata.
La complessità della vicenda amministrativa giustifica ampiamente l’integrale compensazione delle spese e competenze di lite tra le parti costituite.