TAR Torino, sez. I, sentenza 2015-07-10, n. 201501168

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Torino, sez. I, sentenza 2015-07-10, n. 201501168
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Torino
Numero : 201501168
Data del deposito : 10 luglio 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00814/2013 REG.RIC.

N. 01168/2015 REG.PROV.COLL.

N. 00814/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 814 del 2013, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv. S F e M O, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Torino, Via A. Peyron N.10;

contro

MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Torino, domiciliata in Torino, corso Stati Uniti, 45;

per l'accertamento

e la pronuncia, anche con sentenza costitutiva, della responsabilità della parte convenuta, e conseguentemente, per sentir accogliere le seguenti conclusioni:

a) condannare i convenuti, in via solidale e/o alternativa tra loro, al pagamento a favore del ricorrente di tutti i danni dallo stesso subiti nell'occorso de quo che si indicano, anche in via equitativa, in euro 160.813,00 a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali, o somma maggiore o minore accertanda in corso di causa, e comunque così composta: - danno non patrimoniale da inabilità parziale minima: euro 64.500,00;
- danno biologico permanente: euro 66.313,00;
- morali: euro 30.000,00.

b) dichiarare e pronunciare, anche con sentenza costitutiva, il diritto del ricorrente a conseguire il grado di caporal maggiore e pertanto a venire conseguentemente impiegato per ulteriori anni due in qualità di volontario nelle forze armate italiane pronunciando se del caso l'invalidità di ogni atto contrario compreso quello di congedo, ed assumendo gli eventuali ulteriori provvedimenti al riguardo per il riconoscimento da parte dei convenuti di tale statuizione.

c) in via subordinata al mancato accoglimento di quanto al punto b), dichiarare tenute e condannare le parti convenute a risarcire a favore del ricorrente il danno patrimoniale da questi subito e subendo, nella misura di euro 30.570,00 per lucro cessante ed euro 30.000,00 per perdita di chance, da liquidarsi anche in via equitativa, da aggiungersi al danno non patrimoniale richiesto di cui al punto a), quest'ultimo comunque sempre richiesto e dovuto anche in caso di accoglimento della domanda principale sub b.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 22 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, comma 8;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 giugno 2015 il dott. Ariberto Sabino Limongelli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con ricorso notificato il 19 luglio 2013 e depositato il 14 agosto successivo, il ricorrente ha premesso di aver svolto servizio presso il Reparto Logistico -OMISSIS-come VFA per 18 mesi e successivamente come VFP1 presso la Caserma -OMISSIS-per due anni, dal 27 giugno 2005 al 26 giugno 2007;
dal 27 giugno 2008, in quanto vincitore del concorso VFP4, egli è stato assegnato alle 36^ Compagnia “-OMISSIS-

1.1. Ha esposto il ricorrente che, dopo il primo periodo svolto ottimamente presso -OMISSIS- e presso la -OMISSIS-, ove conseguiva valutazioni sempre eccellenti dai propri superiori gerarchici, a far data dall’assegnazione al 3° Reggimento Alpini egli veniva fatto abitualmente oggetto di trattamenti vessatori e persecutori (epiteti e locuzioni dispregiative da parte dei superiori gerarchici e dei militari più anziani;
trattamenti umilianti e discriminatori durante gli addestramenti e l’attività ginnico-sportiva;
assegnazione di incarichi umilianti e demansionanti) finalizzati ad emarginarlo e ad indurlo ad abbandonare la vita militare.

1.2. Ha esposto il ricorrente che gli episodi di emarginazione e di umiliazione si inasprivano a seguito di un periodo di 63 giorni di licenza straordinaria di convalescenza, usufruito dal ricorrente dal 23 settembre al 24 novembre 2009 a causa di un infortunio ad una gamba occorsogli durante una marcia di addestramento in montagna, infortunio regolarmente diagnosticato dagli ufficiali medici dell’Ospedale Militare. A far data dal rientro in servizio dopo l’infortunio, il ricorrente subìva un crollo della propria notazione caratteristica (rispetto al periodo precedente in cui aveva conseguito valutazioni complessivamente positive) e diveniva oggetto di una pressione ancora più forte da parte dei propri superiori gerarchici, finalizzata ad isolarlo dal resto del gruppo e a portarlo all’abbandono della vita militare.

1.3. In particolare, a causa dell’assenza maturata in occasione del predetto infortunio, il ricorrente non conseguiva la valutazione positiva necessaria per la promozione al grado di Caporal Maggiore, concessa invece a tutti i suoi parigrado, al che faceva seguito l’impossibilità di ottenere la rafferma biennale al termine dei quattro anni di ferma.

1.4. Di conseguenza, sebbene nel frattempo egli avesse ottenuto dal 18 febbraio 2011 il trasferimento ad altro reparto dello stesso Reggimento, ove conseguiva valutazioni nel complesso positive, il giorno 27 maggio 2012 egli era congedato dalla Forza Armata per fine della ferma quadriennale.

1.5. Ha esposto il ricorrente che a causa delle vessazioni e delle umiliazioni subite nel periodo di assegnazione alla 36^ Compagnia del Reggimento Alpini, egli sviluppava una sintomatologia ansiosa inquadrabile nel “-OMISSIS-” , produttiva di un danno biologico temporaneo in misura del 14-15%, ricollegabile causalmente alle avverse condizioni ambientali nella quali era venuto a trovarsi durante il servizio, così come certificato da alcune relazioni psichiatriche di parte prodotte in atti.

1.6. Tanto premesso, il ricorrente ha convenuto in giudizio il 3^ Reggimento Alpini e il Ministero della Difesa per sentirli condannare, in solido o in via alternativa tra loro, al risarcimento del danno da “responsabilità contrattuale” per violazione degli artt. 2087 c.c., 725, 732, 733 del Codice dell’Ordinamento Militare, ovvero a titolo di responsabilità “extracontrattuale” per violazione dell’art. 2043 c.c..

1.7. Ha quantificato il danno in complessive € 160.813,00 a titolo di “danni non patrimoniali”. Ha chiesto l’accertamento del proprio diritto a conseguire il grado di Caporal Maggiore e, quindi, ad essere impiegato per altri due anni in qualità di volontario nelle Forze Armate. In subordine, ha chiesto la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno patrimoniale nella misura di € 30.570,00 per lucro cessante ed € 30.000,00 per perdita di chance da liquidarsi anche in via equitativa, con rivalutazione e interessi legali.

1.8. In via istruttoria, ha chiesto l’ammissione di prova per interrogatorio formale e per testi sui capitoli di prova indicati ai numeri da 1 a 9 del ricorso introduttivo, nonché, ove ritenuto necessario, l’ammissione di CTU medico legale diretta all’accertamento e alla quantificazione dei danni sofferti dal ricorrente;
ha chiesto altresì l’ordine di esibizione alle Amministrazioni convenute dei registri del personale da cui ricavare i nominativi di altri militari della 36^ Compagnia da citare quali testi.

2. Il Ministero della Difesa si è costituito in giudizio depositando gli atti del procedimento amministrativo, unitamente ad una relazione sui fatti di causa a firma del Comandante del 3^ Reggimento Alpini. Nella relazione si riepilogano i fatti di causa con specifico riferimento ai profili documentati (notazioni caratteristiche e sanzioni disciplinari), mentre in relazione “alla parte che potrebbe avere implicazioni penali”, quali i comportamenti asseritamente vessatori e prevaricatori di superiori gerarchici, il Comandante riferisce di averne informato la Procura Militare della Repubblica di Verona in data 28 novembre 2011 e di non avere notizie sullo stato dell’eventuale procedimento penale.

3. L’Avvocatura distrettuale dello Stato ha depositato una memoria difensiva, nella quale, oltre a richiamare il contenuto della relazione del Comandante del Reggimento, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrato, e in subordine, nel merito, ha contestato il fondamento del ricorso e ne ha chiesto il rigetto.

4. In prossimità dell’udienza di merito, la difesa di parte ricorrente ha depositato una breve memoria conclusiva, insistendo nelle proprie deduzioni e richieste.

5. All’udienza pubblica del 4 giugno 2015, la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. L’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dalla difesa erariale è infondata.

In giurisprudenza è stato affermato che “Nel caso di controversia avente ad oggetto la richiesta di accertamento di pratiche di mobbing che sarebbero state attuate da colleghi e superiori nei confronti di un militare nell'ambiente di lavoro, causandogli patologie psichiatriche, e la conseguente condanna al risarcimento del danno biologico ed esistenziale subito, in violazione dell'art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di apprestare un ambiente idoneo a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, perché si tratta di un dipendente statale (militare) in regime di diritto pubblico, perché l'oggetto della domanda principale (concernente il mobbing) trova il suo fondamento nella responsabilità contrattuale della p.a. per inosservanza di una precisa obbligazione del datore di lavoro (art. 2087 c.c.), e perché gli atti e i comportamenti denunciati dal pubblico dipendente, che avrebbero realizzato l'ipotesi di mobbing , sono da ricondurre specificamente al rapporto di servizio” (TAR Lecce, sez. III, 10 settembre 2007, n. 3143;
TAR Pescara, 23 marzo 2007, n. 339;
TAR Venezia, sez. I, 8 gennaio 2004, n. 2).

2. Nel merito, si osserva quanto segue.

Il ricorrente chiede la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, asseritamente sofferti in conseguenza della condotta mobbizzante posta in essere nei suoi confronti dai superiori gerarchici e dai militari più anziani della Compagnia: una condotta a suo dire volutamente prevaricatoria volta ad emarginarlo, estrometterlo dalla Compagnia e indurlo ad abbandonare la vita militare.

3. L’esame delle domande di parte ricorrente rende opportuna una breve premessa di carattere sistematico.

3.1. Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

3.2. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785):

- la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

- l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

- il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;

- la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

3.3. In relazione al primo dei predetti elementi, consistente nella sistematicità dei comportamenti vessatori nei confronti del dipendente e nella individuabilità di una precisa strategia persecutoria, la giurisprudenza richiede, in particolare:

- il riscontro di una diffusa ostilità proveniente dall'ambiente di lavoro, posta in essere attraverso una pluralità di condotte frutto di una vera e propria strategia persecutoria, avente di mira l'emarginazione del dipendente dalla struttura organizzativa di cui fa parte;

- non ricorre mobbing , pertanto, qualora le circostanze addotte ed accertate non consentano di individuare, secondo un principio di verosimiglianza, il carattere persecutorio e discriminante del complesso delle condotte compiute;

- in particolare, tale condotta illecita non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (Cons. Stato, VI, 6 maggio 2008 n. 2015;
T.A.R. Piemonte, sez. I, 8.10.2008 n. 2438).

3.4. In relazione al secondo e al terzo elemento di cui sopra, rappresentati dall’esistenza di un danno cagionato al dipendente quale diretta conseguenza del comportamento vessatorio persecutorio dei propri superiori gerarchici, la giurisprudenza ha enucleato i seguenti principi:

- in ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 11 agosto 2009 n 4581;
TAR. Lazio, Roma, III, 14 dicembre 2006 n. 14604);

- in altri termini, il mobbing , proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere correlato in via esclusiva, ma neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 7.4.2008 n. 2877);

- in particolare, nell'esaminare i casi di preteso mobbing , il giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica;
dall'altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc.. (TAR Perugia, I, 24 settembre 2010 n. 469),

- in altre parole, non si deve sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato;
tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale;

- tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante.

3.5. In relazione all’imputazione soggettiva dell’onere della prova, la giurisprudenza afferma la natura contrattuale della relativa azione risarcitoria, dal momento che quest’ultima rinviene il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 c.c..

Pertanto, alla luce dei principi affermati dall’art. 1218 c.c., grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sé riferibile.

Con l’ulteriore conseguenza che nel caso in cui il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva (condanna stabilmente persecutoria nei propri confronti), difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno e del conseguente obbligo risarcitorio, con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso (cfr., in tal senso, Cons. Stati, sez. VI, 13.4.2010 n. 2045).

4. Alla luce di tali principi va esaminato il caso di specie.

4.1. Nel caso di specie, il ricorrente ha lamentato, in particolare, i seguenti comportamenti di natura persecutoria:

- ha sostenuto di essere stato fatto oggetto abitualmente di epiteti e locuzioni dispregiative da parte dei superiori gerarchici e dei militari più anziani ( “Sei un cane morto! Sei un handicappato! Sei una merda! Sei un coglione! L’Esercito non è posto per te! Meglio che ti congedi!” ) con l’obiettivo di umiliarlo, di emarginarlo e di indurlo al forzoso abbandono della vita militare;

- ha riferito di essere stato pubblicamente mostrato al resto della Compagnia come un esempio di “imboscato” e di “handicappato” , come la “pecora nera” della Compagnia;
ha riferito che tale “prassi” veniva solitamente utilizzata all’interno della Compagnia anche nei confronti di altri soggetti arbitrariamente ritenuti più deboli e comunque non adatti alla vita militare;

- ha riferito che durante l’attività ginnico-sportiva, svolta nella Piazza d’Armi di Pinerolo, solitamente frequentata anche da civili, egli veniva a volte pubblicamente trascinato e spintonato da altri militari per non fargli perdere terreno rispetto agli altri, oppure gli altri commilitoni venivano obbligati a correre “avanti e indietro” per ritornare dal ricorrente, il quale veniva additato come il responsabile della maggiore fatica di tutti gli altri;
ha riferito che tale “prassi” veniva costantemente utilizzata all’interno della Compagnia anche nei confronti di altri militari;

- ha riferito di un episodio in cui, durante una marcia in montagna, egli era stato legato con una corda attorno alla vita dai suoi commilitoni e trascinato sotto gli occhi di tutti fino alla vetta, insultato con gli epiteti di cui sopra;
ha riferito che tale “prassi” veniva solitamente utilizzata all’interno della Compagnia anche nei confronti di altri commilitoni che non riuscivano a fornire la resa professionale necessaria;
ha aggiunto che tale prassi, di per sé legittima dal punto di vista operativo, veniva però di fatto impiegata in modo distorto quale pubblica “gogna” ;

- ha sostenuto che gli venivano costantemente affidati incarichi umilianti e demansionanti, come “andare a prendere il caffè o il ghiacciolo” per i quadri e i militari più anziani;

- infine, ha riferito che talvolta veniva mandato a riferire informazioni sgradite a terzi, prendendo su di sé le inevitabili lamentele e proteste.

4.2. In relazione ai fatti sopra elencati, il ricorrente ha dedotto prova per testi, indicando i nomi dei testimoni.

5. Ciò posto, ritiene il collegio che i fatti esposti dal ricorrente - anche a volerli, per mera ipotesi, ritenere provati - non configurino un comportamento univocamente vessatorio e persecutorio dell’amministrazione militare, rendendosi pertanto irrilevante disporre l’acquisizione delle prove orali dedotte dal ricorrente.

5.1. Va in primo luogo ribadito che, ai fini della valutazione della sussistenza dell'intento persecutorio, non può essere tenuto in considerazione il solo punto di vista del ricorrente, il quale assume evidentemente una visione soggettiva degli episodi denunciati, dovendosi esaminare più correttamente, da un punto di vista oggettivo, se esista un effettivo collegamento fra i suddetti episodi in relazione all’esistenza di una precisa strategia persecutoria da parte dei superiori gerarchici, diretta ad estromettere il dipendente dal resto del gruppo e ad indurlo ad abbandonare la vita militare.

5.2. O, tenuto conto dei singoli avvenimenti riferiti dal ricorrente, ritiene il collegio che non sia possibile rinvenire il richiesto collegamento, non potendosi ritenere provato l’asserito intento persecutorio dei superiori gerarchici, alla luce delle stesse prospettazioni del ricorrente:

- lo stesso ricorrente riferisce di una prassi generalizzata all’interno della compagnia, posta in essere dai superiori gerarchici e dai militari più anziani nei confronti di tutti i militari ritenuti, a torto o a ragione, “più deboli” degli altri o addirittura “inadatti alla vita militare” ;
eppure, osserva il collegio, alla fine del periodo di ferma quadriennale, solo il ricorrente non ha conseguito la promozione a caporal maggiore, mentre tutti i suoi commilitoni, anche quelli asseritamente vessati o perseguitati, l’hanno invece ottenuta;

- tale constatazione induce a dubitare che nei confronti del ricorrente sia stata posta in essere una strategia persecutoria, mentre appare decisamente più realistico che i modi (fisiologicamente) aspri e bruschi utilizzati dai superiori gerarchici e dagli anziani del gruppo, o quanto meno da taluni di essi, nei confronti dei militari più giovani e di quelli meno avvezzi alla vita militare, sia stata percepita in modo sproporzionato e distorto dall’interessato a causa di alcuni tratti congeniti della sua personalità;

- tale conclusione sembra avvalorata da alcuni spunti della relazione psichiatrica redatta dal Dipartimento Militare di Medicina Legale di Torino nel periodo in cui si collocano gli episodi riferiti dall’interessato (doc. 22 prodotto in giudizio dallo stesso ricorrente);
vi si riferisce di una “carente capacità di critica (del ricorrente) nei confronti della situazioni che racconta”, di “elementi di immaturità” , soprattutto nella “gestione delle relazioni interpersonali, in cui la dimensione egocentrica sembra prevalere su quella relazionale” ;
in termini analoghi la perizia di parte prodotta sub doc. 23, redatta dalla psicologa dott.sa T: “…emerge un’organizzazione della personalità in cui sussiste un esame di realtà e un adeguato adattamento sociale, benchè più di tipo convenzionale, di adesione acritica che non di vera integrazione. Il funzionamento affettivo esprime una forte ansia e una tendenza alla reattività che in una certa misura interferiscono nel funzionamento cognitivo: prevale, infatti, una rigidità del pensiero volta appunto a controllare l’emotività sottostante” ;

- certamente non si può escludere, anzi per certi aspetti si può persino ritenere verosimile, per fatto notorio, che ci possano essere state offese ed epiteti ingiuriosi da parte di superiori gerarchici e dei militari più anziani (sui quali sarà la magistratura penale ad indagare);
manca però la prova, in atti, che gli stessi abbiano costituito l’oggetto di una precisa strategia persecutoria finalizzata ad emarginare il ricorrente e ad indurlo ad abbandonare la vita militare, e non abbiano invece costituito, piuttosto, l’esatto contrario, ossia il frutto di consolidate prassi addestrative volte a rafforzare il carattere, oltre che il fisico, dei militari, preparandoli a gestire il proprio equilibrio psico-fisico in situazioni di esasperata tensione e a tutelare la propria incolumità senza compromettere quella dei propri commilitoni;

- in questa diversa prospettiva, ciascuno degli episodi denunciati dal ricorrente acquista un significato ben diverso da quello percepito dall’interessato: non di strategia persecutoria volta ad estromettere il militare dal gruppo, ma, al contrario, di tecnica addestrativa volta a consentire, attraverso l’imposizione di una rigorosa disciplina, la maturazione umana e professionale del militare, e quindi la sua permanenza nel gruppo, previa accettazione di regole condivise;

- non va dimenticato che anche in ambito militare lo ius corrigendi dei superiori gerarchici può implicare l’uso di coloriture ed iperboli, di toni aspri o polemici, di linguaggio figurato o gergale, purchè tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali agli interessi e ai valori che si ritengono compromessi;
nel caso di specie, sarà la magistratura penale militare – già informata dei fatti – ad accertare la veridicità degli episodi denunziati dal ricorrente e a valutare se gli stessi, ove effettivamente verificatisi, siano penalmente punibili oppure possano ritenersi giustificati dallo ius corrigendi attribuito ai superiori gerarchici;
quello che però sembra potersi escludere, per quanto attiene al presente giudizio, è la conclusione a cui perviene il ricorrente, e cioè che gli stessi siano stati posti in essere nei suoi confronti con l’unico deliberato intento di perseguitarlo, di emarginarlo dal gruppo, e quindi di costringerlo ad abbandonare la vita militare.

5.3. Del resto, non si comprende per quale motivo i superiori gerarchici avrebbero dovuto perseguitarlo per indurlo spontaneamente ad abbandonare la vita militare, quando sarebbe stato sufficiente, a tal fine, nel pieno rispetto della legalità, limitarsi ad attribuirgli valutazioni negative nelle schede caratteristiche per precludergli l’ulteriore sviluppo della carriera militare: come di fatto è poi avvenuto.

5.4. L’assenza di prova di una precisa strategia persecutoria rende infondata la domanda risarcitoria del ricorrente, non potendo nei fatti denunciati dall’interessato individuarsi i presupposti di una condotta univocamente mobbizzante posta in essere nei suoi confronti dai superiori gerarchici e dagli anziani della Compagnia.

5.5. Va anche detto, per completezza di analisi, che sebbene in ciascuna delle due relazioni peritali di parte prodotte in giudizio dal ricorrente (dott.ssa T in data 4 maggio 2012, doc. 23;
e dott. Liffredo in data 25 marzo 2013, doc. 25), si ricolleghi causalmente la sintomatologia ansiosa del ricorrente alle avverse condizioni ambientali riferite dall’interessato, si tratta, tuttavia, in entrambi i casi, di affermazioni apodittiche, generiche, basate esclusivamente sui fatti riferiti dal ricorrente ai propri medici, nella più totale assenza di ogni indagine sulla possibile origine endogena della patologia in dipendenza di taluni aspetti congeniti della personalità del paziente, tali da indurre nel soggetto percezioni enfatizzate e distorte di eventi di per sé neutri e connaturati all’attività militare;

- particolarmente evidente in tal senso è la relazione della dottoressa T, nella quale, dopo la descrizione della sintomatologia ansiosa del paziente, si conclude che quest’ultimo sarebbe affetto da un disturbo post traumatico da stress cronico “come diretta conseguenza degli eventi di mobbing di cui è stato vittima” : una conclusione, questa del “ mobbing” , che però appare calata dall’alto, senza alcuna spiegazione e senza alcun addentellato scientifico nel testo della relazione, e quindi basata, in definitiva, sulle sole dichiarazioni del paziente, supinamente condivise dalla psicologa;

- analogamente, la relazione del dr. Liffredo, dopo aver dato atto di uno stato psico-fisico del soggetto totalmente privo di profili patologici attuali, conclude che il medesimo “ha presentato una sintomatologia ansiosa (…) … per un periodo, che sulla base delle notizie riferite, può venir indicato dal gennaio 2009 e luglio 2012”; ma subito prima lo stesso medico ammette di pervenire a tale conclusione “sulla base delle notizie riferite (dall’interessato) e del documento datomi in visione” (la relazione della dott.ssa T).

5.6. Sicchè, in definitiva, non solo manca la prova di un comportamento persecutorio e mobbizzante dell’amministrazione, ma manca pure la prova del danno asseritamente sofferto dal ricorrente e del nesso di causalità tra l’uno e l’altro.

6. Quello che si può evincere dall’esame degli atti versati in giudizio è che il ricorrente è stato valutato positivamente dalle Amministrazioni militari presso cui ha prestato servizio fin tanto che non è stato assegnato al Corpo degli Alpini dove, adibito a compiti più “operativi”, è stato ritenuto dai propri superiori, per attitudini caratteriali e fisiche, non idoneo alla vita militare.

Si tratta di una valutazione ampiamente discrezionale dell’amministrazione, che a questo giudice non è consentito sindacare se non per profili di macroscopica irragionevolezza o illogicità e di travisamento del fatto;
profili che nel caso di specie il collegio non ritiene sussistenti, anche alla luce delle stesse dichiarazioni fornite dall’interessato nelle deduzioni svolte in sede procedimentale ai propri Comandi (docc. 13 e 20), nelle quali sembra di percepire, assieme ai sensi di una profonda amarezza per la situazione determinatasi in caserma, anche una sostanziale consapevolezza della propria inadeguatezza alla vita operativa del Corpo di appartenenza ( “…dopo quasi tre anni sono giunto alla conclusione che non sono un soggetto adatto all’operatività, ma il corpo militare è composto anche da altri settori…” ).

7. L’assenza di un comportamento illecito dell’amministrazione esclude altresì la sussistenza di un fatto ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., sicchè va respinta anche la domanda di risarcimento del danno extracontrattuale formulata in alternativa dal ricorrente.

8. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va conclusivamente respinto.

9. Le spese di lite possono essere integralmente compensate tra le parti avuto riguardo alla natura delle questioni esaminate e alla delicatezza degli interessi coinvolti.

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