TAR Roma, sez. IV, sentenza 2023-02-28, n. 202303415
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Pubblicato il 28/02/2023
N. 03415/2023 REG.PROV.COLL.
N. 06905/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6905 del 2016, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati R C, A F, A M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la condanna
del Ministero dell’Economia e delle Finanze al risarcimento del danno patito nell’infortunio occorso sul luogo e per causa di lavoro in data 5.10.2011, nella misura di complessivi euro 1.150.700,64.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza smaltimento del giorno 24 febbraio 2023 il dott. A F e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Il sig. -OMISSIS- ha adito questo Tribunale chiedendo in giudizio di accertare e dichiarare la responsabilità civile del Ministero dell’Economia e delle Finanze nell’infortunio occorso sul luogo e per causa di lavoro in data 5.10.2011 e per l’effetto condannare in solido fra loro il Ministero dell’Economia e delle Finanze al risarcimento dei danni nella misura di complessivi euro 1.150.700,64 (euro 884.757,00 per lesioni alla integrità psico-fisica pari al 85%, con ulteriore percentuale del 25% di aumento del valore medio a titolo di personalizzazione del danno non patrimoniale;euro 26.100,00 quale inabilità temporanea assoluta calcolata per giorni 180;euro 17.400,00 per inabilità temporanea parziale al 50% e calcolata per giorni 240 ed euro 1.254,64 per spese mediche), oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla data del sinistro al saldo o alla diversa maggiore o minore somma che il Tribunale riterrà di giustizia e all’esito di richiesta CTU.
In sintesi: il ricorrente ha iniziato l’attività lavorativa nella Guardia di Finanza a decorrere dal 17.10.1994, frequentando il corso di addestramento quale atleta d’interesse nazionale;una volta terminata la carriera sportiva agonistica, è stato destinato principalmente a mansioni di autista e, a decorrere dal settembre 2009 e sino al 4.11.2010, è stato assegnato a mansioni di piantone preposto alla vigilanza armata presso una la Caserma -OMISSIS-;ha soggiunto che in data 5.10.2011, nel mentre risultava esser comandato alle attività edili di ritinteggiatura della stanza ad uso di un ufficiale, impattava violentemente con il capo contro una staffa (“reggimensola”) metallica posta sul muro, procurandosi una ferita lacero-contusa del cuoio capelluto, con immediato sanguinamento, nonché cefalea e sindrome vertiginosa, con diagnosi “ F.L.C. del cuoio capelluto in esito a valido trauma cranico contusivo ”: infortunio al quale seguiva una serie di ricoveri ospedalieri in esito ai quali veniva dichiarato idoneo al servizio militare incondizionato;ha lamentato, tuttavia, che tale infortunio avrebbe dato origine ad una sintomatologia caratterizzata da crisi cefalalgiche violente con disestesie e parestesie della teca cranica, associato a stato ansioso con tratti depressivi e psiconeurasteniformi, turbe del ritmo sonno-veglia, agorafobia e tachicardia, attacchi di panico e marcata alterazione della cenestesi relazionale, a carattere involutivo, con fobie e tratti psicotici;una situazione che avrebbe reso necessari approfondimenti diagnostici e strumentali che hanno condotto a dichiararlo, in data 20.3.2013, “ non idoneo permanentemente al servizio d’istituto nella G.D.F. in modo assoluto e da collocare in congedo assoluto. No reimpiegabile nelle corrispondenti aree funzionali del personale civile del Ministero delle Finanze. Controindicato l’impiego in incarichi particolarmente stressanti ”;e ciò sulla base di una “ sofferenza radicolo-assonale L4-L5-S1 E.M.G. accertata in paziente con protrusioni discali L4-L5 ed L5-S1 ad impegno funzionale in atto. Esiti di pregresso trauma cranico non commotivo. F.L.C. cuoio capelluto. Gastrite cronica. Certificata grave sindrome psicorganica in allegato trattamento ”.
È, poi, accaduto che il Comitato di verifica per le cause di servizio del Ministero dell’Economia e Finanze, nell’adunanza n. -OMISSIS-- del 12.7.2013, ha riconosciuto l’infermità “ Certificata grave sindrome psicorganica in trattamento ” interdipendente con l’affezione “ trauma cranico non commotivo con F.L.C. cuoio capelluto ” già riconosciuta dipendente da fatti di servizio;e, per l’effetto, con decreto n. -OMISSIS- del 29.1.2014 è stato corrisposto al ricorrente l’equo indennizzo nella misura di euro 33.245,52, erogazione che ha fatto seguito alla corresponsione di euro 1.073,42 per la menomazione dell'integrità fisica conseguente alla menzionata affezione, riconosciuti con decreto n. -OMISSIS- del 20.6.2011.
Il ricorrente, in data 26.2.2015, ha presentato una domanda di risarcimento del danno biologico inteso anche quale danno all’integrità fisica e psichica, materiale e morale, e ciò relativamente ad ogni pregiudizio derivato dall’evento lesivo occorso in data 5.10.2011.
A fondamento della domanda proposta in giudizio il ricorrente ha evidenziato che nella specie sussisterebbe una responsabilità dell’Amministrazione in ragione della sussistenza dell’obbligazione lavorativa, di un danno accertato e, soprattutto, di un rapporto di causalità fra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza da parte del datore – specifiche o generiche – e il danno predetto.
Ha stigmatizzato, in particolare, come successivamente all’evento dannoso abbia presentato una cascata clinico-sintomatologica a carattere involutivo e progressivamente ingravescente che ha condotto ad un giudizio di totale e permanente inidoneità al servizio militare, con innegabile danno patrimoniale, oltre al danno biologico-esistenziale oggetto del contendere (cfr. pag. 17).
Ha, poi, rimarcato che la c.d. attività di “ minuto mantenimento ” comprenderebbe soltanto “ interventi minimali necessari a conservare in efficienza gli immobili per l'uso al quale sono destinati, che non richiedono particolari competenze specialistiche del personale operatore ” (cfr. pag. 22): il che dimostrerebbe che la ritinteggiatura chiesta al ricorrente, dalla cui esecuzione è scaturito l’infortunio, sarebbe attività del tutto estranea all’ambito delineato dall’art. 18 del d.lgs. 81/2008, ossia gli “ obblighi del datore di lavoro e del dirigente ”;e che, quindi, le Amministrazioni al tempo datrici di lavoro “ abbiano omesso di attenersi alle seppur minime regole sopra dettate in quanto, l’odierno ricorrente in verità e come visto, è stato adibito ad attività per le quali sarebbe stata necessaria una preparazione specifica senza che fosse in alcun modo eseguita una preventiva valutazione dei rischi e reso edotto degli stessi, nonché della disciplina antinfortunistica applicabile ” (cfr. pag. 26).
Sulla scorta di tali presupposti il ricorrente ha quantificato la domanda risarcitoria nei termini sopra indicati.
Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze (30.6.2016), opponendo, nella memoria depositata il 24.11.2016, che “ l’attività di minuto mantenimento da parte del personale del Corpo della Guardia di Finanza trova fondamento regolamentare nell’art. 17, comma 1, del “Nuovo Regolamento di Servizio interno della Guardia di Finanza”, rubricato “Manutenzione e riparazione delle caserme”, ove è previsto che “i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria delle caserme sono eseguiti secondo le specifiche disposizioni ”;e che il ricorrente avrebbe dichiarato di essere in possesso di tale competenza in risposta ad una richiesta della stessa Amministrazione;ha eccepito, inoltre, che a tutti i militari sarebbe stato preventivamente comunicate, a mezzo di una brochure informativa, le linee guida per la tutela della salute sul lavoro e che nella dotazione ad essi riservata, anche in occasione dell’incidente occorso al ricorrente, sarebbero stati previsti dei caschetti protettivi, presumibilmente non utilizzati dall’appuntato Pilozzi.
In vista dell’udienza di discussione del ricorso nel merito, fissata per il 24 febbraio 2023, il ricorrente ha ribadito le proprie deduzioni e, a tale udienza, la causa è stata trattenuta per la decisione.
Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
Non è contestato tra le parti che l’infortunio occorso al ricorrente è avvenuto nell’ambito dell’esercizio di attività professionale e, dunque, la dipendenza di tale infortunio da causa di servizio.
Ma, a tal fine, è stato corrisposto l’equo indennizzo ai sensi dell’art. 1882 del d.lgs. 66/2010, ma non la pensione privilegiata (chiesta dal ricorrente in data 2.4.2013), come confermato dai difensori in occasione dell’udienza di discussione finale su espressa domanda del Collegio.
Riguardando il presente giudizio la domanda di risarcimento del danno biologico, nelle sue varie componenti, occorre muovere dai principi espressi dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 23 febbraio 2018, la quale ha affrontato la questione della valenza del principio della c.d. compensatio lucri cum damno nella fase di determinazione del danno cagionato dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente: segnatamente se la somma spettante a titolo risarcitorio per lesione della salute sia cumulabile con l’indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio ovvero se tale indennizzo debba essere decurtato dal risarcimento del danno.
Si tratta di una pronuncia nella quale sono stati approfonditi profili di analisi afferenti a distinte pretese ascrivibili al soggetto nei cui confronti sia stato accertato un pregiudizio dipendente da causa di servizio.
La plenaria ha, anzitutto, precisato che “ vi possono essere rapporti obbligatori con un solo soggetto responsabile e obbligato, eventualmente in forma complessa, ovvero più rapporti obbligatori collegati che possono, in ragioni di variabili dipendenti dal caso concreto, giustificare l’attribuzione di una o di più prestazioni patrimoniali ”;ed ha isolato una seconda questione, che “ attiene alla struttura della responsabilità civile e contrattuale e, in particolare, per quanto rileva in questa sede, alla cd. causalità giuridica nonché alla funzione della responsabilità stessa ”.
In relazione alla funzione del risarcimento del danno, è stato richiamato l’orientamento delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, le quali “ con sentenza 5 luglio 2017, n. 16601, hanno affermato, con riferimento alla responsabilità civile, che essa può perseguire plurime finalità che si pongono su piani differenti (Cass. civ., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601) ”, sottolineandosi che “ la finalità generale e prioritaria è compensativa: lo scopo è di reintegrare la sfera giuridica del danneggiato ponendolo, in attuazione del cd. principio di indifferenza, nella situazione in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito ”.
Tali affermazioni hanno costituito la base argomentativa per affermare che “ le diverse fattispecie concrete, inserite nel descritto contesto generale, presentando, accanto a specifiche peculiarietà, taluni elementi comuni, possono essere collocate, per fini ordinatori, in tre diverse categorie, che si differenziano sul piano dei titoli delle obbligazioni e dei soggetti responsabili e obbligati, con implicazioni diverse in punto di causa giustificativa delle attribuzioni, nonché di causalità giuridica e funzione della responsabilità ”.
Tra queste, è stata presa in esame – proprio dalla plenaria – la fattispecie “ in cui è presente un’unica condotta responsabile, un solo soggetto obbligato e titoli differenti delle obbligazioni ”.
A tal riguardo, il danneggiato vanterebbe due titoli giuridici:
1) il primo correlato alla disciplina di cui all’art. 2087 del codice civile, la cui violazione è stata dedotta dal ricorrente, secondo cui “ l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro ”;in relazione alla natura di tale obbligazione, la plenaria ha osservato che “ il prevalente orientamento seguito dalla Corte di Cassazione, che questo Collegio condivide, ritiene che la responsabilità del datore di lavoro abbia natura contrattuale e rinvenga la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., è integrato dalla norma di legge, sopra riportata, che prevede doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore. Sul piano strutturale, tale qualificazione dell’illecito implica, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., che: il lavoratore deve provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’inadempimento del datore di lavoro e i danni conseguenza;il datore di lavoro deve provare l’assenza di colpa e pertanto di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (da ultimo, Cass. civ., sez. lav., 15 giugno 2017, n. 14865)”; ed ha concluso che “l’accertamento di tale responsabilità (…) dà diritto, sussistendone i presupposti, anche al risarcimento del danno non patrimoniale e, in particolare, del cd. danno biologico ”;
2) il secondo correlato alla corresponsione dell’equo indennizzo, in ordine al quale la plenaria ha richiamato l’orientamento tradizionale secondo cui “ il legislatore prescinde da ogni riferimento a criteri di responsabilità conseguenti al verificarsi dell’evento dannoso ” e “ la perdita dell’integrità fisica è valutata tenendo esclusivamente conto delle oggettive condizioni di tempo e di luogo nelle quali la prestazione lavorativa risulta effettuata ed in presenza delle quali si è verificata la lamentata menomazione» (sentenza 16 aprile 1985, n. 14;nello stesso senso 8 ottobre 2009, n. 5) ”;un orientamento, però, rimeditato dal Consiglio di Stato nel senso che “ l’indennità in questione ha natura sostanzialmente analoga a quella risarcitoria da illecito contrattuale ”.
La plenaria ha, pertanto, sottolineato che “ sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa ”;ma ha, decisivamente, affermato che “ se si ammettesse la possibilità di cumulare somme dovute anche a titolo diverso la conseguenza sarebbe quella di assegnare una valenza punitiva al danno risarcibile in contrasto con la più volte enunciata regola della finalità compensativa in assenza di una espressa previsione legislativa ”.
Si rischierebbe, in buona sostanza, di condannare il responsabile ed obbligato a corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo.
Per tali ragioni la plenaria ha affermato il seguente principio di diritto: “ la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario ”.
Alla luce di tali statuizioni non è, quindi, possibile far discendere in modo automatico (e imponderato) dal mero riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’infortunio occorso al ricorrente l’accertamento di una responsabilità dell’Amministrazione che legittimi il risarcimento del danno biologico.
A tal proposito, la giurisprudenza ha osservato che “ l’accertamento della dipendenza di un’infermità da una causa di servizio ai fini del riconoscimento del beneficio della pensione privilegiata e la concessione dell’equo indennizzo si riferiscono a situazioni giuridiche fondate su distinti presupposti e regolati da separate norme ” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 8 gennaio 2020, n. 142), nel senso che “ ai fini della concessione dell’equo indennizzo non assume alcuna rilevanza il riconoscimento della dipendenza di infermità da causa di servizio (…) nel giudizio volto alla liquidazione della pensione privilegiata, stante l’autonomia tra i due procedimenti, ciò in considerazione del fatto che, ai fini della pensione privilegiata l’esame viene portato sul nesso tra l’evento e l’infermità che ne è derivata e di cui bisogna accertare la gravità, mentre nel caso dell’equo indennizzo la verifica ha come oggetto il rapporto tra l’infermità stessa e la menomazione che ne è derivata e per la quale viene chiesto l’indennizzo ” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14 giugno 2018, n. -OMISSIS-70).
Nel caso, però, del riconoscimento del danno biologico, occorre accertare la violazione dell’art. 2087 del codice civile, ossia l’illecito civilistico imputato alla parte datoriale pubblica e sotteso all’assenza di qualsiasi misura precauzionale volta a ridurre l’incidenza del rischio specifico connesso alle mansioni svolte, nonché la mancata adozione, sempre da parte del datore di lavoro pubblico, delle “ misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro ”.
A ciò va aggiunto che, ad avviso della giurisprudenza “ ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c. - la quale non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva - al lavoratore che lamenti di aver subìto, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno ” (cfr. Corte di Cassazione, sez. lav., 18 giugno 2014, n. 13860;Consiglio di Stato, sez. VI, 12 marzo 2015, n. 1282).
La giurisprudenza ha, pure, evidenziato che “ né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici ” (cfr. Corte di Cassazione, 29 gennaio 2013, n. 2038).
L’art. 2087 del codice civile, in altri termini, “ permette di imputare al datore di lavoro non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quello che concretizzi le astratte qualifiche di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dovendo per contro escludersi la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita ecc.) in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell'evento concreto che in fatto si è cagionato, cioè quando la regola cautelare violata non aveva come scopo anche quello di prevenire quel particolare tipo di evento concreto che si è effettivamente verificato (o almeno un evento normativamente equivalente ad esso) ” (cfr. Corte di Cassazione, 15 giugno 2016, n. 12347).
Tanto precisato, il Collegio osserva, in prima battuta, che la “ ritinteggiatura della stanza ad uso di un ufficiale ” (cfr. pag. 11 del ricorso) sia attività ricomprensibile nel novero dei “ servizi in economia ” di cui all’art. 10 del DM 292/2005, ossia “ lavori occorrenti per l'ordinaria manutenzione e il minuto mantenimento degli immobili ”, intendendosi, con tale locuzione, gli “ interventi minimali necessari a conservare in efficienza gli immobili per l’uso al quale sono destinati, che non richiedono particolari competenze specialistiche del personale operatore e che sono eseguiti esclusivamente per evitare i deterioramenti prodotti dall’uso ”: una definizione che, sebbene esplicitata per il personale del Ministero della Difesa dall’art. 2 del DPR 2-OMISSIS-/2012, contribuisce a ponderare l’entità dell’attività commissionata al ricorrente.
Quest’ultimo, peraltro, risulta aver offerto la propria disponibilità in quanto dichiaratosi esperto (“ come asserito da militare ”, cfr. nota del 24.3.2010) – o, comunque, pratico – nel settore muratura, corrispondendo in tal modo alla richiesta diramata dal Comando con radiomessaggio prot. -OMISSIS- del 15.2.2010, ancorché quest’ultimo avesse prospettato che tale, peculiare, esperienza, risultasse “ non rilevabile (…) agli atti di questo Comando ”.
In secondo luogo, va considerato che l’Amministrazione ha allegato prova di aver disposto, sin dal 1996, “ per le esigenze degli addetti alla Squadra Minuto Mantenimento del Comando Quartier Generale (…) i sottonotati dispositivi di protezione individuale ”, tra i quali, per quel che più interessa, “ 24 elmetti protettivi ”.
Se tali elmetti non fossero disponibili, come dedotto dal ricorrente, o se, piuttosto, tali dispositivi fossero disponibili e utilizzabili, ma non siano stati in concreto utilizzati per dimenticanza o scelta, come invece prospettato dalla difesa erariale, è questione che è risultata priva di accertamento nel corso del giudizio, ma che, sulla base della giurisprudenza sopra richiamata con riferimento all’onere probatorio, non consente di addebitare aprioristicamente all’Amministrazione l’omissione di cautele finalizzate a prevenire un evento dannoso.
In conclusione, il ricorso va respinto.
La novità dei profili esaminati giustifica la compensazione delle spese processuali.