TAR Roma, sez. III, sentenza 2016-06-07, n. 201606540

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. III, sentenza 2016-06-07, n. 201606540
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201606540
Data del deposito : 7 giugno 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10643/2015 REG.RIC.

N. 06540/2016 REG.PROV.COLL.

N. 10643/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10643 del 2015, proposto da:
L P S, R P, S A Maria, M V, B G, A L M, F R, S L, V M, L E, rappresentati e difesi dagli avvocati M Z, Carlo Comande', S D N, A R e M A P, con domicilio eletto presso l’avv. Carlo Comandè in Roma, Via Pompeo Magno, 23/A, come da procure in atti;

contro

Banca d'Italia in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati M C, D L L e Marino Ottavio Perassi, con domicilio eletto presso l’Avvocatura della Banca d’Italia in Roma, Via Nazionale, 91, come da procura in atti;

nei confronti di

Banca Popolare di Sondrio soc. coop. p.a. e Banca Popolare di Milano soc. coop a r.l. in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempre, non costituite in giudizio;

e con l'intervento di

ad adiuvandum:
Codacons in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Rienzi e Gino Giuliano, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, viale G. Mazzini, 73, come da procura in atti;

per l'annullamento:

- del 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”), nella parte in cui esso recita che “non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni in cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex popolare, di una maggiorazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria, o, comunque, tale da rendere possibile il controllo nella forma dell’influenza dominante”;

- del capitolo IV delle “Disposizioni di vigilanza per le banche” nella parte in cui disciplina le “Banche in forma cooperativa”, ove ritenuto da interpretare ed applicare alla luce dei principi fissati con il su menzionato periodo;

- del resoconto della consultazione pubblicato in data 11 giugno 2015;

- del documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Banca d'Italia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 febbraio 2016 il consigliere Achille Sinatra e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

1. – Con ricorso spedito per notifica l’8 settembre 2015, notificato e depositato il successivo giorno 14, i nominati in epigrafe, che documentano di essere soci di varie banche popolari (UBI Banca, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Banco Popolare) hanno impugnato, chiedendone l’annullamento previa sospensione cautelare, gli atti emessi dalla Banca d’Italia a seguito delle modificazioni apportate all’art. 29 del Testo Unico Bancario (TUB, d.lgs. n. 385 del 1993) dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, convertito con modificazioni nella legge n. 33 del 2015.

Gli atti che i ricorrenti dichiarano di impugnare sono, in particolare:

- il 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”), nella parte in cui esso recita che “non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni in cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex popolare, di una maggiorazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria, o, comunque, tale da rendere possibile il controllo nella forma dell’influenza dominante”;

- il capitolo IV delle “Disposizioni di vigilanza per le banche” nella parte in cui disciplina le “Banche in forma cooperativa”, ove ritenuto da interpretare ed applicare alla luce dei principi fissati con il su menzionato periodo;

- il resoconto della consultazione pubblicato in data 11 giugno 2015;

- il documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.

2. – L’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015 ha introdotto nell’art. 29 del TUB il comma 2 quater, con cui il legislatore ha attribuito alla banca d’Italia il compito di dettare disposizioni attuative della riforma.

Gli atti impugnati derivano dall’esercizio di tale potere attuativo.

3. – I ricorrenti, in punto di legittimazione all’impugnazione, premettono che, in caso di trasformazione della Banca popolare di cui essi sono soci in società per azioni (come previsto dal nuovo art. 29 comma 2-ter del T.U.B.), per effetto della su richiamata disposizione, che essi riconducono al 9°aggiornamento alla circolare della Banca d’Italia n. 285\2013, deriverebbe loro la preclusione di divenire i soggetti di riferimento della nuova società per azioni bancaria mediante lo strumento del controllo esercitato su quest’ultima dalla cooperativa.

Essi affermano, a questo proposito, che altro sarebbe prevedere, per legge, cha una data attività imprenditoriale sia esercitata mediante una certa specifica forma societaria (come fa l’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015);
altro, invece, sarebbe imporre, senza una specifica disposizione di legge, che determinate società bancarie non possano avere un certo assetto proprietario.

Secondo i ricorrenti, quindi, sarebbe illegittima la disposizione attuativa tesa ad impedire la operazione economica che consenta agli ex soci della banca popolare (necessariamente trasformata in società per azioni ordinaria) di costituire una società cooperativa volta a partecipare in misura di controllo al capitale della neo costituita società per azioni bancaria.

4. – L’impugnazione è affidata a due motivi di ricorso svolti in via principale, nonché ad una censura subordinata che afferma l’illegittimità costituzionale del decreto-legge n. 3 del 2015, come convertito nella legge n. 33 del 2015 e, di conseguenza, degli atti adottati alla luce di tale normativa primaria.

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 29 commi 2-bis.

2-ter e 2-quanter del d.lgs. n. 385 del 1993 – Eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto e sviamento dalla causa tipica – disparità di trattamento – violazione e falsa applicazione degli articoli 23 e 97 Cost. e dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981.

La disciplina introdotta con l’aggiornamento della circolare n. 285\2013 della Banca d’Italia, che a pag. II.9 afferma che “non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni in cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex popolare, di una maggiorazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria, o, comunque, tale da rendere possibile il controllo nella forma dell’influenza dominante”, avrebbe, innanzitutto, travalicato il dettato delle norme primarie di riferimento.

Infatti, nel nuovo art. 29 del T.U.B., come novellato dall’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015, sarebbero previste solo due ipotesi, ovvero quelle del commi 2-bis primo periodo (banca popolare singola con attivo superiore alla soglia di otto miliardi di euro) e 2-bis secondo periodo (banca popolare capogruppo che superi, a livello consolidato la soglia di attivo di 8 miliardi di euro).

Invece, secondo i ricorrenti, con l’impugnato aggiornamento dell’atto di natura regolamentare, l’Autorità di regolazione avrebbe aggiunto alle due ipotesi previste dalla normativa primaria anche una terza ipotesi, che, invece, non sarebbe ivi prevista: ovvero quella –vietata- del controllo dell’istituto bancario trasformato in società per azioni ordinaria da parte di un soggetto terzo, a sua volta controllato dai soci di una ex banca popolare nella sua versione “ante riforma”.

Pertanto, con una prima doglianza i ricorrenti lamentano la violazione dell’ordinario rapporto tra atto regolamentare e norma primaria di riferimento, affermando che, se il primo contrasta con la seconda, dovrebbe essere annullato con effetto retroattivo. Con un secondo profilo di censura, essi affermano la violazione dell’art. 23 Cost., secondo il quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non dalla legge, per il principio della riserva di legge relativa, e dell’art. 1 della legge n. 689\2013 che pone la necessità di una norma di legge per la previsione di sanzioni amministrative.

La contesta clausola della circolare, ancora, per una terza censura, concreterebbe sviamento dalla causa tipica, perché l’esercizio del potere di attuazione previsto dal comma 2-quater del nuovo art. 29 T.U.B., contrasterebbe con il disposto del comma 2-ter, da cui si evincerebbe che tale potere attribuito alla Banca d’Italia sarebbe limitato alla sola determinazione del calcolo dell’attivo per verificare se sia stata raggiunta la soglia “sensibile” di otto miliardi di attivo oltre la quale la banca popolare ancora società cooperativa per azioni deve necessariamente esercitare una delle opzioni ivi previste (trasformazione in s.p.a. ordinaria, riduzione al disotto della soglia, liquidazione).

Infine, a tenore di una quarta doglianza, quanto affermato dalla Banca d’Italia nell’atto impugnato comporterebbe disparità di trattamento fra gli ex soci della banca popolare in forma cooperativa poi trasformata in s.p.a. ordinaria (che non potrebbero assumere la posizione di controllo di quest’ultima) e soggetti terzi che non rivestivano la qualità di soci della popolare “ante riforma” (in particolare, holding non “rivenienti” dalle ex popolari), ai quali, invece, sarebbe consentito assumere tale posizione.

2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 29 commi 2-bis, 2-ter e 2-quater del d.lgs. n. 385 del 1993 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 23 della legge n. 262 del 2005 – Violazione del regolamento della Banca d’Italia di attuazione dell’art. 23 della legge n. 262\2005 del 24 marzo 2010 - Eccesso di potere per difetto di istruttoria - Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost.

Con il secondo motivo i ricorrenti assumono che la clausola contestata del 9° aggiornamento no avrebbe trovato riscontro nel Documento di consultazione in forma pubblica dei soggetti rappresentativi delle categorie vigilate, predisposto e pubblicato dall’Autorità di regolazione ai sensi dell’art. 23 della legge n. 262 del 2005 (secondo cui i provvedimenti delle Autorità di vigilanza aventi contenuto regolamentare o generale devono essere motivati con riferimento alle scelte di regolazione e vigilanza del settore ovvero della materia cui si riferiscono, tenuto conto del principio di proporzionalità).

Pertanto, ai soggetti legittimati alla partecipazione procedimentale non sarebbe stato dato modo di proporre osservazioni sul punto;
da qui la asserita illegittimità, per questa parte, dell’Aggiornamento impugnato.

3) In subordine. Questione di legittimità costituzionale relativa al decreto-legge n. 3 del 2015, convertito in legge n. 33 del 2015.

I ricorrenti, infine, affermano che nell’ipotesi in cui i due motivi su esposti dovessero essere respinti, perché l’azione della Banca d’Italia dovesse essere ritenuta rispondente ai dettami dell’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015, questo TAR dovrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale di tale norma di rango primario sotto profili che, nel motivo, vengono indicati come relativi al contrasto:

I. con l’art. 77 comma II Cost., poiché il potere di decretazione d’urgenza attribuito al Governo sarebbe stato, qui, esercitato in assenza dei presupposti di necessità ed urgenza, trattandosi di una riforma strutturale delle banche popolari, e risolvendosi in una “trasformazione secca” della banche popolari in s.p.a. contro il principio di proporzionalità;

II. con l’art. 3 Cost., per la affermata disparità di trattamento tra soci di un banca popolare “ante riforma” poi trasformata in s.p.a., cui sarebbe precluso il controllo della nuova società per azioni bancaria mediante apposita holding, e soggetti diversi da costoro, cui, invece, tale controllo sarebbe consentito;

III. con l’art. 41 Cost., per indebita compressione della libertà di iniziativa economica, e dell’art. 42 Cost., per violazione del diritto di proprietà in materia dominata dal principio di riserva di legge.

5. – Si è costituita in giudizio la Banca d’Italia, che, con due memorie, depositate l’una in vista della camera di consiglio del 7 ottobre 2015 e l’altra in vista dell’udienza di trattazione del ricorso nel merito.

E’ intervenuto ad adiuvandum il Codacons, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

La Banca d’Italia, nelle sue difese, ha sostenuto, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso perché la disposizione che vieta l’operazione economica che i ricorrenti lamentano essere loro preclusa non sarebbe contenuta né nel 9° aggiornamento alla Circolare n. 285 del 2013, né nel, pure impugnato, capitolo 4 delle “Disposizioni di vigilanza per le banche” emesse dall’Autorità di regolazione, bensì soltanto nell’atto di emanazione della Circolare, il quale non avrebbe autonoma portata normativa (a differenza della Circolare medesima, avente natura regolamentare), e quindi non sarebbe suscettibile di ledere la sfera giuridica dei ricorrenti, che non avrebbero, così, interesse al ricorso;
pertanto, l’inammissibilità del ricorso discenderebbe anche dal carattere solo eventuale e potenziale, e non attuale, della lesione lamentata, che si concreterebbe unicamente allorchè l’Autorità di vigilanza interverrà ad interdire (ovvero a non autorizzare) l’operazione in questione.

Inoltre, per la Banca d’Italia sarebbe inammissibile anche l’intervento ad adiuvandum del Codacons, posto che la riforma strutturale delle banche popolari non inciderebbe sugli interessi delle categorie di riferimento di tale associazione, ovvero i consumatori e gli utenti dei servizi bancari.

Nel merito, poi, la resistente ha eccepito che alcuna novità normativa sarebbe stata introdotta dalla Banca d’Italia rispetto a quanto già disposto dall’art. 29 del T.U.B. nella sua nuova versione, ma che la clausola contestata sarebbe soltanto “un chiarimento interpretativo della normativa primaria, privo di potere regolamentare, che semplicemente potrebbe orientare il proprio comportamento nelle future vicende applicative della riforma delle popolari, una volta verificate in concreto le ipotesi di possibile applicazione”;
ed ha evidenziato che il chiarimento in discorso era scaturito dalla risposta ad osservazioni di alcuni accademici partecipanti alla fase di consultazione pubblica disciplinata dall’art. 23 della legge n. 262 del 2005 e dal conseguente regolamento dell’Autorità datato 24 marzo 2010;
ad ogni modo, i vizi lamentati non sussisterebbero anche perché il radicarsi di un controllo della nuova s.p.a. bancaria da parte dei soci della “ex popolare” integrerebbe elusione della normativa appena introdotta, tesa, fra l’altro, ad aumentare la contendibilità sul mercato di aziende di credito di grandi dimensioni.

I ricorrenti hanno depositato una memoria conclusionale, in cui hanno illustrato i motivi di ricorso, ed hanno altresì replicato, con memoria appositamente depositata, alle avverse eccezioni evidenziando che la disposizione contestata è contenuta nel 9° aggiornamento alla Circolare n. 285\2013, depositato in giudizio, atto ritenuto a contenuto precettivo.

6. – Con ordinanza n. 4180\2015, depositata il 7 ottobre 2015, l’istanza cautelare proposta dai ricorrenti è stata respinta.

Sempre in data 7 ottobre 2015, con apposito atto, ha formulato rinunzia al ricorso ed a tutti gli atti del giudizio il sig. Roberto Fusilli, con esclusivo riferimento alla sua posizione.

Alla pubblica udienza del 10 febbraio 2016 il ricorso è stato posto in decisione.

DIRITTO

1. – E’ oggi all’esame del Collegio il ricorso proposto da alcuni soci di talune banche popolari interessate dalla riforma di settore posta dall’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015, convertito in legge n. 33 del 2015, che ha modificato la disciplina recata in materia dal Testo Unico Bancario (decreto legislativo n. 358 del 1993).

I ricorrenti impugnano in parte qua alcuni provvedimenti attuativi emessi dalla Banca d’Italia in applicazione del comma 2-ter del nuovo art. 29 del T.U.B.

Il ricorso, in particolare, afferma di essere rivolto contro il 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”), nella parte in cui esso recita che “non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni in cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex popolare, di una maggiorazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria, o, comunque, tale da rendere possibile il controllo nella forma dell’influenza dominante”.

Dall’epigrafe dell’atto introduttivo, inoltre, risultano impugnati anche il capitolo IV delle “Disposizioni di vigilanza per le banche” nella parte in cui disciplina le “Banche in forma cooperativa”, ove ritenuto da interpretare ed applicare alla luce dei principi fissati con il su menzionato periodo;
il resoconto della consultazione pubblicato in data 11 giugno 2015;
il documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.

2. – I passi salienti della riforma delle Banche popolari introdotta dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, per quanto qui interessa, possono essere indicati come segue:

“1. Al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 28, dopo il comma 2-bis, è aggiunto il seguente:

«2-ter. Nelle banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d'Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d'Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi.»;

b) all'articolo 29:

1) dopo il comma 2, sono inseriti i seguenti:

«2-bis. L'attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro. Se la banca è capogruppo di un gruppo bancario, il limite è determinato a livello consolidato.

2-ter. In caso di superamento del limite di cui al comma 2-bis, l'organo di amministrazione convoca l'assemblea per le determinazioni del caso. Se entro un anno dal superamento del limite l'attivo non è stato ridotto al di sotto della soglia né è stata deliberata la trasformazione in società per azioni ai sensi dell'articolo 31 o la liquidazione, la Banca d'Italia, tenuto conto delle circostanze e dell'entità del superamento, può adottare il divieto di intraprendere nuove operazioni ai sensi dell'articolo 78, o i provvedimenti previsti nel titolo IV, capo I, sezione I, o proporre alla Banca centrale europea la revoca dell'autorizzazione all'attività bancaria e al Ministro dell'economia e delle finanze la liquidazione coatta amministrativa. Restano fermi i poteri di intervento e sanzionatori attribuiti alla Banca d'Italia dal presente decreto legislativo.

2-quater. La Banca d'Italia detta disposizioni di attuazione del presente articolo.»

(Omissis)

2. In sede di prima applicazione del presente decreto, le banche popolari autorizzate al momento della relativa entrata in vigore si adeguano a quanto stabilito ai sensi dell'articolo 29, commi 2-bis e 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, introdotti dal presente articolo, entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d'Italia ai sensi del medesimo articolo 29. (Omissis).

2.1 - La riforma della disciplina delle banche popolari da cui muovono i provvedimenti impugnati prende, per larga parte, il posto di una normativa che – per quanto qui interessa – disegnava, schematicamente, il quadro di seguito illustrato.

A tenore del previgente art. 28 comma 1 del T.U.B., l'esercizio dell'attività bancaria da parte di società cooperative era riservato alle banche popolari e alle banche di credito cooperativo.

La prima delle due categorie di istituti di credito appena citati doveva essere costituita, a tenore dell’art. 29 comma 1, in forma di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata, con valore nominale di ciascuna azione non superiore a due euro.

Regola qualificante del tipo societario in questione era data dal voto capitario (ossia secondo il principio “una testa un voto”, art. 30 comma 1), ma nessuno dei soci poteva detenere, direttamente o indirettamente, in base all'art. 30 comma 2, una quantità di azioni eccedente l'1% del capitale sociale;
peraltro, a quest’ultimo limite erano sottratti alcuni investitori istituzionali, quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (art. 30 comma 3).

Altra regola qualificante era data dal c.d. principio della “porta aperta”, secondo il quale l'ingresso nella compagine sociale non comportava particolari qualifiche nell’aspirante socio, e, soprattutto, non comportava modifiche dell'atto costitutivo.

A tale principio si correlava il “principio del gradimento” degli amministratori rispetto agli aspiranti soci (art. 30 comma 5);
ma coloro, ai quali detto gradimento fosse stato negato, potevano comunque acquisire lo status di semplice azionista, ossia di titolare dei soli diritti patrimoniali;
una posizione che, pertanto, si contrapponeva allo status di socio, ovvero di titolare sia dei diritti c.d. amministrativi che di quelli patrimoniali.

Ai sensi dell’art. 32 TUB, poi, solo il 10% degli utili netti annuali doveva necessariamente essere destinato a riserva, sicchè il restante 90% poteva costituire dividendo da distribuire ai soci.

D’altra parte, il TUB non conteneva disposizioni che imponessero alle banche in questione di operare esclusivamente o prevalentemente con i soci.

2.2 - La dottrina in materia ha più volte sottolineato come i tratti caratteristici delle banche popolari su richiamati abbiano comportato l’allontanamento dallo schema mutualistico, portando ad affermare che le banche popolari, come configurate dalla previgente versione del TUB, avevano la forma, ma non la sostanza, di cooperative.

In particolare, poi, la possibilità che investitori istituzionali (quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari) non fossero soggetti al limite di detenzione di azioni che colpiva gli altri soci, delineava chiaramente un modello di cooperativa nella quale si assisteva – specie per le grandi banche popolari, quotate in borsa – ad un sensibile indebolimento dello scopo mutualistico;
poiché è del tutto evidente che un soggetto interessato ad effettuare nella banca popolare un investimento di capitale non è, di regola, invece interessato a che i soci ricevano i vantaggi mutualistici, che deriverebbero loro dalla partecipazione al capitale sociale.

2.3 – Inoltre le caratteristiche in questione, come sopra delineate, comportavano determinanti influenze sui meccanismi di formazione della compagine degli amministratori: tramite il sistema del voto capitario, infatti, a determinare la volontà sociale in sede di elezione dei medesimi è il numero dei soci, e non la consistenza della quota di capitale da essi detenuta: ragione per cui gli amministratori possono non essere espressione dei soggetti titolari della parte più consistente del capitale, ossia degli investitori istituzionali.

Gli amministratori d’altra parte, come già detto, possedevano il potere di veto nei confronti dell’ammissione alla qualità di socio, ovvero, in definitiva, il potere di scegliere i propri elettori e così – come osservato in dottrina – il potere di autoperpetuarsi nella carica.

2.4. – In relazione al fine ultimo della partecipazione al capitale sociale, quindi, la dottrina in materia ha addirittura enucleato quattro categorie di soci delle banche popolari, ciascuna connotata da un interesse differente da quello proprio delle altre categorie, ovvero: soci – clienti, che ambiscono ad ottenere condizioni più vantaggiose nella fruizione dei servizi bancari;
soci – investitori, che, invece, sono interessati alla sola percezione del dividendo ed a realizzare il c.d. capital gain;
soci – amministratori, interessati alla rielezione nella carica;
soci – dipendenti, che, invece, sono gli unici ad essere interessati a spuntare condizioni salariali e lavorative sempre migliori.

3. – Tanto premesso in via generale, deve essere dichiarata, innanzitutto, l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum spiegato dal CODACONS – Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori.

3.1 – Tale associazione, infatti, afferma di perseguire, per statuto, la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori ed utenti nei confronti dei soggetti pubblici e privati produttori e\o erogatori di beni e servizi, e di essere tra le associazioni di consumatori ed utenti rappresentative a livello nazionale, contemplate dall’art. 137 del decreto legislativo n. 206 del 2005 (Codice del consumo).

Aggiunge di essere legittimata ad intervenire in giudizio in forza dell’art. 2 del detto Codice del consumo, al fine di tutelare il diritto alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, “nonché un più generale diritto di eguaglianza”.

3.2 – Il difetto di legittimazione del Codacons emerge sotto due distinti profili.

3.2.1. – Sotto un primo e più immediato profilo di diritto positivo, è sufficiente rilevare come la circostanza che l’unico interesse in comune tra le su enumerate e differenti categorie di soci delle banche popolari “ante-riforma” (che è lo status quo ante al cui ripristino mira, in ultima analisi, l’impugnazione in esame) sia quello alla percezione dell’utile sotto forma di dividendo, vale, da solo, a privare della titolarità all’impugnazione gli enti esponenziali delle categorie di consumatori ed utenti.

Ed invero, posto che la percezione dell’utile in questione costituisce il frutto di una attività imprenditoriale – quale quella delle banche popolari, nelle quali lo scopo mutualistico ha oramai assunto solo un valore formale – , osta alla legittimazione delle relative associazioni l’art. 3 comma 1 del Codice del consumo, che definisce come consumatore o utente proprio “la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale”.

Avuto riguardo alla corrente definizione dottrinale del vantaggio mutualistico, ossia la messa a disposizione dei soci di occasioni di lavoro o di possibilità di acquisto o di utilizzazione di beni o di servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle praticate sul mercato, emerge chiaramente il contrasto di tale scopo con le su richiamate disposizioni ante riforma del T.U.B. (prima fra tutte la possibilità che determinati soci non soffrano dei medesimi limiti di altri alla detenzione di quote del capitale sociale, e alla possibilità che le banche popolari siano quotate in borsa) che marcano nettamente il profilo di tali imprese come lucrative (nella sostanza), in contrasto con la forma di cooperative.

E’ stato affermato, infatti, che la partecipazione al capitale delle banche popolari veniva considerata dal legislatore “ante-riforma” come un vero e proprio investimento capitalistico, seppure nell’ambito di un'organizzazione democratica: il che comporta che tutti i soci – e non solo gli investitori istituzionali – potevano essere considerati meri investitori di capitali, vale a dire autori di una forma di investimento della ricchezza tesa ad ottenere un lucro, e non già al perseguimento del fine mutualistico.

Lo conferma l’art. 30 del TUB, che conferisce la possibilità a coloro che hanno subito il veto degli amministratori al loro ingresso nella compagine sociale la possibilità di esercitare i soli diritti patrimoniali incorporati nelle azioni acquistate e detenute.

3.2.2.- Peraltro, anche volendo riconoscere la qualifica di “consumatori” a taluni dei soci delle banche popolari interessate dalla riforma, si dovrebbe necessariamente concludere per l’assenza dell’imprescindibile requisito, costantemente affermato dalla giurisprudenza del Giudice d’appello, per cui l'interesse collettivo degli Enti esponenziali deve identificarsi nell'interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non negli interessi di singoli associati o gruppi di associati;
e ciò anche nel caso in cui un provvedimento porti vantaggi ad alcuni e asseriti pregiudizi ad altri (Consiglio di Stato, sez. III, 23 giugno 2014, n. 3164;
sez. V, 7 dicembre 2015 n. 5560).

Si è visto in precedenza come, nella congerie dei soci delle banche popolari, siano enucleabili almeno quattro categorie di soci (soci clienti, soci dipendenti, soci amministratori e soci investitori), a ciascuna delle quali è riferibile un ben definito interesse, sostanzialmente confliggente con quello delle altre categorie.

L’unico interesse comune a tutte e quattro le categorie, come ripetuto, è (solo) quello alla percezione di un utile attraverso i dividendi.

Ed anche volendo escludere dal novero delle possibili categorie rappresentate dalle due associazioni ricorrenti quelle dei soci-amministratori e dei soci-investitori (cosa che, di per sé, già comporterebbe l’assenza del requisito in parola), non sarebbe ancora possibile trovare comunanza di interessi neppure tra le due categorie di soci che più potrebbero, in astratto, avvicinarsi alla prospettazione di Codacons, che afferma di tutelare gli utenti dei servizi bancari: perché, come detto, mentre i soci-clienti mirano ad una maggiore convenienza e fruibilità dei servizi bancari, invece i soci-dipendenti puntano a migliorare le proprie condizioni di lavoro e retributive all’interno delle società bancarie in questione.

Tale conflitto, per di più, emergerebbe con particolare chiarezza proprio in corrispondenza dell’unica posizione soggettiva riconosciuta dall’art. 2 del Codice del consumo in astratto riferibile al caso di specie, ossia nell’ambito dell’ “erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”, che costituisce evidente terreno di potenziale scontro tra dipendenti delle banche e fruitori dei relativi servizi.

4. – Il Collegio deve adesso delibare le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalla difesa della Banca d’Italia, la quale afferma che la disposizione per cui, in attuazione del nuovo comma 2-ter dell’art. 29 del T.U.B., introdotto dall’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015, “non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni in cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex popolare, di una maggiorazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria, o, comunque, tale da rendere possibile il controllo nella forma dell’influenza dominante” sarebbe contenuta in un atto privo di contenuto precettivo, e come tale, inidoneo a ledere direttamente la sfera giuridica dei soggetti interessati ad attuare una simile operazione economica.

Si tratterebbe, infatti, non di un atto regolamentare, quale la Circolare n. 285\2013 dell’Autorità di vigilanza, né del, pure impugnato, capitolo 4 delle “Disposizioni di vigilanza per le banche”;
bensì soltanto dall’atto di emanazione della Circolare, il quale non avrebbe autonoma portata normativa (a differenza della Circolare medesima, avente natura regolamentare);
oppure di un mero “chiarimento” esposto a seguito di un quesito proposto nell’ambito della consultazione condotta ai sensi dell’art. 4 del Regolamento della Banca d’Italia del 24 marzo 2010, di attuazione dell’art. 23 della legge n. 262 del 2005.

L’eccezione è infondata.

4.1. – Il Collegio rileva, innanzitutto, che nella produzione documentale della Banca d’Italia datata 5 ottobre 2015 si rinviene, al n. 6, uno stralcio della Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”), recante l’indice del documento nonché “Parte Terza – Capitolo 4 – Banche in forma cooperativa”.

Il capitolo 4 contiene tre sezioni: la prima intitolata “Disposizioni a carattere generale”;
la seconda, “Valore dell’attivo della banche popolari”;
la terza, “Rimborso degli strumenti di capitale”.

Vi è poi un “Allegato A” che riguarda le modalità di calcolo dell’attivo.

In tale atto, come esposto dalla difesa della Banca d’Italia, non si rinviene la clausola contestata dai ricorrenti.

Tuttavia, al numero 7 della produzione della resistente, è altresì presente uno stralcio del Bollettino di vigilanza n. 6 del mese di giugno 2015, recante il numero II.I, dedicato a “Provvedimenti di carattere generale delle autorità creditizie – Sezione II – Banca d’Italia”.

Ivi è pubblicato un documento dal titolo “Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 – (Fascicolo “Disposizioni di Vigilanza per le banche”) – 9° aggiornamento del 9 giugno 2015”.

Tale documento reca, al paragrafo 2 (“Regime di prima applicazione”) alcune disposizioni dichiaratamente volte a “facilitare il processo di adeguamento delle banche interessate” alla riforma introdotta dal decreto-legge n. 3 del 2015.

Fra di esse, quelle che affermano che “A riscontro di questi posti durante la consultazione, si forniscono indicazioni concernenti le operazioni societarie, quali le scissioni e le cessioni di rapporti giuridici in blocco, da cui risulti una s.p.a. bancaria partecipata, in misura più o meno ampia, da una società holding di partecipazioni controllata dai soci della ex “popolare”. Operazioni della specie, ove proposte, verrebbero all’attenzione della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea nell’ambito dei procedimenti amministrativi caso per caso rilevanti, quali l’autorizzazione all’attività bancaria (art. 14 TUB), l’acquisto di partecipazioni qualificate (art. 19 ss. TUB), l’autorizzazione delle scissioni (art. 57 T.U.B.) e delle cessioni di attività e passività (art. 58 TUB).”

Dopodichè, all’ultimo capoverso, si rinviene la disposizione impugnata, che afferma: “Nei procedimenti amministrativi e nell’ambito dei poteri ad essa spettanti, la Banca d’Italia valuterà le suddette operazioni avendo riguardo al rispetto non solo formale ma anche sostanziale della legge di riforma, tenendo presente che tra le finalità della stessa rientra quella di assicurare che l’attività bancaria di dimensioni rilevanti (ossia con attivo superiore a 8 miliardi di euro) sia esercitata con le forme idonee a consentire la rapida ricapitalizzazione dei soggetti vigilati, quando ciò si renda necessario, anche tramite l’ingresso di investitori esterni e l’appello al più ampio mercato dei capitali. In tale prospettiva non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni da cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex “popolare”, di una partecipazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria o, comunque, tale da rendere possibile l’esercizio del controllo nella forma dell’influenza dominante”.

4.2. - Ritiene il Collegio che l’atto in questione, per il suo contenuto, oltre che per le modalità di pubblicazione cui esso è stato sottoposto, non possa essere ridotto nella categoria degli “atti di emanazione” (di altri atti) entro cui vorrebbe relegarlo la difesa della Banca d’Italia, né che la sua portata possa essere circoscritta a quella di un semplice chiarimento assunto in fase di consultazione.

Tale atto, sotto i due richiamati aspetti (contenuto e modalità di pubblicazione), deve piuttosto essere qualificato come istruzione di vigilanza emessa dall’Autorità di settore.

Sotto il profilo della tipicità degli atti amministrativi, in particolare, osserva il Collegio che l’art. 4 del T.U.B. espressamente prevede che la Banca d'Italia, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, ppssa emanare regolamenti nei casi previsti dalla legge, ovvero impartire istruzioni, nonché adottare i provvedimenti di carattere particolare di sua competenza.

Il contenuto dell’atto in discorso, quale sopra riportato, dichiaratamente volto a conformare l’attività degli intermediari interessati nel regime di prima applicazione della riforma delle banche popolari introdotta con il decreto-legge n. 3 del 2015, ne conferma con tutta evidenza la natura tipica di istruzione di vigilanza, emessa alla luce dell’art. 4 comma 2 del T.U.B.

Inoltre, l’avvenuta pubblicazione sul “Bollettino di vigilanza” del mese di giugno 2015 indica la natura generale dell’atto in questione.

Infatti, ai sensi dell’art. 8 comma 1 del T.U.B., (“Pubblicazione di provvedimenti e di dati statistici”, in vigore fino al 26 giugno 2015, e poi modificato dal decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72, “La Banca d'Italia pubblica un Bollettino contenente i provvedimenti di carattere generale emanati dalle autorità creditizie nonché altri provvedimenti rilevanti relativi ai soggetti sottoposti a vigilanza. I provvedimenti sono pubblicati entro il secondo mese successivo a quello della loro adozione”.

4.3. – Altra questione – essenziale ai fini della valutazione dell’interesse al ricorso, qui in delibazione - è se tali istruzioni di vigilanza abbiano, o meno, portata vincolante per gli interessati.

4.3.1. - Sul punto osserva il Collegio, innanzitutto, che già la pubblicazione dell’atto nelle forme riservate dall’art. 8 T.U.B. (nel testo vigente ratione temporis) alle istruzioni di vigilanza ne fa inferire la portata generale, senza che possa rilevare in contrario la oggettiva circostanza (posta in dubbio dalla difesa della Banca d’Italia) che il relativo contenuto sia stato, o non sia stato trasfuso nel testo della Circolare n. 285 del 2013.

4.3.2. - Tanto, tuttavia, potrebbe non essere reputato di per sé sufficiente ad affermare senz’altro che il provvedimento abbia l’effetto di conformare il comportamento degli operatori di settore, in quanto, come noto, le espressioni della c.d. “soft regulation” (o di c.d. “soft law”) delle Amministrazioni indipendenti sono state spesso ritenute non già norme giuridiche cogenti, bensì il frutto di un’opera di persuasione, proveniente da soggetti istituzionali particolarmente qualificati e volta a indirizzare il comportamento degli operatori stessi.

Si tratterebbe, in altri termini, di una categoria di atti a carattere non vincolante, sebbene non del tutto privi di effetti giuridici: primo fra tutti, quello di costituire una sorta di “scudo” per gli operatori che ne osservassero il contenuto, i quali, in questo modo, si metterebbero al riparo da possibili contestazioni (specie sotto il profilo della responsabilità civile e penale) rispetto alle scelte adottate.

4.3.3. – Ritiene tuttavia il Collegio che, nel caso degli atti della Banca d’Italia, tipizzati dall’art. 4 del T.U.B., si assista ad un fenomeno diverso, che si riscontra nelle materie connotate da particolare tecnicismo.

In tali ambiti, come osservato (sebbene per altra Autorità e per altro settore economico) dal Giudice d’appello (Cons. Stato, sez. VI, 20 marzo 2015 n. 1532), “le leggi di settore attribuiscono alle Autorità di regolazione e controllo, al fine di assicurare il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, non solo poteri amministrativi individuali ma anche poteri di regolazione”.

In questi ambiti il legislatore ha, sempre più spesso, scelto di preferire strade attuative della normativa di rango primario diverse da quella, tradizionale, costituita dal regolamento governativo disciplinato dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988.

In questo senso di suole parlare di “funzione giusdicente” delle Autorità di vigilanza e regolazione (funzioni, queste ultime, che nel caso della Banca d’Italia risultano entrambe presenti e sovrapposte, come testimonia il caso di specie), perché l’esercizio dei relativi poteri non si atteggia come quello, classico, delle amministrazioni pubbliche, cui la legge attribuisce il potere di scelta discrezionale al fine di provvedere alla cura concreta di un dato interesse pubblico;
e, dunque, al fine di orientarsi in un senso o in un altro mediante una tipica facoltà di “scelta” che segue ad una valutazione comparativa di interessi (quello pubblico primario e quelli privati variamente coinvolti), che finisce per premiare uno di essi e incidere, in varia misura, gli altri.

In questi casi, invece, il legislatore conferisce un potere amministrativo che si atteggia come neutrale: ossia, non più solo come “imparziale” (nel senso risultante dall’art. 97 Cost.) rispetto agli interessi dell’uno e dell’altro dei soggetti coinvolti;
bensì nel senso che tale potere è dato per disciplinare e conformare in via preventiva gli interessi di tutti i potenziali soggetti coinvolti mediante l’attività di regolazione, e dà luogo ad atti che si definiscono, per l’appunto, di regolazione.

E’ in questo senso che questo TAR ha già avuto modo di affermare (sezione II, 6 maggio 2013 n. 4451) che la legge conferisce a tali organismi delle potestà amministrative, che non consistono nella tutela di un interesse pubblico tradizionale, quanto, piuttosto, “nella garanzia di un bene comune, perseguito attraverso la regolazione neutrale degli interessi di imprese, consumatori, utenti”.

Si tratta, quindi, di atti che, se non possono essere qualificati (per competenza ad adottarli e per procedimento di emanazione, che esulano dal disposto dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988) come regolamenti, possono senz’altro essere definiti atti amministrativi generali, aventi carattere (come pure evidenziato dal giudice d’appello: Consiglio di Stato sez. VI 20 luglio 2011 n. 4388) ontologicamente inscindibile, rappresentando l'espressione di una volontà unitaria da parte dell'autorità, la quale provvede in modo funzionalmente non frazionabile nei confronti di un complesso di interessi considerati non singolarmente, bensì come componenti di una platea unitaria ed indivisibile;
con l’avvertenza che tale carattere unitario non si perde neppure laddove il comando incida, con contenuto conformativo, sull'attività di una pluralità di soggetti.

E tanto (evidenzia ancora la citata giurisprudenza), lungi dal revocare in dubbio il carattere unitario dell'attività svolta dall'autorità di settore, costituisce proprio un mero corollario del tipico carattere erga omnes degli atti di regolazione.

4.3.4. – Una conferma della tendenza del legislatore a demandare la regolazione tecnica più complessa all’Autorità indipendente di settore è stata, recentemente, fornita dall’art. 1 comma 1 lettera t) della legge n. 11 del 2016, recante deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE e per il riordino della materia dei contratti pubblici.

Per la prima volta (come notato nel parere n. 855 del 1° aprile 2016 reso dalla competente Commissione speciale del Consiglio di Stato), il legislatore italiano ha utilizzato un termine sino a quel momento estraneo alla disciplina nazionale delle fonti, quale quello di “strumenti di regolamentazione flessibile”, riferendolo ad “atti di indirizzo quali linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri anche dotati di efficacia vincolante” di competenza (in quella specifica materia) dell’ANAC.

Nella medesima norma è espressamente fatta salva l’impugnabilità di tali atti in sede giurisdizionale.

E’ importante notare che, almeno nella materia dei contratti pubblici, il citato parere del Consiglio di Stato ha espressamente affrontato il problema della natura giuridica degli atti di regolazione in discorso, escludendone la natura normativa extra ordinem per “assenza di un fondamento chiaro per un’innovazione così diretta del nostro sistema delle fonti”.

Ed affermando, invece, la autonoma esistenza di una categoria “di atti di regolazione delle Autorità indipendenti, che non sono regolamenti in senso proprio ma atti amministrativi generali e, appunto, ‘di regolazione’.”

E, ciò che più qui rileva, tale natura è stata affermata proprio per effetto della natura del soggetto emanante, in quanto Autorità amministrativa indipendente.

4.3.5. - La sicura portata precettiva delle norme emanate a questo fine, a parere del Collegio, è attestata anche dalla necessità, affermata costantemente in giurisprudenza (ancora Cons. Stato, sezione VI, 20 marzo 2015 n. 1532) che la perdita di legalità sostanziale ad esse connaturata sia bilanciata da una fase di consultazione preventiva degli operatori (proprio come accaduto nel caso di specie, e salvo quanto si dirà sul punto nell’esaminare il secondo motivo di ricorso), in cui la partecipazione procedimentale costituisce un recupero della garanzie che sono state perse in quanto la materia non è stata sottoposta al potere regolamentare del Governo di cui all’art. 17 della legge n. 400 del 1988.

Questa necessità di preventiva consultazione, per gli atti regolatori della Banca d’Italia, è espressamente posta dall’art. 23 della legge n. 262 del 2005, secondo cui i provvedimenti della Autorità in questione, aventi natura regolamentare o di contenuto generale, esclusi quelli attinenti all'organizzazione interna, devono essere motivati con riferimento alle scelte di regolazione e di vigilanza del settore ovvero della materia su cui vertono, e sono posti a disposizione degli organismi rappresentativi dei soggetti vigilati, dei prestatori di servizi finanziari e dei consumatori, secondo un procedimento di cui la stessa Autorità, in osservanza dell’ultimo comma dell’art. 23, si è dotata mediante il proprio regolamento del 24 marzo 2010.

Inoltre, nella specifica materia della riforma delle banche popolari, l’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015 ha introdotto nell’art. 29 del T.U.B. il comma 29-quater, che espressamente attribuisce alla Banca d’Italia il potere di dettare specifiche disposizioni di attuazione della nuova normativa: le quali non possono che essere sussunte negli schemi di cui all’art. 4 del T.U.B., ed essere soggette alla preventiva fase di consultazione cui si è adesso accennato.

Sul punto, il “Documento per la consultazione” versato in atti parla espressamente di “disposizioni secondarie per l’attuazione della riforma”.

4.3.6. – In definitiva, sulla scorta delle considerazioni generali relativi agli atti di regolazione delle Autorità indipendenti e di quelle, specifiche, relative all’attività normativa della Banca d’Italia, è possibile affermare la portata vincolante dell’atto di regolazione emesso da quest’ultima ed impugnato nel caso in esame.

4.4 – Una volta stabilita la portata vincolante dell’atto impugnato, diversa ed ulteriore questione, ai fini della ammissibilità del ricorso, è quella se tale precettività sia immediata, oppure se essa sia differita (come pure eccepisce la difesa della Banca d’Italia) alla concreta applicazione della disposizione al singolo caso di specie mediante apposito provvedimento dell’Autorità di vigilanza che, in ipotesi, venga a a inibire la singola operazione economica perseguita dai soci di una “ex popolare” trasformata in s.p.a. bancaria: con le relative conseguenze sulla attualità dell’interesse al ricorso.

Occorre, in altri termini, valutare se l’atto in questione, sotto il profilo della sua impugnabilità, ricada, o non, nella generale regola per cui gli atti regolamentari e quelli a contenuto generale possono essere impugnati soltanto unitamente a quelli che ne fanno applicazione.

4.4.1. - Al riguardo il Collegio ritiene che, nel caso di specie, l’interesse al ricorso sussista anche prima che l’Autorità di vigilanza abbia in concreto provveduto ad inibire una operazione quale quella ipotizzata dai ricorrenti.

Come si è detto, infatti, nel caso dell’esercizio dei poteri regolatori da parte dell’Autorità indipendente a ciò preposta, occorre discostarsi dai tradizionali parametri secondo cui l’attività provvedimentale della pubblica amministrazione ricade, di norma, nel classico rapporto dialettico fra cura concreta dell’interesse pubblico primario ed effetti di tale esercizio sugli interessi privati secondari.

Il carattere neutrale di tale funzione comporta che essa, indistintamente, conformi immediatamente l’attività di tutti i soggetti potenzialmente interessati;
e che l’esercizio del potere regolatorio sia del tutto diverso –proprio per questo- dal potere sanzionatorio eventualmente (e successivamente) esercitato dall’Autorità in caso di violazione delle disposizioni impartite.

4.4.2. - Nella fattispecie, la Banca d’Italia ha dettato istruzioni di vigilanza volte a specificare quali debbano essere gli effetti della riforma portata dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015 – anche - nel peculiare caso in cui i soci di una banca popolare poi trasformata (in attuazione della riforma medesima) da cooperativa per azioni a s.p.a. ordinaria vogliano attuare una operazione negoziale che abbia l’effetto finale di porli in una situazione di controllo di tale società.

Ed invero, come fatto palese dalle istruzioni in questione, proprio dalla fattispecie negoziale complessa presa in considerazione dalle impugnate istruzioni di vigilanza deriverebbe l’elusione del dettato normativo di riforma, in quanto detta fattispecie risulterebbe formata da negozi (la costituzione di una nuova società da parte dei soci della banca popolare trasformata in s.p.a. bancaria, l’acquisto di una data partecipazione azionaria della nuova società bancaria) in sé del tutto leciti, se considerati separatamente tra di loro (anche se soggetti ai poteri di vigilanza dell’Autorità).

Ma che, complessivamente intesi, non risultano “in linea con la riforma” secondo le istruzioni di vigilanza.

Il che – soggiunge il Collegio – equivale ad affermare dire che (tutte) le operazioni contemplate nelle istruzioni impugnate denotano una causa integrante la frode alla legge ex art. 1344 c.c., perché, se attuate, impedirebbero che fosse perseguito il fine (di questa parte) della riforma, costituito – come fatto palese dall’ultimo capoverso su riportato – dall’ingresso nella banche in questione di investitori esterni e dalla possibilità di “appello al più ampio mercato dei capitali”.

In questa prospettiva, quindi, deve ritenersi che la disposizione di vigilanza bancaria in questione, specie se letta nella sua interezza (e non nel solo capoverso impugnato) abbia l’effetto di attuare la riforma indicando la sussistenza di una rilevante limitazione alla libertà negoziale dei soggetti interessati;
mentre il dettato normativo di rango primario non prevedeva espressamente un divieto di porre in essere le operazioni negoziali descritte nell’atto gravato.

4.4.3. - E’ allora evidente quale sia la portata innovativa delle disposizioni in questione, che rispondono in pieno alla natura attuativa di tipo tecnico della regolamentazione affidata alle Autorità indipendenti.

Esse non introducono direttamente nell’ordinamento una causa di nullità “testuale”;
né potrebbero farlo, non costituendo norma di rango legislativo.

Le dette disposizioni, piuttosto, evidenziano l’introduzione di una nuova causa di nullità virtuale nell’ordinamento;
e, per questo, hanno l’effetto di indirizzare la autonomia negoziale di una data categoria di soggetti.

Questo risultato è ottenuto dall’Autorità attraverso l’evidenziazione del carattere imperativo del combinato disposto tra i commi 2 bis e 2 ter del nuovo art. 29 del T.U.B.;
perché affermare che non saranno ritenute in linea con la riforma determinate operazioni ritenute elusive di tali norme, equivale a dire che i due commi sono posti a presidio dell’interesse (ritenuto) pubblico a garantire la contendibilità sul mercato delle nuove s.p.a. bancarie e la loro conseguente rapida ricapitalizzazione.

Tale rilevazione di imperatività dei due commi dell’art. 29 T.U.B. fornita dalle istruzioni impugnate passa, in altri termini, dalla affermazione (motivo centrale nell’atto gravato) che essi non possono essere disattesi mediante un esercizio dell’autonomia privata, concretantesi in negozi di vario genere, volto ad eluderne la portata.

Questa indicazione, pur senza affermarlo espressamente, induce l’interprete ad ascrivere il complesso delle operazioni negoziali aventi finalità collidenti da quelle della riforma nell’alveo della nullità per frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c.

4.4.4. - In definitiva, la immediata impugnabilità degli atti in discorso emerge proprio dalla loro caratteristica qualificante di indirizzare immediatamente, seppure per una serie indefinita di soggetti, l’attività degli operatori di un dato settore economico, che ne risulta conformata sotto il profilo della autonomia negoziale.

Da tanto discende il conseguente onere, per i soggetti interessati alla sua (non) applicazione, alla relativa impugnazione senza necessità di atti applicativi.

Il ricorso, pertanto, è ammissibile e può essere delibato nel merito.

5. –Esso è infondato, e va respinto.

Il primo motivo deve essere disatteso (anche) per le medesime considerazioni che hanno indotto il Collegio a ritenere la immediata lesività della disposizione di vigilanza impugnata, e, di conseguenza, l’ammissibilità del ricorso.

5.1 - La prima e la terza censura del mezzo, infatti, assumono che la Banca d’Italia, nel dettare le disposizioni di dettaglio impugnate, non avrebbe potuto discostarsi dal decreto – legge n. 3 del 2015, che, all’art. 1, nel porre la riforma delle banche popolari, non prevede alcuna preclusione alla assunzione di una partecipazione di controllo della nuova s.p.a. bancaria da parte di società holding “rivenienti dalla ex popolare”, come si esprime l’atto gravato;
e, dunque, l’Autorità non avrebbe potuto introdurre nell’ordinamento ciò che i ricorrenti definiscono “un tertium genus” di banche risultanti dalla trasformazioni delle popolari (non più) società cooperative per azioni: ossia (dopo “la banca popolare “singola” e la “banca popolare capogruppo”, a seconda se la soglia di otto miliardi di attivo sia stata raggiunta da una sola società bancaria o da un gruppo bancario), anche quello della società di controllo della nuova s.p.a. bancaria mantenuto da un soggetto terzo, a sua volta controllato da soci di una “ex popolare”.

Le doglianze non possono essere condivise.

5.1.1. - La disposizione contrastata, al contrario di quanto affermato dai ricorrenti, attua in pieno il disposto dei commi 2 bis e 2 ter dell’art. 29 T.U.B., da leggere congiuntamente, per cui l’attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro, e se la banca è capogruppo di un gruppo bancario, il limite è determinato a livello consolidato;
in caso di superamento del limite suddetto, l'organo di amministrazione convoca l'assemblea per le determinazioni del caso, ponendosi le seguenti alternative, tutte da attuare entro un anno dal superamento del limite:

a) riduzione dell'attivo non è stato ridotto al di sotto della soglia;

b) trasformazione in società per azioni ai sensi dell'articolo 31;

c) la liquidazione.

5.1.2. - Occorre infatti ricordare che, nelle banche popolari in forma di società cooperativa per azioni, vige la regola del voto capitario (ossia secondo il principio “una testa un voto”, art. 30 comma 1), senza che alcuno dei soci possa detenere, direttamente o indirettamente, in base all'art. 30 comma 2, una quantità di azioni eccedente l'1% del capitale sociale, eccetto salvo gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (art. 30 comma 3);
vige, altresì, il c.d. principio della “porta aperta”, secondo il quale l'ingresso nella compagine sociale non comporta particolari qualifiche nell’aspirante socio, e, soprattutto, non comporta modifiche dell'atto costitutivo;
vige, ancora, il “principio del gradimento” degli amministratori rispetto agli aspiranti soci (art. 30 comma 5), con la conseguente tendenza degli amministratori ad autoperpertuarsi scegliendo i propri elettori.

Nel caso in esame, come si è meglio spiegato in precedenza, l’attività di regolazione ha avuto l’effetto (immediato) di indirizzare, conformandola, la libertà negoziale di una data categoria di soggetti (i soci delle banche popolari in via di trasformazione per effetto del nuovo art. 29 del T.U.B.) al fine (dichiarato nell’atto) di evitare operazioni negoziali elusive dello scopo ultimo della riforma introdotta con l’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015: che, come ripetuto, è quella di affrancare le maggiori banche popolari dalla oramai inidonea forma di società cooperativa e di favorirne la contendibilità sul mercato.

Questa esigenza, individuata dalla norma primaria, verrebbe frustrata ove si ritenesse possibile attuare la fattispecie negoziale complessa presa in considerazione dalle impugnate istruzioni di vigilanza: proprio perchè essa concreterebbe una operazione tesa a perpetuare sempre il medesimo assetto proprietario e di governance della “vecchia” società trasformata.

5.1.3. – Sotto il profilo appena evidenziato, la piena adesione della istruzione impugnata alle principali rationes della riforma emerge compiutamente anche dal raffronto tra la misura antielusiva in questione e la Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 3 del 2015 presentato alla Camera dei Deputati.

La relazione in questione richiama la necessità di adeguare il sistema italiano al nuovo Meccanismo unico di vigilanza degli Istituti di credito continentali, istituito dal Regolamento UE n. 1024/2013, nato per fronteggiare la crisi finanziaria che ha interessato gli intermediari europei negli ultimi anni, strumento che ha la Banca Centrale Europea al vertice della catena di controllo, cui partecipano anche le Autorità di vigilanza nazionali, e che si dirige su determinati istituti di credito ritenuti “significativi” per le dimensioni dell’attivo.

Essa afferma che requisiti fondamentali per il funzionamento dei nuovi strumenti di vigilanza sono proprio una efficace forma di governo delle banche in questione e una elevata capacità di finanziamento delle medesime: evenienze ostacolate, come affermato comunemente in dottrina, dalle caratteristiche delle banche popolari “pre-riforma”, e che, in base ad analisi condotte dal Fondo Monetario Internazionale, “la solidità delle banche dipende ampiamente dalla qualità del governo societario”.

Il che evidenzia ulteriormente la piena conformità dell’atto impugnato alla ratio della norma primaria e la conseguente infondatezza delle censure in esame.

5.1.4. – Neppure i profili di doglianza che si incentrano sulla natura (asseritamente regolamentare) della disposizione impugnata, che non potrebbe innovare rispetto alla norma primaria attuata, possono essere condivisi.

Al riguardo è sufficiente richiamare integralmente (in ottemperanza al principio della sinteticità degli atti di cui all’art. 3 del c.p.a.) quanto sopra affermato (capo 4 della presente motivazione) con riguardo alla natura dell’atto di regolazione impugnato, destinato a conformare l’attività di una indefinita platea di soggetti interessati, nell’ambito di un certo settore economico, in attuazione delle norme di rango legislativo.

Come si è visto in precedenza, l’atto della Banca d’Italia impugnato, qualificabile come istruzione ai sensi dell’art. 4 del T.U.B., ha, in realtà, natura diversa dal regolamento, iscrivendosi nella categoria degli atti amministrativi generali adottati dalle Autorità indipendenti in esercizio della neutrale funzione regolatoria, in una materia a elevato contenuto tecnico.

Come tale, esso ha la funzione di attuare la normativa primaria alla luce della necessità di adeguare alla rapida evoluzione del settore economico di pertinenza, in modo tecnicamente appropriato, le regole di condotta degli operatori del settore;
e lo ha fatto nei modi descritti in precedenza.

E questa funzione, per tutto quanto detto in precedenza, nella specie è stata pienamente rispettata.

Neppure in questo senso, quindi, la disposizione impugnata si pone in contrasto con i commi 2 bis e 2 ter del novellato art. 29 del T.U.B., sicchè la censura va respinta.

5.2. – Per comodità espositiva il Collegio ritiene, adesso, di esaminare la quarta censura contenuta nel motivo, per la quale sussisterebbe disparità di trattamento fra i “soci delle ex popolari”, che non potrebbero esercitare il controllo su di una holding che, a sua volta, controlli la nuova s.p.a. bancaria, e gli altri operatori.

Il rigetto della censura discende direttamente da quanto affermato ai superiori paragrafi 5.1.2. e 5.1.3., in cui si è evidenziato come proprio il perpetuarsi di meccanismi volti alla conservazione della medesima “governance” abbia costituito ostacolo alla piena contendibilità sul mercato della banche popolari di maggiori dimensioni, che dello scopo mutualistico delle società cooperative non conservano che la forma societaria, oramai inappropriata al fenomeno economico espresso.

E’ quindi sufficiente fare pieno rinvio a quanto esposto sul punto.

5.3. – Parimenti infondato è il secondo profilo di doglianza contenuto del motivo, per il quale, avendo (in tesi) disatteso quanto previsto nell’art. 29 commi 2 bis e 2 ter del T.U.B., la Banca d’Italia avrebbe violato la riserva di legge che deve assistere sia le condotte sanzionate e le relative sanzioni (art. 1 della legge n. 689 del 1981) che, in generale, qualsiasi prestazione patrimoniale imposta (art. 23 Cost.).

Al riguardo basta rilevare che la disposizione regolamentare impugnata non reca alcuna fattispecie sanzionatoria, sicchè il richiamo alla riserva di legge prevista per gli illeciti amministrativi risulta impropriamente effettuato.

Si tratta invece, come ripetuto, di una istruzione che esplicita l’esistenza di una limitazione alla libertà negoziale di una data categoria di soggetti, e che specifica la portata elusiva di operazioni economiche ritenute dell’Autorità in contrasto con una delle ragioni di fondo della riforma delle banche popolari.

5.4. – Neppure l’art. 23 della Costituzione risulta invocato a proposito, in quanto le istruzioni, nella parte in cui risultano impugnate dai ricorrenti, non recano la previsione di alcuna prestazione imposta.

Esse recano, invece, come ampiamente ripetuto, una chiara indicazione del contrasto di alcune operazioni economiche con i commi 2 bis e 2 ter del nuovo art. 29 del T.U.B.

In ogni caso, come si è visto in precedenza, le istruzioni impugnate hanno avuto l’effetto di attuare pienamente uno dei capi fondamentali della riforma delle banche popolari prevista con l’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, sicchè alcuna violazione della delega legislativa può essere ravvisata.

In conclusione, il primo motivo va respinto.

6. – Eguale sorte segue il secondo motivo, con il quale i ricorrenti lamentano che il Documento di consultazione posto a disposizione delle categorie interessate dalla riforma ai sensi dell’art. 23 della legge n. 262 del 2005 dalla Banca d’Italia, formulato ai fini della analisi di impatto della regolamentazione che essa si proponeva di introdurre in attuazione dell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, non recherebbe alcuna indicazione della disposizione impugnata in questa sede.

6.1 – Occorre ribadire che l’art. 23 citato prevede che, per effettuare l’analisi di impatto della regolazione (istituto tipico del c.d. soft law, ovvero dei provvedimenti regolatori delle Autorità indipendenti), i provvedimenti della Banca d'Italia aventi natura regolamentare o di contenuto generale, esclusi quelli attinenti all'organizzazione interna, devono essere motivati con riferimento alle scelte di regolazione e di vigilanza del settore ovvero della materia su cui vertono, e devono essere accompagnati da una relazione che ne illustra le conseguenze sulla regolamentazione, sull'attività delle imprese e degli operatori e sugli interessi degli investitori e dei risparmiatori.

Inoltre, per garantire il rispetto del principio di proporzionalità, inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari, l’Autorità deve consultare gli organismi rappresentativi dei soggetti vigilati, dei prestatori di servizi finanziari e dei consumatori.

L’attuazione di questa norma nell’ordinamento interno dell’Istituto, pure prevista dall’art. 23, è stata adottata dalla Banca d’Italia con il proprio Regolamento del 24 marzo 2010, il quale, per quanto qui interessa, prevede, all’art. 4, una fase di consultazione in forma pubblica mediante pubblicazione sul sito internet istituzionale dell’Autorità di un documento nel quale sono illustrate una o più ipotesi di regolamentazione;
ed all’art. 3 che, fra le ipotesi escluse da tale procedimento di garanzia, ricada quella degli “interventi regolamentari che consistono nel recepimento di normative sovraordinate con ristretti margini di discrezionalità”.

6.2 – Muovendo da quest’ultimo aspetto, è bene subito evidenziare che, a parere del Collegio, la possibile esclusione dalla analisi di impatto dovuta al pedissequo recepimento di normative sovraordinate avrebbe potuto riguardare, in linea astratta, altro aspetto qualificante della riforma, relativo alle limitazioni al rimborso dell’investimento azionario in caso di recesso, contemplato soprattutto nel nuovo art. 28 del T.U.B., ed imposto dalla necessità di adeguare l’ordinamento italiano alla nuova disciplina comunitaria in materia di vigilanza bancaria e, in particolare, al Regolamento UE/575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, che agli articoli 28 e 29 impone –per quanto qui interessa- la presenza di “Strumenti del capitale primario di classe 1” (su cui infra).

E, tuttavia, il paragrafo 2 del “Documento di consultazione” depositato al n. 3 della produzione della resistente datata 5 ottobre 2015, dedicato a “Rimborso degli strumenti di capitale”, attesta che anche quegli aspetti sono stati posti in consultazione.

Non è invece ricompreso nella deroga alla analisi di impatto l’aspetto della riforma specificamente preso in considerazione dal ricorso oggi in esame, il quale, come si è ampiamente detto, ha – in definitiva - contribuito a definire alcune ipotesi di nullità negoziale virtuale per frode alla legge che, altrimenti, proprio per questa loro natura, avrebbero dovuto essere di volta in volta ricavate, con esiti incerti, dal combinarsi tra di loro di singoli negozi giuridici che, se isolatamente considerati, avrebbero potuto ritenersi validi.

6.3. – Come si è accennato in precedenza, e come evidenziato correntemente dalla giurisprudenza (da ultimo, Cons. Stato, sezione VI, n. 1532\2015), la fase di consultazione in esame consente che, l’esercizio dell’attività di regolazione da parte delle Autorità di settore, sia assicurata la c.d. legalità in senso procedimentale.

Ciò in quanto “il principio di legalità impone non solo la indicazione dello scopo che l’Autorità amministrativa deve perseguire ma anche la predeterminazione, in funzione di garanzia, del contenuto e delle condizioni dell'esercizio dell'attività (come nel caso dell’esercizio dell’attività regolamentare ordinariamente esercitata dallo Stato ai sensi dell’articolo 17 della l. 23 agosto 1988, n. 400). Nel caso degli atti di regolazione adottati dalle Autorità amministrative di settore (quali quelli della cui legittimità qui si discute) la legge, tuttavia, normalmente non indica nei dettagli il relativo contenuto, né descrive in modo prescrittivo le condizioni e i limiti di esercizio della relativa attività. La parziale deroga al principio di legalità in senso sostanziale (che si estrinseca, in particolare, attraverso la tipica forma di esercizio del potere regolamentare ai sensi dell’articolo 17, cit., secondo un sistema ispirato a una rigorosa tipicità) si giustifica, nel caso delle Autorità indipendenti, in ragione dell'esigenza di assicurare il perseguimento di fini che la stessa legge predetermina: il particolare tecnicismo del settore impone, infatti, di assegnare alle Autorità il compito di prevedere e adeguare costantemente il contenuto delle regole tecniche all'evoluzione del sistema. Una predeterminazione legislativa rigida risulterebbe invero di ostacolo al perseguimento di tali scopi: da qui la conformità a Costituzione, in relazione agli atti regolatori in esame, dei poteri impliciti”.

Ed allora, soccorre il principio di legalità in senso procedimentale, che si concreta in forme di partecipazione quali la consultazione in esame.

6.4 – Se queste sono le ragioni della partecipazione procedimentale in questione, occorre concludere che – non dissimilmente da quanto accade nei procedimenti amministrativi “classici”, governati dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990 - le garanzie da essa apprestate sono soddisfatte qualora gli interessati abbiano potuto effettivamente partecipare alla fase di consultazione;
senza che possano ostare a questa affermazioni circostanze meramente formali.

Sotto questo profilo si può osservare che, sebbene non riporti testualmente la disposizione poi inserita nelle istruzioni pubblicate a giugno del 2015, il Documento di consultazione in atti del 9 aprile 2015, al suo ultimo capoverso, espone chiaramente l’intenzione dell’Autorità di vigilanza di porre particolare attenzione, in sede di regime transitorio, a “deliberazioni comportanti operazioni, ordinarie e straordinarie, soggette a comunicazione o autorizzazione”, tra cui risultano espressamente citate proprio “fusioni, scissioni, trasformazioni, cessioni di rapporti giuridici in blocco” che poi sono state oggetto della previsione antielusiva impugnata.

La precisazione contenuta nel Documento di consultazione, che rimanda alla prospettata applicazione delle “regole dettate dal TUB e dalle disposizioni di vigilanza per le banche concernenti gli obblighi di comunicazione e i criteri e termini dei relativi procedimenti amministrativi”, riporta agevolmente l’interprete alla sussistenza di un contrasto fra il risultato di tali operazioni negoziali con una delle ragioni ispiratrici della riforma;
ed anticipa, quindi, quale sarebbe stata sul punto la posizione (preclusiva alle dette operazioni) della Autorità in sede di regolazione.

Ne segue il rigetto del motivo in esame.

7. – L’ultimo motivo, svolto in via subordinata rispetto ai primi due, assume l’illegittimità degli atti impugnati in via derivata dalla prospettata illegittimità costituzionale, sotto vari aspetti, dell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, per cui i ricorrenti chiedono a questo TAR di sollevare le relative questioni davanti alla Corte Costituzionale.

Le questioni sono manifestamente infondate.

7.1. - Con la prima di esse i ricorrenti assumono il contrasto del decreto legge n. 3 del 2015 con l’art. 77 comma II Cost., poiché il potere di decretazione d’urgenza attribuito al Governo sarebbe stato, qui, esercitato in assenza dei presupposti di necessità ed urgenza, trattandosi di una riforma strutturale delle banche popolari, e risolvendosi in una “trasformazione secca” della banche poplari in s.p.a. contro il principio di proporzionalità.

7.1.1. - La valutazione cui è chiamato questo TAR, circa la sussistenza della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata passa necessariamente per una valutazione di evidenza (o di non evidenza) dei presupposti di necessità ed urgenza di cui all’art. 77 comma II Cost. nell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015.

Osserva il Collegio che, quando è stata chiamata a scrutinare la compatibilità di una riforma ordinamentale (quella della disciplina delle Province: sentenza n. 220/2013), la Corte Costituzionale ha affermato che essa non poteva essere interamente condizionata dalla contingenza, “sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza»”.

La decretazione di urgenza potrebbe quindi, secondo la medesima Corte, essere legittimamente adottata solo per incidere su singoli aspetti della normativa di settore (in quel caso, degli enti locali), secondo valutazioni di opportunità politica del Governo, sottoposte al vaglio successivo del Parlamento.

Nel caso della radicale trasformazione delle Province, in particolare, la Corte ha ritenuto impossibile la modifica per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale, poiché la relativa esigenza non era nata nella sua interezza e complessità (già da tempo dibattute), da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza».

7.1.2. – Dette affermazioni devono, tuttavia, essere temperate con riferimento ad altre numerose pronunzie, in cui la Corte Costituzionale ha ritenuto che il sindacato sull'esistenza dei presupposti della necessità e dell'urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge, può essere esercitato solo nel caso in cui la mancanza di tali presupposti sia “evidente” (sentenze n. 6 e n. 285 del 2004, n. 16 del 2002, n. 398 del 1998, n. 330 del 1996, n. 29 del 1995, n. 171 del 2007, n. 83 del 2010).

In particolare, nella sentenza n. 171 del 2007, il Giudice delle Leggi ha precisato la ragione per cui l’assenza dei presupposti atti a legittimare la decretazione d’urgenza debba risultare evidente, affermando che “L'espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti alla cui ricorrenza è subordinato il potere del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie – ossia i casi straordinari di necessità ed urgenza – se da un lato, come si è detto, evidenzia il carattere singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti di una Repubblica parlamentare, dall'altro, però, comporta l'inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”.

In definitiva, secondo la citata – e cospicua – giurisprudenza costituzionale, la verifica del rispetto delle condizioni fissate dall’art. 77 comma II della Costituzione non presuppone (come vorrebbero i ricorrenti) una valutazione in astratto, a tenore della quale il fatto stesso che il Governo abbia posto mano alla riforma della disciplina di un dato settore comporterebbe, solo per questo, la violazione del parametro costituzionale.

Per la Corte, invece, questa verifica deve essere effettuata in concreto: ossia in ragione della singolarità del caso regolato alla luce di “una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”.

7.1.3. - Al riguardo occorre, allora, fare innanzitutto riferimento all’epigrafe del decreto legge n. 3 del 2015, che, per giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza nella materia in questione, richiama “la straordinaria necessità ed urgenza di avviare il processo di adeguamento al sistema bancario agli indirizzi europei per renderlo competitivo ed elevare il livello di tutela dei consumatori e di favorire lo sviluppo dell'economia del Paese, promuovendo una maggiore patrimonializzazione delle imprese italiane ed il concorso delle piccole e medie imprese nei processi di innovazione del sistema produttivo”, nonché “la straordinaria necessità ed urgenza di adottare disposizioni volte a favorire l'incremento degli investimenti, l'attrazione dei capitali e degli investitori istituzionali esteri, nonché favorire lo sviluppo del credito per l'export”.

Dunque, secondo il Governo della Repubblica, la necessità di ricorrere alla decretazione d’urgenza era correlata all’esigenza di promuovere adeguare il sistema bancario italiano “agli indirizzi europei” e a quella di favorire gli investimenti nel capitale delle banche popolari mediante l’attrazione di investitori istituzionali e dei relativi capitali anche dall’estero.

Questi fenomeni, anche secondo le prospettazioni difensive delle resistenti, erano ostacolati dalla particolare configurazione delle banche popolari italiane (di cui si è detto in precedenza), oramai aventi solo la forma, ma non la sostanza, di cooperative (alcune delle quali addirittura quotate in borsa), e però caratterizzate da istituti (quali, soprattutto, il voto capitario, il gradimento all’ingresso di nuovi soci ed il limite all’assunzione di deleghe assembleari) idonei a limitare la contendibilità sul mercato degli assetti proprietari, ad influenzare fortemente la elezione degli amministratori e, di conseguenza, ad orientare in senso conservativo le scelte di competenza di questi ultimi.

7.1.4. - Si può rilevare che, in linea astratta, le esigenze richiamate dall’epigrafe del decreto legge si palesano, in sé, neutre sotto il profilo della straordinaria necessità ed urgenza della loro soddisfazione, atteso che esse non sono accompagnate dall’esplicazione delle ragioni per cui il processo in questione si imporrebbe come urgente.

Più compiutamente, tuttavia, le ragioni d’urgenza emergono – secondo una valutazione del caso concreto, postulata dalle su richiamate pronunzie della Corte Costituzionale – dalla Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 3 del 2015 presentato alla Camera dei Deputati, prodotta in giudizio dall’Istituto al n. 1 del deposito datato 5 ottobre 2015.

La relazione in questione richiama, innanzitutto, la necessità di adeguare il sistema italiano al nuovo Meccanismo unico di vigilanza degli Istituti di credito continentali, istituito dal Regolamento UE n. 1024/2013, nato per fronteggiare la crisi finanziaria che ha interessato gli intermediari europei negli ultimi anni, strumento che ha la Banca Centrale Europea al vertice della catena di controllo, cui partecipano anche le Autorità di vigilanza nazionali, e che si dirige su determinati istituti di credito ritenuti “significativi” per le dimensioni dell’attivo.

Essa afferma che requisiti fondamentali per il funzionamento dei nuovi strumenti di vigilanza sono proprio una efficace forma di governo delle banche in questione e una elevata capacità di finanziamento delle medesime: evenienze ostacolate, come affermato comunemente in dottrina, dalle caratteristiche delle banche popolari “pre-riforma”, e che, in base ad analisi condotte dal Fondo Monetario Internazionale, “la solidità delle banche dipende ampiamente dalla qualità del governo societario”.

Questa trasformazione – ancora a tenore della citata Relazione – presuppone, poi, che alle società sia lasciato un congruo periodo di tempo per la valutazione delle opzioni rese possibili dalla riforma.

7.1.5. - Ritiene il Collegio che le ragioni di urgenza enunciate nella citata Relazione di illustrativa del decreto-legge al Parlamento per la sua conversione in legge siano sufficienti a determinare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che i ricorrenti chiedono di sollevare in relazione all’art. 77 comma II Cost.

L’atto in questione ha preso in considerazione una necessità di cui può, non irragionevolmente, postularsi l’urgenza: ossia l’esigenza di adeguare l’ordinamento italiano ad una nuova strutturazione dell’attività di vigilanza che interessa i maggiori intermediari di questa categoria, concepita su scala europea dal diritto dell’Unione.

Il riferimento è –come meglio esplicitato nelle difese delle Amministrazioni resistenti- alla nuova disciplina comunitaria in materia di vigilanza bancaria e, in particolare, al Regolamento UE/575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, che agli articoli 28 e 29 impone –per quanto qui interessa- la presenza di “Strumenti del capitale primario di classe 1” .

Si tratta del “patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca” cui fa riferimento il nuovo comma 2-ter dell’art. 28 T.U.B., che pone limiti al rimborso della partecipazione azionaria del socio in caso di recesso, ove ciò sia necessario al fine di computare in tale parte del patrimonio le azioni non rimborsate, secondo il principio c.d. del bail-in, per cui la solidità della banca deve essere assicurata, innanzitutto, dal proprio patrimonio.

Ebbene, la su citata fonte comunitaria impone che, tra gli altri requisiti, gli strumenti di capitale atti a garantire tale computo siano –secondo la dizione del Regolamento- “perpetui”, ossia sempre disponibili dalla banca.

Questa caratteristica è garantita dalla facoltà che la banca, a determinate condizioni, neghi il rimborso di una parte dell’investimento di capitale al socio che intenda uscire dalla compagine societaria: facoltà che il diritto interno non riconosceva, e che è stata introdotta nell’ordinamento italiano, per la prima volta, proprio dall’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015 mediante l’inserimento del comma 2-ter nell’art. 28 del T.U.B. in materia di banche popolari (e che è poi è stata estesa a tutte le aziende di credito dal decreto legislativo n. 180 del 2016).

Sotto questo profilo, quindi, il decreto-legge attua l’adeguamento a quanto dispone l’art. 29 comma 2 del Regolamento del parlamento Europeo e del Consiglio n. 575\13, che tra i requisiti di tali strumenti di capitale prevede anche: “Per quanto riguarda il rimborso degli strumenti di capitale sono soddisfatte le seguenti condizioni:

a) ad eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile, l'ente può rifiutare il rimborso degli strumenti;

b) se la normativa nazionale applicabile vieta all'ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le disposizioni che governano gli strumenti consentono all'ente di limitare il rimborso;

c) il rifiuto di rimborsare gli strumenti o, se del caso, la limitazione del rimborso degli strumenti non possono costituire un caso di default da parte dell'ente.”

In particolare, la norma interna ha scelto di adottare la ipotesi sub b), ovvero quella di non precludere per intero il rimborso;
e ha altresì scelto che tale limitazione sia solo eventuale (ipotesi sub c).

Tanto basta a dimostrare che, nell’occasione, il ricorso alla decretazione di urgenza, pur attuato in presenza di una riforma strutturale di un dato settore dell’ordinamento giuridico, è stato condotto alla luce di circostanze che (come consentito dalla giurisprudenza del Giudice delle leggi citata in precedenza), alla luce della valutazione di circostanze concrete e contingenti, ragionevolmente potevano indurre all’utilizzo del decreto-legge.

7.1.7. - A questa constatazione deve arrestarsi la delibazione di manifesta infondatezza attribuita al giudice a quo;
il quale non può addentrarsi a sindacare né l’effettiva sussistenza di una tale urgenza, né, tanto meno, a valutare la congruità delle misure in concreto adottate per fronteggiarla.

Si tratta, infatti, di aspetti che involgono l’insindacabile campo della discrezionalità sotto il profilo, proprio delle questioni di legittimità costituzionale -ancorchè nei sommari limiti riservati alla delibazione del giudice a quo- per cui le scelte legislative sono sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (C. Cost., sentenza 79/2016).

7.1.8. - Ritiene poi il Collegio che la violazione dell’art. 77 comma II Cost. non emerga neppure dal fatto che l’art. 1 comma 2 del decreto legge preveda che, in sede di prima applicazione del decreto, le banche popolari si adeguino a quanto stabilito dai nuovi commi 2-bis e 2-ter del nuovo articolo 29 del TUB entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d'Italia.

I detti commi 2 bis e 2 ter dell’art. 29 prevedono, come detto, che, in caso di superamento di un limite dell’attivo pari a otto miliardi di euro, l'organo di amministrazione deve convocare l'assemblea per deliberare, entro un anno, la riduzione dell’attivo al di sotto della soglia, oppure la trasformazione della banca in società per azioni, oppure la liquidazione.

E’ del tutto evidente che la disposizione dell’art. 1 comma 2 non prevede una entrata in vigore differita dell’obbligo di adeguamento, che risulta immediato, ma attuabile nel termine di diciotto mesi.

La norma, quindi, del tutto ragionevolmente, prevede un adeguato lasso di tempo dall’entrata in vigore dopo che la Banca d’Italia abbia dettato le relative disposizioni di attuazione (come pure previsto nell’art. 29 al nuovo comma 2-quater), in quanto concede agli istituti di credito interessati un congruo termine per operare le scelte e le conseguenti misure alternative –ma obbligatorie- di riforma strutturale connesse al superamento del limite di otto miliardi di euro di attivo.

In questa ottica emerge che risulta rispettato il principio secondo il quale i decreti-legge “sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità” (ancora Corte Cost. n. 220\2013), come postulato dall’art. 15 comma 3 della legge n. 400 del 1988, il quale prevede che essi debbano contenere misure di immediata applicazione.

7.2.- I ricorrenti denunziano, poi, il contrasto con l’art. 3 Cost., per la affermata disparità di trattamento tra soci di un banca popolare “ante riforma” poi trasformata in s.p.a., cui sarebbe precluso il controllo della nuova società per azioni bancaria mediante apposita holding, e soggetti diversi da costoro, cui, invece, tale controllo sarebbe consentito.

Neppure tale profilo di doglianza supera lo scrutinio di non manifesta infondatezza.

Al riguardo è sufficiente richiamare, in ossequio al principio di sinteticità degli atti, quanto affermato in precedenza circa la necessità, sottesa alla riforma in esame, di evitare operazioni negoziali elusive dello scopo ultimo della riforma introdotta con l’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, ovvero quello di affrancare le maggiori banche popolari dalla oramai inidonea forma di società cooperativa e di favorirne la contendibilità sul mercato, che verrebbe frustrato ove si ritenesse possibile attuare una fattispecie negoziale complessa, quale quella presa in considerazione dalle impugnate istruzioni di vigilanza, che finirebbe per attuare una operazione tesa a perpetuare sempre il medesimo assetto proprietario e di governance della “vecchia” società trasformata.

7.3.- Secondo i ricorrenti, infine, il decreto legge n. 3 del 2015, ove ritenuto idoneo a precludere ai soci delle “ex-popolari” operazioni di controllo delle nuove società bancarie derivanti dalla trasformazione di cui all’art. 29 commi 2 bis e 2 ter del nuovo art. 29 T.U.B., colliderebbe con l’art. 41 Cost., per indebita compressione della libertà di iniziativa economica, e con l’art. 42 Cost., per violazione del diritto di proprietà in materia dominata dal principio di riserva di legge.

7.3.1. - Al riguardo il Collegio ritiene sufficiente osservare che, innanzitutto, il principio costituzionale di cui all’art. 42 invocato riguarda la tutela del diritto reale di proprietà e le possibilità di sua ablazione da parte della mano pubblica.

Di tale ablazione di un dato diritto reale, ed ancora meno di una sua destinazione alla mano pubblica, le istruzioni in parola non fanno menzione alcuna: posto che oggetto dell’impugnazione oggi in esame è unicamente l’atto regolatorio nella parte in cui ritiene non consentite operazioni elusive della trasformazione imposta (in alternativa alla riduzione dell’attivo o alla liquidazione) alle banche popolari con attivo superiore a 8 miliardi di euro in s.p.a. bancarie dal nuovo art. 29 T.U.B.

7.3.2. – Neppure la questione che si appella alla libertà di iniziativa economica, tutelata dall’art. 41 Cost., può essere ritenuta non manifestamente infondata.

E’ noto, infatti, che le clausole generali di utilità sociale e fini sociali, di cui pure fa menzione l’art. 41, legittimano l’introduzione di vincoli e limiti alla libertà di iniziativa economica, anche senza che il legislatore ordinario ne faccia espressa menzione (C. Cost., sentenza n. 94/2013), ”essendo sufficiente «la rilevabilità di un intento legislativo di perseguire quel fine e la generica idoneità dei mezzi predisposti per raggiungerlo”, salvo il limite dell’arbitrio (qui escluso per le ragioni dette in precedenza).

E, secondo il Giudice delle leggi, i citati limiti intrinseci alla libertà di iniziativa economica privata sono funzionali alla salvaguardia di valori di rilievo costituzionale, ivi compreso quello di un assetto competitivo dei mercati (che, come detto, è uno dei fini principali della riforma in questione): e ciò a tutela delle stesse imprese e dei consumatori (ancora la sentenza n. 94/2013).

Ne segue il rigetto della doglianza.

8. – In conclusione, il ricorso è infondato, e va respinto.

La novità e la complessità delle questioni trattate inducono all’integrale compensazione delle spese di lite tra tutte le parti.

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