TAR Roma, sez. 2B, sentenza 2014-06-10, n. 201406183

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 2B, sentenza 2014-06-10, n. 201406183
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201406183
Data del deposito : 10 giugno 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 11243/2012 REG.RIC.

N. 06183/2014 REG.PROV.COLL.

N. 11243/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 11243 del 2012, proposto da:
Anida - Associazione Nazionale Imprese Difesa Ambiente, S.r.l. Ecoltecnica, S.p.a. Rmb, S.p.a. Sadi Servizi Industriali, S.r.l. Semp, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dagli avv.ti P F e E R, con domicilio eletto presso l’avv. Maria Stefania Masini in Roma, via A. Gramsci, 24;

contro

Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona dei rispettivi Ministri p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato e presso la stessa domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

del decreto del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare 10 agosto 2012, n. 161;


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 febbraio 2014 il Consigliere Solveig Cogliani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso indicato in epigrafe, le Società istanti, che svolgono attività di gestione dei rifiuti e sono impegnate nello svolgimento di attività di bonifica di siti inquinati, censuravano il Regolamento impugnato per diversi profili di illegittimità ed, in primo luogo, per il contrasto con la direttiva 2008/98/CE, asseritamente dilatando la nozione di terre e rocce da scavo attraverso l’equiparazione dei residui di lavorazione di materiali lapidei e per la violazione della condizione del riutilizzo senza ulteriore trattamento, diverso dalla normale pratica industriale.

Pertanto, chiedevano l’annullamento del provvedimento gravato per i seguenti motivi:

1 – disapplicazione dell’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge dall’art. 2, l. n. 27 del 2012, per contrasto con l’art. 5, par. 2, direttiva 19 novembre 2008/98/CE, con conseguente illegittimità del d.m. impugnato per incompetenza ed eccesso di potere per violazione del giusto procedimento e per assenza dei presupposti;
incostituzionalità dell’art. 49 cit. con riferimento all’art. 11 Cost., per contrasto con l’art. 5, comma 2, direttiva 19 novembre 2008/98/CE, poiché l’apprestamento di una specifica disciplina per la gestione delle terre e rocce da scavo costituisce un’integrazione della normativa di settore, da effettuarsi solo in applicazione dei criteri stabiliti sulla scorta di misure adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui all’art. 39, par. 2 della menzionata direttiva;

2 – violazione dell’art. 49, d.l. n. 1 del 2012 cit., eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, per difetto di istruttoria e dei presupposti, per mancanza del concerto con il Ministero dei trasporti;

3 – violazione degli artt. 183 e 184 bis, d.lgs. n. 152 del 2006, degli artt. 3 e 5 della direttiva 2008/98/CE, dell’art. 39, d.lgs. n. 205 del 2010, eccesso di potere per illogicità manifesta, contraddittorietà, travisamento, assenza dei presupposti e difetto di motivazione;
violazione degli artt. 23 e ss. direttiva cit., disapplicazione dell’art. 39, comma 14, d.lgs. n. 205 del 2010 per contrasto con la direttiva medesima, con conseguente illegittimità per incompetenza, eccesso di potere per violazione del giusto procedimento e assenza dei presupposti;
incostituzionalità dell’art. 49, d.l. n. 1 del 2012 in riferimento all’art. 11 Cost. secondo quanto già sopra precisato, non essendo i materiali lapidei equiparabili ai materiali da scavo;

4 – violazione degli artt. 183 e 184 bis, d.lgs. n. 152 del 2006, violazione dell’All. C, parte IV, d.lgs. n. 152 cit., nonché degli artt. 3 e 5 della menzionata direttiva, degli artt. 208 e ss., d.lgs. n. 152 del 2006, degli artt. 23 e ss., direttiva cit. ed eccesso di potere per travisamento, contradditorietà, illogicità manifesta e sviamento, non potendosi considerare l’attività di manipolazione della terra da scavo quale pratica industriale;

5 – i medesimi vizi di cui al motivo che precede per la mancata considerazione della consistenza dell’attività in esame in vere e proprie operazioni di smaltimento di rifiuti;

6 – ancora gli stessi vizi dedotti al punto 4 e 5 poiché il profilo di illegittimità dedotta finirebbe per consentire di utilizzare materiali della predetta natura in “un’opera diversa” o “in sostituzione dei materiali di cava” in veri e propri processi produttivi;

7 – i medesimi vizi, unitamente alla violazione dell’art. 19, l. n. 241 del 1990 con riferimento alla preclusione nel nostro ordinamento dell’applicabilità di procedimenti abilitativi formatisi sul silenzio assenso alla materia;

8 – eccesso di potere per illogicità manifesta, contraddittorietà, perplessità, carenza dei presupposti, e violazione dell’art. 185, d.lgs. n. 152 del 2006, nonché violazione dell’art. 1 e ss. l. n. 241 del 1990, poiché il Regolamento prevedrebbe alcune disposizioni con impatto negativo sull’attività di bonifica dei siti inquinati, quali la prescrizione del Piano di Utilizzo per i materiali destinati ad essere riutilizzati in situ ed il mancato coordinamento con la procedura relativa alla bonifica;

9 – eccesso di potere per illogicità manifesta, contraddittorietà, perplessità, difetto di istruttoria, carenza dei presupposti, violazione degli artt. 183 e 184 bis, d.lgs. n. 152 del 2006, degli artt. 3 e 5 della direttiva cit. e degli artt. 208 e ss. d.lgs. n. 152 del 2006 con riferimento alla individuazione dei c.d. riporti.

Si costituivano le Amministrazioni per resistere al ricorso, in particolare sottolineando che in forza di quanto disposto dall’art. 5, comma 2, direttiva 2008/98/CE alla Commissione europea è attribuita la facoltà di adottare misure per stabilire i criteri da soddisfare affinché sostanze o oggetti specifici siano considerati sottoprodotti, senza escludere che il legislatore nazionale possa al contempo adottare provvedimenti normativi in materia, anche in ragione del principio di sussidiarietà di cui al “considerando” n. 49 della richiamata direttiva.

Con riferimento all’individuazione della nozione di “rocce e terre da scavo”, la difesa erariale precisava, altresì, che la normativa comunitaria esprime linee generali della materia e rimette agli Stati membri l’adozione della necessaria normativa di dettaglio.

Peraltro, a seguito delle modifiche legislative intervenute per effetto dell’art. 8 bis, l. n. 71 del 2013, di conversione con modifiche del d.l. n. 43 del 2013 cd. “Expo 2015” e degli artt. 41 e 41 bis, d.l. n. 69 del 2013, cd. “decreto del fare”, convertito con modificazioni nella l. n. 98 del 9 agosto 2013, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”, in vigore dal 21 agosto 2013, l’ambito di applicazione del regolamento risulta limitato, essendo esonerati i piccoli cantieri. Infatti, il menzionato art. 8 bis, l. n. 71 del 2013 dispone che: “le disposizioni del regolamento … si applicano solo alle terre e rocce da scavo prodotte nell’esecuzione di opere soggette ad autorizzazione integrata ambientale o a valutazione di impatto ambientale”, mentre “alla gestione dei materiali da scavo, provenienti dai cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i seimila metri cubi di materiale, continuano ad applicarsi su tutto il territorio nazionale le disposizioni stabilite dall’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in deroga a quanto stabilito dall’articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27”.

Va notato, ancora, che il predetto esonero è confermato per tutti i piccoli cantieri, anche quelli soggetti a VIA o AIA, essendo applicabile agli stessi la procedura semplificata in ragione del principio di parità di trattamento che impone la medesima procedura ai casi analoghi (cantieri sotto i 6.000 mc.) (art. 41 bis, d.l. n. 69 del 2013 cit.).

A seguito di ulteriori memorie, la causa, pertanto, era trattenuta per la decisione all’udienza di discussione.

DIRITTO

I – Osserva il Collegio che, in via del tutto preliminare, al fine di identificare il contesto ordinamentale in cui la controversia in esame deve essere inquadrata, appare necessario procedere ad una disamina della normativa succedutasi in materia.

Le terre e rocce da scavo – ovvero come è evincibile dalla stessa dizione letterale, provenienti da escavazione - in un primo tempo risultavano escluse dall’applicazione del d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. decreto Ronchi) ai sensi dell’art. 10 della l. 93 del 2001, successivamente confermato dall’art. 1 commi 17, 18 e19, l. n. 443 del 2001 (c.d. legge Lunardi).

Con la legge comunitaria n. 306 del 2003 all’art. 23 (disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee) in modifica all’art. 1 della 443/01, erano definite le condizioni per tale esclusione delle terre e rocce da scavo dalla materia dei rifiuti;
in particolare, prevedendosi a tal fine che il loro riutilizzo sia “certo ed autorizzato secondo le modalità previste dal progetto di VIA o, in mancanza, secondo le indicazioni date dalle competenti autorità amministrative”.

L’esclusione delle terre e rocce di scavo dalla materia dei rifiuti veniva in seguito regolamentata dall’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Lo stesso d.lgs 4 del 2008 (correttivo del d.lgs 152/06), entrato in vigore il 13 febbraio 2008, consentiva di escludere dalla disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo non provenienti da siti contaminati, purché destinate a determinate e previste utilizzazioni, da inserire preventivamente nei progetti approvati. La novella introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010, in attuazione della direttiva 2008/98/CE, modificava il precedente testo normativo, in particolare introducendo gli artt. 184 bis e 184 ter al d.lgs. n. 152.

L’art. 184 bis, richiamato anche dall’art. 183 comma 1, lett. “qq”, infatti, definisce il concetto di sottoprodotto, ponendo le condizioni essenziali affinché un materiale possa essere classificato in tal senso.

L’art. 184 ter, d’altro canto, nel definire la cessazione della qualifica di rifiuto, stabilisce i termini da soddisfare affinché ciò accada, fissando il presupposto che il materiale sia stato sottoposto ad una operazione di recupero e abbia di conseguenza acquisito caratteristiche effettive di utilizzabilità e collocabilità sul mercato.

Il d.l. n 1 del 2012, convertito dalla l. 24 marzo 2012 n. 27, all’art. 49, ha previsto l’emanazione entro 60 gg. del d.m. di armonizzazione della disciplina di riferimento, di cui si verte, con l’art. 184 bis sui sottoprodotti, con la contemporanea abrogazione dell’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Il Regolamento è entrato in vigore il 6 ottobre 2012.

Quanto sin qui specificato consente di escludere chiaramente – contrariamente a quanto dedotto dalla parte ricorrente con il primo motivo di ricorso - che la normativa nazionale costituisca una violazione della disciplina comunitaria in tema di rifiuti e che, in particolare, l’intervento del legislatore sia avvenuto in contrasto con la competenza sovrannazionale.

Infatti, la direttiva richiamata non vieta che gli Stati membri possano adottare misure in tema di sottoprodotti, rispettando chiaramente i criteri elaborati a livello comunitario. Anzi con la sentenza n. 127 del 2010, la Corte costituzionale ha affermato la competenza dello Stato all’attuazione delle direttive comunitarie, proprio con riferimento alla disciplina dei rifiuti, che rientra nella più ampia materia ambientale.

II – Non trova, peraltro, riscontro in fatto la censura contenuta nel secondo motivo di ricorso, con riferimento al procedimento di adozione del Regolamento in questione. Infatti, risulta per tabulas che il decreto gravato è stato emanato previo concerto tra il Ministro dell’Ambiente ed il Ministro delle Infrastrutture, secondo quanto previsto dall’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, come si evince chiaramente dalla sua intestazione.

III – Ulteriormente deve, dunque, procedersi a definire l’ambito di applicazione del decreto impugnato, ad esito delle modifiche legislative intervenute per effetto dell’art. 8 bis, l. n. 71 del 2013 ed, in particolare, del c.d. “Decreto del fare”, al fine di delimitare l’oggetto della presente controversia.

In vero, l’art. 49, del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 disponeva che “…. L’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”.

In sede di conversione, la legge n. 27 del 2012, modificava detto articolo nei seguenti termini:

- “L'utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti [da adottarsi entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente decreto].” (comma 1);

- “Il decreto di cui al comma precedente, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006”. (comma 1 bis);

- “All'articolo 39, comma 4, del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, il primo periodo è sostituito dal seguente: "Dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, è abrogato l'articolo 186”. (comma 1 ter).

L’art. 49, dunque, come sopra modificato, disponeva l’abrogazione dell’art. 186 del T.U. A., di cui all’art. 39, del d.lgs. 205/2010 (“Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”) alla “data di entrata in vigore del decreto ministeriale” di regolamentazione dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo (previsto dall’art. 184 bis, comma 2, T.U. cit.).

Per un verso, è chiaro, dunque, che la l. n. 27 del 2012 di conversione del d.l. n. 1 del 2012, secondo il meccanismo della ‘delegificazione’ ha demandato la disciplina dell’uso delle terre e rocce, come sottoprodotti, alla fonte regolamentare, autorizzando specificamente il Governo ad adottare la norma secondaria e abrogando l’art. 186 cit..

Tuttavia, in fase di conversione del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (c.d. ‘Decreto del Fare’) è stata operata una rilevante modifica sul regime delle terre e rocce da scavo.

Infatti, la l. 9 agosto 2013 n. 98 (pubblicata in G.U. n. 194 del 20 agosto 2013 – Suppl. Ordinario n. 63) ha introdotto un nuovo art. 41 bis nel contesto del d.l. n. 69/2013.

Ne è derivato che, quanto all’ambito di applicazione del d.m. n. 161 del 2012, risulta confermata l’interpretazione iniziale che vedeva la complessa disciplina dettata dal decreto limitata alla gestione dei materiali da scavo che derivano dalle “grandi opere”.

Infatti, in forza dell’art. 184 bis, comma 2 bis, d.lgs. n. 152 del 2006 – di cui all’art. 41, comma 2, d.l. n. 69/2013 - l’ambito di applicazione del Regolamento in esame è circoscritto esplicitamente solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale.

IV – Ancora deve trovare esame l’ambito di applicazione del Regolamento oggetto di censura, per quanto concerne i materiali da scavo a cui esso deve intendersi riferito.

Ai sensi dell’art. 2, il decreto ministeriale si applica alla gestione dei materiali da scavo. Ne risultano esclusi i rifiuti provenienti direttamente dall'esecuzione di interventi di demolizione di edifici o altri manufatti preesistenti che sono soggetti alle specifiche disposizioni in materia di gestione dei rifiuti.

Secondo la definizione di cui all’art. 1 del decreto, sono «materiali da scavo»:

il suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione di un'opera quali, a titolo esemplificativo: scavi in genere (sbancamento, fondazioni, trincee, ecc.);
perforazione, trivellazione, palificazione, consolidamento, ecc.;
opere infrastrutturali in generale (galleria, diga, strada, ecc.);
rimozione e livellamento di opere in terra;
materiali litoidi in genere e comunque tutte le altre plausibili frazioni granulometriche provenienti da escavazioni effettuate negli alvei, sia dei corpi idrici superficiali che del reticolo idrico scolante, in zone golenali dei corsi d'acqua, spiagge, fondali lacustri e marini;
i residui di lavorazione di materiali lapidei (marmi, graniti, pietre, ecc.) anche non connessi alla realizzazione di un'opera e non contenenti sostanze pericolose (quali ad esempio flocculanti con acrilamide o poliacrilamide).

Per quanto qui interessa, deve precisarsi, peraltro, che il d.m. in esame non può che essere inteso coerentemente con i limiti di delega di cui all’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, nella versione modificata in sede di conversione, che - come detto – prevede che esso “stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006” .

Peraltro, l’interpretazione sistematica della disciplina - dalla quale secondo i criteri ermeneutici non si può prescindere - richiede che la norma sia letta unitamente all’art. 185, d.lgs. n. 152 del 2006, che dispone da un lato l’esclusione della disciplina sui rifiuti sia con riferimento al “suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato” (comma 1 lett. c) con conseguente inapplicabilità dell’art. 184 bis, che precede, sia al “suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati” (comma 4) che, però debbono “essere valutati ai sensi, nell’ordine, degli articoli 183, comma 1, lettera a), 184-bis e 184-ter”.

Ne deriva che il d.m. in esame trova applicazione unicamente al materiale da scavo utilizzato in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati (secondo la definizione di “sito di destinazione” come “diverso dal sito di produzione” di cui all’art. 2, comma 1, lett. n) del medesimo decreto) pur dopo l’eliminazione nella versione definitiva dell’espresso richiamo all’art. 185, comma 4 menzionato, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 5, comma 4, che però riguarda una fattispecie ben diversa, che non rientra nelle previsione di cui all’art. 185 comma 1 lett. c) del Codice, perche’ riferita a siti “in cui, per fenomeni naturali, nel materiale da scavo le concentrazioni degli elementi e composti di cui alla Tabella 4.1 dell'allegato 4, superino le Concentrazioni Soglia di Contaminazione di cui alle colonne A e B della Tabella 1 dell'allegato 5 alla parte quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni”.

Da quanto sin qui esposto deriva l’inammissibilità della censura di cui al punto 2 dell’ottavo motivo di ricorso e riferita alla dedotta illegittimità dell’imposizione del PU anche ai materiali destinati ad essere riutilizzati in situ.

In realtà, come evidenziato, tale censura si fonda su un’errata interpretazione della norma.

V - Ulteriormente va precisato, con riferimento al materiale da scavo dei residui di lavorazione di materiali lapidei non contenenti acrilamide o poliacrilamide, che tali residui costituiscono materiale diverso dai residui dell’ “estrazione”, ai sensi di quanto disposto dall’art. 186, comma 7 ter, d.lgs. n. 152 del 2006.

L’ordinamento distingue, infatti, tra rifiuti delle industrie estrattive, di cui al d.lgs. n. 117 del 2008 e ss.mm.ii. in forza del quale è prevista, per la gestione, l’elaborazione di un piano di rifiuti e residui di lavorazione di materiali lapidei, per i quali i piano di utilizzo è disciplinato ai sensi dell’art. 184 bis del d.lgs. 152 del 2006, come modificato dall’art. 41, comma 2, d.l. n. 69 del 2013 e dall’art. 8 bis, d.l. n. 43 del 2013, convertito con la l. n. 71 del 2013, nonché dal d.m. n. 161 in argomento.

Svolta siffatta distinzione, con riferimento alla disciplina dei materiali lapidei, trova, dunque, giustificazione la disciplina contenuta nel decreto gravato secondo la distinzione appena ricordata.

Da tutto sin qui esposto, deriva che la disciplina del materiale da scavo, differenziata da quanto disposto con riferimento al trattamento dei rifiuti, appare strettamente limitata dalle condizioni fissate dalla normativa statale, in applicazione, peraltro, delle nozioni contenute nella disciplina europea.

VI - Per quanto attiene poi al tema del materiale da riporto (materiali eterogenei utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all'interno dei quali possono trovarsi materiali estranei), esso era stato già oggetto di diversi interventi legislativi. L'art. 3, d.l. n. 2 del 2012, convertito in l. n. 28 del 2012 aveva sostanzialmente equiparato i riporti al suolo e, quindi, ad una matrice ambientale vera e propria non costituente rifiuto. L'Allegato 9 al D.M. n. 161/2012, poi, aveva introdotto specifiche condizioni per il riutilizzo dei riporti scavati, prevedendo che la componente antropica presente non potesse essere superiore al 20%.

Il terreno di riporto oggetto di scavo, per quanto qui d’interesse, prima dell’ulteriore intervento del legislatore del 2013, poteva essere gestito come sottoprodotto nei limiti di quanto previsto dal D.M. n. 161 del 2012.

Il d.l. n. 69 del 2013, più volte menzionato, è tuttavia, intervenuto sul punto, modificando in maniera sostanziale l'art. 3 del D.L. n. 2 cit., introducendo modifiche sostanziali, la cui formulazione è attualmente la seguente:

"1. Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al "suolo" contenuti all'art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all'Allegato 2 alla Parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito e utilizzati per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri.

2. Ai fini dell'applicazione dell'art. 185, comma 1, lett. b) e c), del D.Lgs. n. 152 del 2006, le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi dell'art. 9 del decreto del Ministro dell'ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 16 aprile 1998, n. 88, ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test di cessione, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati.

3. Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono essere rese conformi al test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovono i contaminanti o devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentono di utilizzare l'area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute.

3 bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste".

La disciplina sui riporti contenuta nel Regolamento, censurata con il nono motivo di ricorso, risulta, dunque, profondamente incisa, attraverso la predisposizione di specifiche limitazioni e della previsione del test di cessione, con la conseguenza che il nono motivo di ricorso è divenuto improcedibile.

VII – Ai fini della decisione, va anche precisato che il decreto n. 161 del 2012, in esame, ha definito una serie di aspetti rilevanti quali l'individuazione della normale pratica industriale, il collegamento tra Piano di utilizzo e le opere da realizzare (superando le indicazioni temporali restrittive dell'art. 186 come riformato nel 2008), la possibilità che i materiali siano frammisti a sostanze estranee impiegate per lo scavo, la facoltà di realizzare un deposito intermedio rispetto al sito di produzione, e, dunque, la procedura per la gestione delle terre e rocce che schematicamente può essere così riassunta:

 piano di utilizzo da presentarsi all’autorità competente;

 approvazione ed esecuzione del piano di utilizzo (con possibilità di aggiornamento in

corso d’opera);

 trasporto dei materiali e dichiarazione di avvenuto utilizzo.

Le condizioni generali affinché un materiale sia qualificato come sottoprodotto sono quelle indicate dall’art. 183 comma 1 lett. qq) del d.lgs 152/06:

- origine dalla realizzazione di un’opera di cui costituisce parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione del materiale;

- utilizzo in conformità al piano di utilizzo PU:

a) nella stessa opera che lo ha prodotto o in un’opera diversa per reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, ripascimenti, interventi a mare, miglioramenti fondiari o viari o altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali;

b) in processi produttivi al posto degli inerti da cava;

- idoneità ad essere utilizzato direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (come definita dall’Allegato 3);

- soddisfacimento dei requisiti di qualità ambientale indicati nell’Allegato 4;

- caratterizzazione ambientale dei materiali di scavo, vale a dire l’attività svolta per dimostrare che essi hanno le caratteristiche di cui agli allegati 1 e 2 del d.m. n. 161 e quindi possono essere gestiti come sottoprodotti.

Con riferimento ai siti da bonificare, il PU può essere presentato ove sia stata attivata una procedura preliminare, attraverso la quale spetta all'ARPA fornire una risposta entro 60 gg sui valori riscontrati indicando la compatibilità dei materiali di scavo (compresi i riporti).

VIII – Non sono fondate, dunque, per le considerazioni sin qui svolte, le censure contenute nei motivi da quattro a sei del ricorso introduttivo, che possono trovare esame congiuntamente, proprio in ragione dello specifico fondamento normativo a livello statale e sovrannazionale, che determina la differenza della gestione fra rifiuti e sottoprodotti come effetto consequenziale scaturente dalla distinta natura e dalla diversa destinazione delle due tipologie di sostanze. Questa distinzione concettuale costituisce la ratio dell’autonoma disciplina che considera determinate sostanze come residui – prodotti e non come residui-rifiuti (l’art. 185, comma 4, che richiama alcune specifiche categorie di sottoprodotti ex art. 184-bis, per escluderle dall’ambito di applicazione della Parte Quarta del T.U.A.).

Ne consegue che da qui deriva la non contraddittorietà della disciplina della “pratica industriale” come distinta dal “trattamento dei rifiuti”, nelle condizionate ipotesi previste dall’art. 184 bis del T.U. Ambiente, come sopra specificate ed elencate.

Deve, dunque, tenersi distinto il trattamento del rifiuto, tramite operazioni di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per riutilizzo, teso alla trasformazione del rifiuto in prodotto dal trattamento del sottoprodotto - identificato secondo precise caratteristiche dettate dalla normativa di settore sin qui richiamata - avente fin dall’origine i requisiti del prodotto.

IX – Con il settimo motivo di gravame i ricorrenti censurano la possibilità di far ricorso al sistema delle autocertificazioni.

L’assunto è infondato.

In vero, nella specie, la qualità di sottoprodotto deriva direttamente dalla corrispondenza al disposto legislativo e non discende da un’attività valutativa e autorizzatoria della p.a.;
sicchè non vi è ostacolo a che l’interessato possa effettuare una dichiarazione certificativa al riguardo.

X - Con l’ottavo motivo di gravame, gli istanti censurano, altresì, il complesso di verifiche disposte dal Regolamento ai fini del riutilizzo dei materiali di scavo provenienti dai siti sottoposti a bonifica o a risanamento ambientale, in particolare disponendo (art. 5, comma 4) il riscontro che “i valori riscontrati per tutti gli elementi e i composti di cui alla Tabella 1 dell'allegato 5, alla parte quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006, non superano le Concentrazioni Soglia di Contaminazione di cui alle colonne A e B della medesima Tabella 1 sopra indicata, con riferimento alla specifica destinazione d'uso urbanistica del sito di destinazione indicata dal Piano di Utilizzo”.

Tale previsione, come già posto in evidenza con riferimento all’esame del primo gruppo di censure, corrisponde ad una specifica prescrizione del legislatore, che ha posto condizioni specifiche alla possibilità di qualificare il materiale come sottoprodotto (art. 184 bis cit.).

Peraltro, deve condividersi quanto esposto dalla difesa erariale, laddove evidenzia la coerenza della disposizione gravata con i principi generali in materiale ambientale.

Il Legislatore (T.U. Ambiente – art. 2) ha inteso dichiarare esplicitamente l'obiettivo perseguito nella "promozione dei livelli di qualità della vita umana" da attuarsi attraverso "la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell'ambiente", attraverso la "conservazione, salvaguardia, miglioramento e utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, anche al fine di promuovere la qualità della vita umana e lo sviluppo sostenibile".

Con il d.lgs 16 gennaio 2008, n. 4, c.d. "secondo Correttivo", è stato modificato il titolo della Prima Parte del Codice, denominata ora non più solo "disposizioni comuni" ma anche "principi generali e sono stati introdotti alcuni articoli (da 3 bis a 3 sexies) al fine di rendere evidente la portata generale degli stessi a tutta la ‘materia’ della tutela dell'ambiente.

Con tali norme, peraltro, sono recepiti e rafforzati alcuni principi di derivazione comunitaria in materia di tutela dell'ambiente.

Per i profili di interesse, vale ricordare:

- i principi di "prevenzione" e di "precauzione" (art. 3 ter), in base ai quali occorre evitare di creare rischi per l'ambiente, e solo in subordine cercare di arginare quelli esistenti o quelli che si dovessero verificare;

- il principio "chi inquina paga" (art. 3 ter), che obbliga all'integrale ripristino dello "status quo ante" dell'ambiente;

- il principio dello "sviluppo sostenibile" (art. 3 quater), in base al quale la p.a. deve dare priorità alla tutela ambientale;

Ed ancora, specificamente, per gli aspetti che qui vengono in esame, va menzionato che anche la Parte IV del d.lgs. n. 152, relativa ai rifiuti, contiene alcuni principi, ed in particolare:

- i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti di cui all’art. 179, in forza dei quali la gestione dei rifiuti deve avvenire nel rispetto di una precisa gerarchia, in modo tale da favorire la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti e di incentivarne il riciclaggio e il recupero per ottenere prodotti, materie prime, combustibili o altre fonti di energia, correlatamente alla nuova regola del principio di prossimità e di autosufficienza, di cui agli artt. 182, comma 3 e 182 bis, d.lgs. n. 152 cit..

Ne consegue che le condizioni prescritte dal Regolamento, oltre che trovare la propria legittimazione nella fonte primaria, rispondono precipuamente alle indicazioni e ai principi dettati dal legislatore, come sopra descritti, nel prevedere che al fine del conseguimento della possibilità di utilizzare il materiale da scavo come ‘sottoprodotto’ sia assicurato che gli elementi ed i composti contenuti nei materiali predetti proveniente da siti sottoposti a bonifica o a ripristino ambientale rispettino i valori-limite stabiliti dalle C.S.C., sì da non divenire pregiudizievoli per la salute umana e l’ambiente.

XI – Per le considerazioni sin qui svolte, il ricorso deve essere dichiarato in parte inammissibile ed in parte improcedibile, secondo quanto precisato, e per il resto deve essere respinto.

Tuttavia, in ragione della particolare complessità della fattispecie esaminata, sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite tra le parti.

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