TAR Roma, sez. V, sentenza 2024-02-14, n. 202403023

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. V, sentenza 2024-02-14, n. 202403023
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 202403023
Data del deposito : 14 febbraio 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 14/02/2024

N. 03023/2024 REG.PROV.COLL.

N. 13008/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 13008 del 2021, proposto da
G C, R L, V L, A P, S S, M A e N P, tutti rappresentati e difesi dall'Avvocato E C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero della Giustizia nonché Presidenza del Consiglio dei Ministri, Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (A.R.A.N.), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la condanna

al risarcimento del danno dovuto alla mancata attuazione della previdenza complementare in favore del personale difesa e sicurezza appartenente al Corpo della Polizia Penitenziaria.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle amministrazioni resistenti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 dicembre 2023 il dott. F E e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Rilevato che i ricorrenti, in qualità di dipendenti posti in quiescenza con sistema misto dopo quarant’anni di servizio presso il Ministero della Giustizia - Corpo della Polizia Penitenzia, hanno adito l’intestato T.A.R. chiedendo il risarcimento dei danni subiti in ragione della mancata attuazione della previdenza complementare in quanto personale del comparto difesa e sicurezza destinatario di limiti d’età ordinamentali inferiori rispetto alla generalità dei lavoratori;

Rilevato altresì che il Ministero resistente si costituiva in giudizio mediante deposito di memoria di stile;

Visto l’art. 74 c.p.a., secondo cui “ Nel caso in cui ravvisi la manifesta inammissibilità […] o infondatezza del ricorso, il giudice decide con sentenza in forma semplificata. La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento […] ad un precedente conforme ”;

DIRITTO

Rilevato che il giudice amministrativo, di primo e secondo grado, ha già affrontato tale questione giuridica, a volte dichiarando il ricorso inammissibile e in altre volte rigettandolo nel merito;

Dato atto, infatti, che da ultimo il T.A.R. Campania, Salerno, con sentenza n. 2944/2023 nonché il T.A.R. Sicilia, Catania, con sentenza n. 1470/2023 hanno statuito quanto segue:

La controversia in esame riguarda la mancata attivazione, da parte delle amministrazioni pubbliche evocate in giudizio, di forme di previdenza integrativa, previste dalla legge a vantaggio dei dipendenti. Più in particolare, il presupposto da cui muove l’intero impianto costruito dai ricorrenti è che le amministrazioni pubbliche da cui essi dipendono hanno l’obbligo giuridico di avviare le procedure di creazione di forme previdenziali complementari, e – non avendo adempiuto a tale obbligo – le stesse sono responsabili del danno patrimoniale causato ai lavoratori, non avendo questi ultimi potuto confidare (in futuro, quando accederanno al regime pensionistico) nell’integrazione previdenziale agognata.

L’azione promossa col ricorso in esame tende quindi, in prima battuta, ad accertare l’inadempimento di un obbligo da parte delle PP.AA. – ossia, il comportamento inerte (o “silenzioso”) tenuto da queste in rapporto all’obbligo di avviare e portare a compimento le citate procedure istitutive della previdenza complementare – e, in seconda battuta, ad ottenere condanna delle stesse amministrazioni a risarcire i danni arrecati ai lavoratori in conseguenza della denunciata omissione.

La prima domanda posta in ricorso può, quindi, essere qualificata come azione di accertamento dell’inadempimento rispetto ad un obbligo asseritamente nascente dalla legge.

La seconda è, invece, espressiva di una azione risarcitoria.

Va premesso che questa Sezione in recenti pronunce relative ad analoghe controversie aveva dichiarato – anche sulla scorta della giurisprudenza di altri TAR e del Consiglio di Stato – l’inammissibilità per difetto di legittimazione attiva dei ricorsi proposti dai singoli lavoratori, ritenendo che la legittimazione a contestare la dedotta omissione spettasse solo alle organizzazioni sindacali, e ai comitati centrali di rappresentanza, titolati a partecipare ai predetti procedimenti (v., Tar Catania, III, 855/2022 e 3749/2021).

Tale impostazione risulta ulteriormente confermata anche da pronunce del Consiglio di Stato, nelle quale si è osservato che “Nel merito non vi è ragione di discostarsi dall'orientamento giurisprudenziale consolidato che ha escluso la legittimazione ad agire dei singoli dipendenti nel procedimento per l'accertamento dell'obbligo di provvedere all'attuazione della previdenza complementare, orientamento recentemente riaffermato con la decisione di questa Sezione n. 8440/2021 del 20.12.2021 con la quale si è ribadito la legittimazione a far valere eventuali inadempimenti dell'obbligo di adozione di provvedimenti amministrativi, anche attraverso la speciale procedura di impugnazione del silenzio inadempimento, appartiene in via generale ai soli soggetti titolari dell'interesse, concreto ed attuale, direttamente riguardato dalla norma attributiva del potere autoritativo, i quali proprio in ragione di tale titolarità sono dunque legittimati a partecipare al relativo procedimento amministrativo", mentre i dipendenti sono portatori di un interesse soltanto indiretto in relazione all'effettiva entrata in vigore del nuovo regime previdenziale, in quanto potenziale destinatario delle misure da adottarsi anche all'esito del procedimento di concertazione di cui si lamenta la mancata attuazione;
ciò in ragione della natura normativa dell'atto conclusivo, destinato a disciplinare una serie indeterminata di rapporti di pubblico impiego;
ma non sono legittimati a partecipare al relativo procedimento, non essendo titolari in proposito di un interesse personale, concreto ed attuale, specificamente tutelato dalla norma attributiva del potere con la previsione di un correlato obbligo di provvedere in capo alle Amministrazioni competenti (Cons. Stato Sez. IV, 4 febbraio 2014, n. 502;
n. 503, n. 504;
24 ottobre 2011, n. 5697;
n. 5698).” (Cons. Stato, II, 2593/2022;
nello steso senso anche Cons. Stato, II, 8440/2021).

Non sembra rilevante il particolare - evidenziato in memoria dalla difesa dei ricorrenti – per cui le pronunce emesse dal Consiglio di Stato in analoghe vicende sono state rese in giudizi avviati ex art. 117 c.p.a. per contestare il silenzio/inadempimento dell’amministrazione. Invero, da una parte, va detto che in quei giudizi i dipendenti avevano articolato anche domanda di risarcimento danni;
d’altra parte, e soprattutto, non è secondario il rilievo che accertare la violazione di un obbligo di provvedere gravante sulla PA è anche l’oggetto del presente giudizio, nel quale - come già detto – i ricorrenti chiedono il risarcimento del danno subìto, sul presupposto che l’amministrazione/datore di lavoro abbia disatteso un preciso obbligo di legge. Che poi quell’accertamento sia finalizzato ad ottenere una condanna dell’amministrazione a “provvedere” (come nel rito del “silenzio”), o sia funzionale ad una condanna al risarcimento dei danni patrimoniali (come nel caso di specie), non sembra fare molta differenza.

Tuttavia, anche se si volesse superare il limite dell’inammissibilità, riconoscendo ai singoli dipendenti la legittimazione ad adire il giudice per vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni che sono derivati dalla mancata istituzione di forme complementari di previdenza, l’azione sarebbe infondata nel merito, non sussistendo la premessa di base rappresentata dal presunto obbligo delle PP.AA. di istituire la previdenza alternativa. Sul punto, il Collegio richiama alcuni condivisibili pronunciamenti resi in materia dal Consiglio di Stato:

“La configurazione normativa, che conduce a ravvisare il difetto di legittimazione in capo ai singoli dipendenti comporta anche l’infondatezza dell’azione proposta per il silenzio, mancando, in base alle norme di legge che disciplinano la materia, un preciso obbligo di provvedere e un termine per individuare il ritardo nell’adempimento in capo alle Amministrazioni intimate.

Sotto tale profilo, non si può ravvisare una omissione di pronuncia da parte del giudice di primo grado, in quanto l’affermazione del difetto di legittimazione, presupponendo la mancanza di una azione proponibile nei confronti delle Amministrazioni pubbliche, ha comportato l’implicito rigetto anche delle domande risarcitorie.

Ritiene, peraltro, il Collegio di aggiungere, anche ai fini della completezza dell’esame della domanda risarcitoria, che il sistema della previdenza complementare è stato integralmente rimesso alle procedure di negoziazione e di concertazione, con la conseguenza che le Amministrazioni odierne appellate non hanno alcun autonomo obbligo di provvedere non potendo unilateralmente disciplinare la materia né, peraltro, sono previsti termini nei quali debba essere data attuazione alla detta previdenza complementare.

In primo luogo, il comma 20 dell’art. 26 della legge 448 del 1998 ha previsto che: “ai fini dell'armonizzazione al regime generale del trattamento di fine rapporto e dell'istituzione di forme di previdenza complementare dei dipendenti pubblici, le procedure di negoziazione e di concertazione previste dal decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 195, potranno definire, per il personale ivi contemplato, la disciplina del trattamento di fine rapporto ai sensi dell'articolo 2, commi da 5 a 8, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, nonché l'istituzione di forme pensionistiche complementari, di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni. Per la prima applicazione di quanto previsto nel periodo precedente saranno attivate le procedure di negoziazione e di concertazione in deroga a quanto stabilito dall'articolo 7, comma 1, del citato decreto legislativo n. 195 del 1995”

Ai sensi dell’art. 3 comma 2 del d.lgs. 5 dicembre 2005 n. 252 - che all’art. 21 ha disposto l’abrogazione del d.lgs. 124 del 1993 - “per il personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le forme pensionistiche complementari possono essere istituite mediante i contratti collettivi di cui al titolo III del medesimo decreto legislativo. Per il personale dipendente di cui all'articolo 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo, le forme pensionistiche complementari possono essere istituite secondo le norme dei rispettivi ordinamenti ovvero, in mancanza, mediante accordi tra i dipendenti stessi promossi da loro associazioni”.

In base all’art. 59 comma 56 della legge 27 dicembre 1997 n. 449 “fermo restando quanto previsto dalla legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, in materia di applicazione delle disposizioni relative al trattamento di fine rapporto ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, al fine di favorire il processo di attuazione per i predetti delle disposizioni in materia di previdenza complementare viene prevista la possibilità di richiedere la trasformazione dell'indennità di fine servizio in trattamento di fine rapporto. Per coloro che optano in tal senso una quota della vigente aliquota contributiva relativa all'indennità di fine servizio prevista dalle gestioni previdenziali di appartenenza, pari all'1,5 per cento, verrà destinata a previdenza complementare nei modi e con la gradualità da definirsi in sede di specifica trattativa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori”.

L’ art. 67 del D.P.R. 16 marzo 1999, n. 254, “Recepimento dell'accordo sindacale per le Forze di polizia ad ordinamento civile e del provvedimento di concertazione delle Forze di polizia ad ordinamento militare relativi al quadriennio normativo 1998-2001 ed al biennio economico 1998-1999”, ha previsto: “1. Le procedure di negoziazione e di concertazione attivate, per la prima applicazione, ai sensi del citato articolo 26, comma 20, della legge n. 448 del 1998, provvedono a definire:

a) la costituzione di uno o più fondi nazionali pensione complementare per il personale delle Forze armate e delle Forze di polizia ad ordinamento civile e militare, ai sensi del decreto legislativo n. 124 del 1993, della legge n. 335 del 1995, della legge n. 449 del 1997 e successive modificazioni ed integrazioni, anche verificando la possibilità di unificarlo con analoghi fondi istituiti ai sensi delle normative richiamate per i lavoratori del pubblico impiego;

b) la misura percentuale della quota di contribuzione a carico delle Amministrazioni e di quella dovuta dal lavoratore, nonché la retribuzione utile alla determinazione delle quote stesse;

c) le modalità di trasformazione della buonuscita in trattamento di fine rapporto, le voci retributive utili per gli accantonamenti del trattamento di fine rapporto, nonché la quota di trattamento di fine rapporto da destinare a previdenza complementare”.

Da tale disciplina risulta evidente che non sussiste alcun autonomo obbligo di provvedere in capo alle Amministrazioni pubbliche, in assenza della definizione della materia in sede di contrattazione collettiva e, nel caso dei militari, delle specifiche procedure di concertazione, ai sensi del d.lgs. 195 del 1995.” (Cons. Stato, II, 8440/2021).

Appare quindi opportuno sottolineare che, secondo il pronunciamento del giudice d’appello, non sussiste un autonomo obbligo di attivazione delle forme previdenziali integrative che gravi esclusivamente sulle amministrazioni pubbliche, e che non passi per la preventiva contrattazione o concertazione con i rappresentanti dei lavoratori.

Anche più di recente, il Consiglio di Stato ha affermato che “E' stato ulteriormente chiarito, in ordine ad analoghe domande risarcitorie, che il sistema della previdenza complementare è stato integralmente rimesso alle procedure di negoziazione e di concertazione, con la conseguenza che le Amministrazioni odierne appellate non hanno alcun autonomo obbligo di provvedere, non potendo unilateralmente disciplinare la materia né, peraltro, sono previsti termini nei quali debba essere data attuazione alla detta previdenza complementare;
con conseguente infondatezza della domanda per l'accertamento dell'obbligo di provvedere e di conseguenza della domanda risarcitoria, non sussistendo alcun ritardo dell'Amministrazione convenuta e non avendo i dipendenti alcuna posizione immediatamente tutelabile nei confronti dell'Amministrazione, ma rimanendo l'intera disciplina attribuita all'attività negoziale nell'ambito della rappresentanza sindacale.” (Cons. Stato, II, 2593/2022).

Deve quindi affermarsi – alla luce della condivisa giurisprudenza del giudice d’appello – che manca in vicende come quella in esame il presupposto per poter predicare una responsabilità dell’amministrazione per i danni patrimoniali subìti dai dipendenti a seguito della mancata istituzione della previdenza complementare, e ciò in quanto (a tacer d’altro) l’azione risarcitoria avviata si basa su una pretesa antigiuridicità di condotta che, invece, il Consiglio di Stato ha più volte dichiarato insussistente precisando che “Da tale disciplina risulta evidente che non sussiste alcun autonomo obbligo di provvedere in capo alle Amministrazioni pubbliche, in assenza della definizione della materia in sede di contrattazione collettiva e, nel caso dei militari, delle specifiche procedure di concertazione, ai sensi del d.lgs. 195 del 1995.”.

Non risulta, poi, utile alla difesa dei ricorrenti il richiamo fatto in memoria alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 22807/2020, sia perché quella decisione riguardava l’individuazione del giudice munito di giurisdizione (il g.a., nella fattispecie), sia perchè comunque la Suprema Corte non ha affatto affermato in quella sede che gravasse sulle amministrazioni l’obbligo preteso dagli odierni ricorrenti, ma si è limitata solo a precisare come quello fosse il perimetro disegnato dalla parte attrice, nell’ambito del quale avrebbe dovuto essere emessa pronuncia in tema di giurisdizione”;

Ritenuto, in definitiva, che non sussistono elementi sopravvenuti per discostarsi dall’argomentazione giuridica riportata, con la conseguenza che il ricorso deve quindi essere rigettato nel merito perché manifestamente infondato, con compensazione delle spese di lite attesa la risalenza della lite ad un periodo nel quale la questione giuridica sottesa non era ancora stata definita.

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