TAR Roma, sez. I, ordinanza collegiale 2011-08-08, n. 201107031

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. I, ordinanza collegiale 2011-08-08, n. 201107031
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201107031
Data del deposito : 8 agosto 2011
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07099/2010 REG.RIC.

N. 07031/2011 REG.PROV.COLL.

N. 07099/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 7099 del 2010, integrato da motivi aggiunti, proposto da:


V Z, rappresentato e difeso dall’Avv. M S, dall’Avv. M D L e dall’Avv. F V, con domicilio eletto presso lo Studio dell’Avv. M S sito in Roma, Viale Parioli n. 180;


contro

- la CORTE DEI CONTI ed il CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA CORTE DEI CONTI, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

nei confronti di

- Raffaele SQUITIERI, rappresentato e difeso dall’Avv. Domenico Paternostro e dall’Avv. Elio Vitale, con domicilio eletto presso lo Studio dell’Avv. Domenico Paternostro sito in Roma, Viale Giuseppe Mazzini n. 6;

per l'annullamento

- della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, adottata nell’adunanza dell’11-12 maggio 2010 – di estremi sconosciuti – con la quale è stata deliberata l’assegnazione delle funzioni di Presidente della Sezione Controllo Enti al Presidente di Sezione Dott. R S, di cui alla ‘sintesi dei lavori del Consiglio’ n. 26/2010;

- della deliberazione prot. Corte dei Conti n. 133 del 25 maggio 2010, con la quale è stato deliberato che a decorrere dal 18 maggio 2010 il Presidente di Sezione Dott. R S cessa dal posto di funzione di Presidente della Sezione Giurisdizionale per la Regione Molise ed è assegnato, a domanda, al posto di funzione di Presidene della Sezione di Controllo sugli Enti;

- di ogni altro atto connesso, presupposto e consequenziale ivi compresi:

-- l’art. 31 della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti n. 121/CP/2009 del 18 marzo 2009;

-- la successiva deliberazione prot. 241 del 28 luglio 2009 con la quale il medesimo Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti ha modificato le disposizioni contenute nell’art. 31, comma 1, lett. c) della deliberazione n. 121/CP/2009 del 18 marzo 2009, portando il punteggio discrezionale, precedentemente fissato per ciascun componente nella misura di 0,80 punti, a 1,20 punti;

- il D.P.R. del 13 maggio 2009 di costituzione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti;

E CON RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI

PER L’ANNULLAMENTO

- della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, adottata nell’adunanza dell’11-12 maggio 2010 – di estremi sconosciuti – con la quale è stata deliberata l’assegnazione delle funzioni di Presidente della Sezione Controllo Enti al Presidente di Sezione Dott. R S, di cui alla ‘sintesi dei lavori del Consiglio’ n. 26/2010;

- della deliberazione prot. Corte dei Conti n. 133 del 25 maggio 2010, con la quale è stato deliberato che a decorrere dal 18 maggio 2010 il Presidente di Sezione Dott. R S cessa dal posto di funzione di Presidente della Sezione Giurisdizionale per la Regione Molise ed è assegnato, a domanda, al posto di funzione di Presidene della Sezione di Controllo sugli Enti;

- di ogni altro atto connesso, presupposto e consequenziale ivi compresi:

-- l’art. 31 della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti n. 121/CP/2009 del 18 marzo 2009;

-- la successiva deliberazione prot. 241 del 28 luglio 2009 con la quale il medesimo Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti ha modificato le disposizioni contenute nell’art. 31, comma 1, lett. c) della deliberazione n. 121/CP/2009 del 18 marzo 2009, portando il punteggio discrezionale, precedentemente fissato per ciascun componente nella misura di 0,80 punti, a 1,20 punti;

- il D.P.R. del 13 maggio 2009 di costituzione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti;


Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Corte dei Conti, del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti e di R S;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 giugno 2011 il Consigliere Elena Stanizzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


FATTO

Espone in fatto l’odierno ricorrente, Presidente della Sezione Regionale di Controllo per il Lazio, di aver presentato domanda per l’assegnazione del posto di funzione di Presidente della Sezione di Controllo sugli Enti della Corte dei Conti, di cui alla procedura concorsuale bandita nell’adunanza del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti del 20-21 aprile 2010, comunicata con circolare n. 2808 del 23 aprile 2010.

Con delibera assunta nell’adunanza del Consiglio di Presidenza dell’11-12 maggio 2010, il Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti ha assegnato il posto di funzione di Presidente della Sezione di Controllo sugli Enti della Corte dei Conti al Dott. R S.

Con deliberazione prot. Corte dei Conti n. 133 del 25 maggio 2010, il Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti ha quindi disposto l’assegnazione, a domanda, del Dott. R S al posto di funzione di Presidente della Sezione di Controllo sugli Enti a decorrere dal 18 maggio 2010, con cessazione dal posto di funzione di Presidente della Sezione Giurisdizionale per la Regione Molise.

Avverso tali atti, e con riserva di proposizione di motivi aggiunti avverso gli atti del procedimento, ivi comprese le delibere impugnate, di cui ad apposita istanza di accesso non ancora soddisfatta, deduce parte ricorrente i seguenti motivi di censura:

I – Illegittimità derivata per incostituzionalità dell’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15 per violazione degli artt. 3, 97, 100, 103, 104 e 108 della Costituzione. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare per irragionevolezza, illogicità, perplessità, contraddittorietà, travisamento, erroneità dei presupposti, ingiustizia manifesta. Disparità di trattamento, difetto di motivazione e sviamento.

Precisa parte ricorrente come con la delibera del 20-21 aprile 2010, con cui è stata bandita la procedura concorsuale per l’assegnazione del posto di funzione di Presidente della Sezione di Controllo sugli Enti, è stato stabilito di applicare a tale procedura i criteri relativi all’assegnazione di posti di funzione di Presidente di Sezione di cui al Titolo IV, Capo I, della deliberazione 121/CP/2009 del 18 marzo 2009, recante il testo unico della deliberazione n. 92/CP/2002, coordinato con le deliberazioni nel tempo intervenute in materia di nomine, promozioni e assegnazioni.

Nel richiamare, in particolare, parte ricorrente, i criteri dettati dall’art. 31 della citata delibera, significa come l’assegnazione del posto di funzione di Presidente della Sezione Controllo Enti avviene, alla luce delle disposizioni applicabili alla procedura concorsuale, a favore del candidato che abbia ottenuto il punteggio più elevato attribuito sulla base del curriculum, dell’anzianità di servizio, della carriera svolta all’interno della Corte dei Conti e delle capacità organizzative e professionali dallo stesso dimostrate.

Avuto riguardo al profilo inerente l’attribuzione del punteggio, precisa il ricorrente che con delibera n. 241 del 28 luglio 2009 il Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, in considerazione della riduzione del numero dei componenti del Consiglio intervenuta ai sensi dell’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15 – cha ha ridotto da 10 a 4 il numero dei componenti del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti eletti dai magistrati della Corte dei Conti, in numero pari ai membri laici - ha modificato il punteggio discrezionale previsto dall’art. 31, comma 1, lett. c) della delibera n. 121 del 18 marzo 2009, fissato in punti 0,80 per ciascun componente, elevandolo a punti 1,20.

Deduce, quindi, parte ricorrente l’illegittimità della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti come delineato dalla citata novella legislativa per incostituzionalità della norma che ne ha modificato la composizione, determinando l’equiparazione numerica tra i componenti togati con conseguente illegittimità della gravata delibera di conferimento dell’incarico.

Al riguardo, afferma parte ricorrente che la Costituzione, pur non prevedendo per le magistrature speciali, contrariamente a quanto disposto dall’art. 104 della Costituzione per la magistratura ordinaria, una determinata composizione dell’organo di autogoverno, lasciando la libertà di scelta al legislatore, abbia comunque inteso garantirne l’indipendenza, ricordando come la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2009, abbia sancito la piena equiparazione tra il Consiglio Superiore della Magistratura e gli organi di autogoverno delle magistrature speciali, costituendo il principio dell’indipendenza dei magistrati un principio generale posto a garanzia del corretto svolgimento della funzione giurisdizionale complessivamente intesa.

Ricorda in proposito parte ricorrente come questo Tribunale, con ordinanza n. 503 del 23 marzo 2010, abbia rimesso la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 11, comma 8, della legge n. 11 del 2009 alla Corte Costituzionale, riportandosi alle considerazioni ivi espresse.

Afferma dunque parte ricorrente come, dalla riduzione del numero dei componenti elettivi togati del Consiglio di Presidenza, fissato in numero pari a quello dei componenti laici, discenda un pregiudizio per l’imparzialità ed indipendenza dell’organo di autogoverno, con conseguenti riflessi sulla contestata procedura.

II – Illegittimità derivata per incostituzionalità dell’art. 31, lettera c) della deliberazione n. 121 del 18 marzo 2009 e successive modificazioni per violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare per irragionevolezza, illogicità, perplessità, contraddittorietà, travisamento, erroneità dei presupposti, ingiustizia manifesta. Disparità di trattamento, difetto di motivazione.

Afferma parte ricorrente come per effetto della modifica del punteggio discrezionale attribuito a ciascun componente del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, elevato da 0,80 punti a 1,20 punti con delibera n. 241 del 28 luglio 2009 in considerazione della riduzione del numero dei componenti togati, senza apportare alcuna contestuale modifica al punteggio relativo all’anzianità nelle qualifica e a quello relativo alla professionalità specifica, il peso del giudizio di ogni componente sarebbe divenuto irragionevolmente più consistente, ai fini dell’individuazione del candidato da nominarsi, a scapito del peso degli altri criteri, con conseguente compromissione della natura concorsuale della procedura.

La modifica del punteggio attribuibile da ciascun componente non risponderebbe, peraltro, secondo parte ricorrente, ad una reale esigenza di garantire l’equilibrio tra i criteri indicati dall’art. 31 della delibera n. 121 del 18 marzo 2009 – e segnatamente l’anzianità nella qualifica, la professionalità specifica e il punteggio discrezionale - contestando la motivazione sottesa a tale modifica, che muove dalla considerazione dell’alterazione del rapporto proporzionale stabilito tra i criteri precedentemente alla modifica della composizione del Consiglio di Presidenza, significando in proposito l’assenza di indicazioni circa tale rapporto proporzionale tra le tipologie di punteggio e la mancata predeterminazione di un punteggio unico complessivo riferito al criterio discrezionale.

III – Illegittimità derivata per incostituzionalità dell’art. 31, lettera c) della deliberazione n. 121 del 18 marzo 2009 e successive modificazioni per violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare per irragionevolezza, illogicità, perplessità, contraddittorietà, travisamento, erroneità dei presupposti, ingiustizia manifesta. Disparità di trattamento, difetto di motivazione e sviamento, illegittima limitazione del punteggio attribuito alla professionalità specifica.

Denuncia parte ricorrente l’incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, dell’art. 31, lettera b) della deliberazione n. 121 del 18 marzo 2009 nella parte in cui, con riferimento alla professionalità specifica, prevede l’attribuzione di un massimo di 10 punti calcolati con riferimento agli ultimi 20 anni di carriera, con riconoscimento di 0,80 punti per ogni anno o frazione di anno superiore a sei mesi nell’area nella quale si colloca la funzione da assegnare, sostenendo parte ricorrente come il tetto massimo del punteggio attribuibile per tale voce azzererebbe il valore della professionalità specifica acquisita dopo il periodo necessario a conseguire tale punteggio.

IV – Violazione e falsa applicazione della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti prot. n. 241 del 2009 e successive modificazioni e integrazioni. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare per irragionevolezza, illogicità, perplessità, contraddittorietà, travisamento, erroneità dei presupposti, ingiustizia manifesta. Disparità di trattamento, difetto di motivazione e sviamento, illegittima limitazione del punteggio attribuito alla professionalità specifica.

Afferma parte ricorrente che una corretta applicazione dei criteri fissati dall’art. 31 della delibera n. 121 del 2009 avrebbe dovuto determinare il riconoscimento della propria prevalenza sul controinteressato, in ragione delle risultanze emergenti dal proprio curriculum, di cui illustra i relativi elementi.

Con ricorso per motivi aggiunti, proposti successivamente all’acquisizione, a seguito di istanza di accesso, del verbale dell’adunanza del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti dell’11 maggio 2010 relativa all’audizione dei candidati ed all’esito della procedura, rappresenta parte ricorrente di aver ottenuto il punteggio complessivo di 22,48 punti a fronte dei 28,30 punti attribuiti al controinteressato, rispetto al quale aveva ottenuto un maggior punteggio sulla base dei criteri automatici.

Avverso tale verbale deduce parte ricorrente i seguenti motivi di censura:

I – Violazione e falsa applicazione dell’art. 31, comma 1, lettera c), della deliberazione n. 121 del 18 marzo 2009 della Corte dei Conti. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 e 97 della legge n. 241 del 1990 e successive modificazioni. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare per irragionevolezza, illogicità, perplessità, contraddittorietà, travisamento, erroneità dei presupposti, ingiustizia manifesta. Disparità di trattamento, difetto di motivazione e sviamento, illegittima limitazione del punteggio attribuito alla professionalità specifica.

Denuncia parte ricorrente l’intervenuta violazione dei criteri fissati dall’art. 31, comma 1, lettera c), della deliberazione n. 121 del 18 marzo 2009 della Corte dei Conti, per l’attribuzione del punteggio discrezionale, significando come alcuni dei componenti del Consiglio di Presidenza – e segnatamente i componenti Trancanella, Caravita di Toritto, Ferrari e Lentini – abbiano attribuito il loro voto al controinteressato S senza fornire alcuna motivazione, neanche per relationem, con riferimento al curriculum del candidato prescelto ed alle capacità organizzative e professionali dello stesso, laddove la citata disposizione prevede che venga espresso un giudizio motivato.

Lamenta, altresì, parte ricorrente l’erroneità e contraddittorietà delle motivazioni poste a sostegno del voto di preferenza espresso a favore del controinteressato S da parte degli altri componenti il Consiglio di Presidenza – e segnatamente dai componenti Manzella, Pandolfo, Ristuccia, Lazzaro - in quanto basate su elementi, quali i risultati dell’audizione e l’avvenuto svolgimento, da parte del controinteressato, dell’incarico di Segretario Generale, asseritamente estranei a quelli che debbono essere presi in considerazione ai sensi della disciplina di riferimento.

Contesta, inoltre, parte ricorrente le valutazioni espresse dal Presidente Lazzaro in ordine al maggior numero di anni di servizio garantiti dal controinteressato S rispetto al ricorrente, significando come ai fini della partecipazione alla procedura concorsuale de qua sia richiesto unicamente un residuo periodo di permanenza in servizio di 18 mesi.

II - Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 e 97 della legge n. 241 del 1990 e successive modificazioni. Violazione e falsa applicazione dell’art. 31, comma 1, lettera c), della deliberazione n. 121 del 18 marzo 2009 della Corte dei Conti. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare per irragionevolezza, illogicità, perplessità, contraddittorietà, travisamento, erroneità dei presupposti, ingiustizia manifesta. Disparità di trattamento, difetto di motivazione e sviamento, illegittima limitazione del punteggio attribuito alla professionalità specifica.

Contesta parte ricorrente la decisione del Consiglio di Presidenza di considerare non valutabili due titoli del ricorrente tardivamente documentati, affermando l’insussistenza di un onere di loro allegazione per essere essi già in possesso dell’Amministrazione.

Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione sostenendo, con articolate controdeduzioni e successiva memoria, l’infondatezza del ricorso con richiesta di corrispondente pronuncia.

La resistente Amministrazione ha, in particolare, significato come la questione di illegittimità costituzionale della norma dettata dall’art. 11, comma 8, della legge n. 15 del 2009, analoga a quella sollevata da parte ricorrente, è stata dalla Corte Costituzionale definita con sentenza n. 16 del 13 gennaio 2011, dichiarandola inammissibile.

Si è costituito in giudizio anche il controinteressato Dott. S, sostenendo, con articolate controdeduzioni e con successiva memoria, l’infondatezza del ricorso con richiesta di corrispondente pronuncia.

Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha controdedotto a quanto ex adverso sostenuto, insistendo nelle proprie deduzioni e ulteriormente argomentando.

Alla Pubblica Udienza del 22 giugno 2011, la causa è stata chiamata e, sentiti i difensori delle parti, trattenuta per la decisione, come da verbale.


DIRITTO

Con il ricorso in esame, integrato da motivi aggiunti, è proposta azione impugnatoria avverso, innanzitutto, gli atti – meglio descritti in epigrafe nei loro estremi – concernenti l’esito della procedura concorsuale, cui ha partecipato l’odierno ricorrente, per la copertura del posto di funzione di Presidente della Sezione di Controllo sugli Enti della Corte dei Conti, conclusasi con l’assegnazione del posto al Dott. S.

La proposta azione impugnatoria si estende alla disciplina consiliare che governa la procedura di assegnazione dei posti funzione, come in particolare dettata dall’art. 31 della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti n. 121/CP/2009 del 18 marzo 2009, recante i criteri di valutazione dei candidati, e dalla deliberazione prot. 241 del 28 luglio 2009, recante la modifica del criterio di cui al citato art. 31, comma 1, lett. c) della deliberazione n. 121/CP/2009 del 18 marzo 2009, concernente il punteggio discrezionale il quale, precedentemente fissato per ciascun componente nella misura di 0,80 punti, è stato innalzato a 1,20 punti quale conseguenza della riduzione del numero dei componenti del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti intervenuta per effetto dell’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15.

L’impianto ricorsuale, come delineato dalle censure proposte, si snoda innanzitutto attraverso la denuncia di illegittimità della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti in ragione della lamentata illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15 – recante delega al Governo finalizzata all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e alla Corte dei Conti - che ha modificato la composizione dell’organo, individuandone i relativi membri nel Presidente della Corte, che lo presiede, nel Presidente aggiunto, nel Procuratore generale, in quattro rappresentanti del Parlamento eletti ai sensi dell'articolo 7, comma 1, lettera d), della legge 27 aprile 1982, n. 186, e successive modificazioni, e dell'articolo 18, comma 3, della legge 21 luglio 2000, n. 205, e in quattro magistrati eletti da tutti i magistrati della Corte.

Con riferimento a tale modifica della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, che nel fissare in quattro il numero dei componenti eletti dai magistrati della Corte dei Conti, ha ridotto il numero precedentemente fissato in dieci componenti, così stabilendo la parità numerica tra componenti togati eletti dai magistrati e componenti laici eletti dal Parlamento, deduce parte ricorrente l’incostituzionalità della norma che tale modifica ha introdotto – id est il citato art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15 - per violazione degli artt. 3, 97, 100, 103, 104 e 108 della Costituzione, censurando sotto il profilo della illegittimità derivata le gravate delibere di assegnazione del posto di funzione di Presidente della Sezione di Controllo sugli Enti della Corte dei Conti al Dott. R S.

Il Collegio – anticipando le conclusioni che, alla luce delle considerazioni che si andranno ad esporre, intende trarre - ritiene non manifestamente infondata la sollevata eccezione di illegittimità costituzionale della citata norma con riferimento agli artt. 100, 101, 103 e 108, comma 2, della Costituzione, in relazione agli artt. 3 e 104 della Costituzione e, previo positivo riscontro della rilevanza della questione, ritiene di dover adottare ordinanza di rimessione della questione alla Corte Costituzionale, in tal modo sollecitando nuovamente il vaglio della Consulta la quale, con sentenza n. 16 del 13 gennaio 2011, ha dichiarato inammissibile, per inammissibilità del petitum, analoga questione, relativa alla citata norma, sollevata da questo Tribunale – con parzialmente diversa prospettazione - con ordinanza n. 503 del 2010.

Ciò posto, rileva il Collegio - avuto riguardo alla verifica della condizione di ammissibilità dell’incidente di costituzionalità, rappresentata dalla rilevanza della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15 in quanto strumentalmente necessaria alla definizione del giudizio - come la denunciata illegittimità della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, come asseritamente derivata dalla incostituzionalità della norma che la disciplina, si riflette, in via derivata e consequenziale, sulla legittimità delle deliberazioni adottate, gravate con il ricorso in esame, in base alle quali il controinteressato S è stato preferito all’odierno ricorrente per l’assegnazione del posto di funzione di Presidente della Sezione di Controllo sugli Enti della Corte dei Conti, in quanto adottate dal Consiglio di Presidenza nella composizione ritenuta illegittima.

La rilevanza della questione risiede nella considerazione che l’illegittimità della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, come derivante dalla ritenuta illegittimità costituzionale della normativa vigente che stabilisce la nomina dei relativi componenti, incide in modo diretto sull'esercizio delle funzioni allo stesso attribuite.

Va, dunque, positivamente riscontrata la sussistenza di una delle condizioni di ammissibilità dell’incidente di costituzionalità della norma che disciplina la composizione del Consiglio di presidenza, data la rilevanza che una questione siffatta sicuramente riveste nel corso di qualsivoglia giudizio in cui si discuta della regolarità degli atti adottati da tale organo.

Inoltre, laddove venisse accertata l’illegittimità della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti in ragione dell’eventuale illegittimità costituzionale della norma che tale composizione stabilisce, ne conseguirebbe l'invalidità degli atti adottati dall'organo viziato nella sua composizione, ivi comprese le gravate delibere.

Ciò in applicazione delle ordinarie regole secondo cui l'illegittima composizione dell’organo deliberante determina, quale conseguenza obiettiva e senza necessità del riscontro, in concreto, di ulteriori profili di illegittimità, l'invalidità dell'operato dell'organo, conseguendo da ciò l'annullamento degli atti procedimentali adottati in tale composizione.

Ciò non senza segnalare le problematiche inerenti la concreta individuazione dello strumento decisionale che consenta alla Corte di censurare la composizione prevista per il Consiglio di presidenza senza ledere il principio di continuità dell'ordinamento normativo il quale, nel bilanciamento dei valori, potrebbe essere ritenuto prevalente sulle censure di illegittimità costituzionale – potendo manifestarsi l'esigenza di limitare gli effetti caducatori della pronuncia della Corte - in tal modo confliggendo con la natura incidentale del sindacato effettuato dal Giudice delle leggi, senza comunque incidere sul riscontro del requisito della rilevanza.

In disparte la questione inerente la scelta del concreto strumento con cui la Corte potrebbe aderire ai manifestati dubbi di illegittimità costituzionale della norma,deve osservarsi, quindi, sotto lo specifico profilo della rilevanza della questione deve osservarsi che in ragione della portata e degli effetti di una eventuale pronuncia che dichiari l’illegittimità costituzionale della norma in questione la stessa non potrebbe più trovare applicazione con riferimento ai rapporti pendenti o non ancora esauriti, quale quello di cui si controverte.

Alle conseguenze invalidanti da annettere alla incostituzionalità della norma che disciplina la composizione dell’organo, che nella prospettazione di parte ricorrente determinerebbe l’illegittimità delle gravate delibere, va, dunque, ricondotta la rilevanza della questione.

Inoltre, nella gradata elaborazione logica delle questioni sollevate con il ricorso in esame, riveste priorità giuridica, oltre che logica, la preliminare disamina dei profili inerenti la dedotta illegittimità della composizione dell’organo deliberante, stante l’incontrovertibile portata invalidante dell’illegittima composizione dell’organo collegiale rispetto agli atti da questo adottati, avente carattere assorbente rispetto ad ogni altro profilo in quanto inerente la legittimità dello stesso esercizio della funzione attribuita all’organo deliberante.

Conduce, quindi, ad esito positivo la verifica in ordine alla sussistenza di uno dei presupposti di ammissibilità della questione incidentale della norma dettata dall’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15 – inerente il profilo della rilevanza della questione ai fini del decidere in ordine alla controversia in esame – in quanto trattasi di norma strumentale alla definizione del giudizio a quo, derivando dall’applicazione di tale norma la composizione dell’organo della cui legittimità si discute, che si riflette in via derivata sulle delibere impugnate, lesive dell’interesse di cui il ricorrente è portatore.

Quanto all’ulteriore requisito di ammissibilità della questione di illegittimità costituzionale, costituito dalla non manifesta infondatezza della stessa, il Collegio, come anticipato e per le ragioni che si andranno ad esporre, nutre dubbi consistenti sulla non conformità della norma alla Costituzione, ritenendo conseguentemente di dover sollecitare l’intervento della Corte Costituzionale affinché risolva i prospettati dubbi e dirima la pregiudiziale costituzionale.

Prima di procedere all’illustrazione delle motivazioni in base alle quali il Collegio ritiene la non manifesta infondatezza della questione, è tuttavia necessario soffermarsi su talune precisazioni sollecitate dalla consapevolezza che analoga questione, con ordinanza n. 503 del 23 marzo 2010, è già stata sottoposta dalla Sezione al vaglio della Corte Costituzionale la quale, con la sentenza n. 16 del 13 gennaio 2011, ha dichiarato la questione inammissibile per incertezza del petitum.

A fronte di una statuizione della Corte Costituzionale che ha definito con una pronuncia di rito la questione, dichiarandola inammissibile, permangono nel Collegio i dubbi in ordine ai profili di illegittimità costituzionale della norma, il che, nel non consentire di risolvere tali dubbi in via interpretativa alla luce delle indicazioni recate dalla citata sentenza, costituisce il fondamento della attuale decisione di rimettere nuovamente la questione alla Consulta.

Invero, la Corte Costituzionale ha affermato, nella sentenza n. 16 del 2011, che il rapporto numerico tra membri togati e membri laici del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti può essere variamente fissato dal Legislatore ordinario nel rispetto del principio costituzionale di indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, affermando la necessità della sussistenza di un organo di garanzia di cui facciano necessariamente parte sia componenti eletti dai giudici delle singole magistrature, sia componenti esterni di nomina parlamentare, nel bilanciamento degli interessi, costituzionalmente tutelati, in modo da evitare tanto la dipendenza dei giudici dal potere politico, quanto la chiusura degli stessi in caste autoreferenziali, escludendo la percorribilità delle due soluzioni estreme al problema delle garanzie istituzionali di indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali - imposta dall’art. 108 della Costituzione – sintetizzabili, l’una, nella integrale estensione, agli organi di garanzia delle suddette giurisdizioni, del modello previsto dall’art. 104 Cost. per la magistratura ordinaria e, l’altra, consistente nel ritenere del tutto priva di vincoli finalistici la riserva di legge contenuta nel citato art. 108, secondo comma, della Costituzione.

In tali statuizioni non rinviene il Collegio utili elementi che consentano di delibare nel senso della manifesta infondatezza in ordine alla prospettata questione di illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15, in base ai quali dirimere i relativi dubbi che hanno condotto alla precedente rimessione della stessa alla Corte Costituzionale.

Il necessario bilanciamento degli interessi di rilievo costituzionale, segnalato dalla Consulta, appare invero connotato da profili di criticità e di dubbia compatibilità costituzionale in presenza della scelta legislativa di stabilire una composizione del Consiglio di Presidenza numericamente uguale sia per i membri eletti in rappresentanza dei magistrati della Corte dei Conti sia per i membri non togati eletti dal Parlamento.

Rispetto a tale peculiarità numerica della composizione dell’organo, data dalla parità delle relative componenti, il Collegio non riesce a trarre dalle statuizioni rese dalla Consulta indicazioni utili a dirimere i persistenti dubbi di illegittimità costituzionale della norma, avuto particolare riguardo alla compatibilità della scelta discrezionale del legislatore con il principio di indipendenza delle magistrature speciali, presidiato dall’art. 108, comma 2, della Costituzione.

Alle ragioni dianzi illustrate vanno dunque ricondotte le motivazioni sottese alla decisione di investire nuovamente la Corte Costituzionale della questione di illegittimità costituzionale della norma dettata dall’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15, emendando l’ordinanza di rimessione della questione dai profili di inammissibilità riscontrati con riferimento alla precedente ordinanza della Sezione n. 503 del 2010.

Non si intende, difatti, con il riproporre la questione, sollecitare da parte della Consulta l’esercizio di una funzione sostitutiva del Legislatore ordinario, invadendo la discrezionalità a questi riservata nell’attuazione della riserva di legge e, quindi, nella determinazione del numero dei componenti dell’organo, ma è indubbio che esista un limite di compatibilità costituzionale nel rapporto numerico tra componenti laici e componenti togati oltre il quale si determina un vulnus all’indipendenza dell’organo di garanzia che non trova più giustificazione nella necessità di bilanciamento dei contrapposti interessi identificati dalla Consulta nella sentenza n. 16 del 2011.

E’, dunque, con riferimento al rapporto numerico tra componenti laici e componenti togati del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, in concreto stabilito dal legislatore in pari misura con la norma di cui all’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 15, che si profilano i dubbi di legittimità costituzionale che si intendono sottoporre all’esame della Corte Costituzionale, alla quale si chiede di vagliare la conformità alla Costituzione della concreta scelta effettuata dal Legislatore nell’esercizio della discrezionalità allo stesso riconosciuta.

La questione sollecita, quindi, una pronuncia sulla norma della cui legittimità costituzionale si dubita, così da escludere tra le soluzioni costituzionalmente compatibili, in caso di positivo esame della questione, la soluzione adottata dal Legislatore della parità numerica tra componenti togati e componenti laici, indirizzando il successivo esercizio della discrezionalità del Legislatore alla stregua di affermazioni di principio, individuando, con riferimento alla prospettata questione, i principi essenziali, cui tale discrezionalità deve informarsi, senza che il sollecitato vaglio costituzionale si estenda alla individuazione, da parte della Consulta, di un concreto rapporto numerico mediante adozione di una sentenza additiva.

Una volta individuato il paradigma costituzionale entro cui la discrezionalità del Legislatore può legittimamente estendersi ed eventualmente censurata la concreta scelta effettuata, spetterà al Legislatore l’individuazione di soluzioni normative diverse, idonee a rimuovere il denunciato vizio di legittimità costituzionale, conformi ai principi dettati dall’art. 108, comma 2, della Costituzione.

Tanto premesso, ritiene il Collegio che la questione di illegittimità costituzionale della norma dettata dall’art. 11, comma 8, della legge 4 marzo 2009 n. 17 non sia manifestamente infondata, apparendo in contrasto con gli artt. 100, 101, 103 e 108, comma 2, in relazione agli artt. 3 e 104 della Costituzione, dovendo pertanto essa essere sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale per le ragioni che si andranno ad illustrare e sulla base del quadro di riferimento delineato dalle norme di cui appresso.

L’art. 100, comma 2, della Costituzione, stabilisce che la legge assicura l’indipendenza della Corte dei Conti e dei suoi componenti di fronte al Governo.

L'art. 101, comma 1, della Costituzione, con cui si apre il titolo IV della seconda parte della Costituzione, afferma che la giustizia è amministrata in nome del popolo e che i giudici sono soggetti soltanto alla legge.

L’art. 103 della Costituzione delinea il settore di giurisdizione e le competenze del Consiglio di Stato e degli altri organi di giustizia amministrativa, della Corte dei Conti e dei Tribunali militari in tempo di pace.

L’art. 108, comma 2, stabilisce che la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali.

L’art. 104 della Costituzione stabilisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, declinando la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, di cui sono membri di diritto il primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di cassazione, mentre gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.

Ai fini della rimessione della questione alla Corte Costituzionale, giova preliminarmente soffermarsi su alcune riflessioni in ordine all’approdo dell’elaborazione, anche alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale, della problematica inerente l’unitarietà della giurisdizione quale principio sotteso, ancorché implicitamente, al dettato costituzionale, che nella sua più stringente accezione condurrebbe ad una reductio ad unitatem delle diverse giurisdizioni sia da un punto di vista strutturale che procedimentale.

L’unitarietà o unicità della giurisdizione è stata variamente declinata quale espressione attinente alla organizzazione degli uffici giurisdizionali o quale concetto relativo alla funzione giurisdizionale.

A tale principio di unitarietà si contrappone la diversa concezione, ormai risalente e piuttosto isolata, che vuole la Costituzione come informata alla pluralità delle giurisdizioni, da cui correlativamente la conseguenza argomentativa secondo cui la mancata previsione a livello costituzionale di istituti di garanzia per le giurisdizioni speciali farebbe sì che i giudici speciali risultino necessariamente meno tutelati dei giudici ordinari.

La tematica sembra aver trovato sistemazione nel senso di dover respingere una lettura ‘forte’ del principio di unitarietà della giurisdizione nel senso della necessaria unificazione, strutturale e procedimentale, delle singole giurisdizioni, a favore della configurazione di un sistema caratterizzato dalla presenza di più giurisdizioni, distinte fra loro per organizzazione, competenze e poteri, ma tutte comunque assistite da sufficienti garanzie di indipendenza, pena il venir meno dello stesso carattere della giurisdizionalità della funzione.

Ne discende la sostanziale assimilazione delle diverse magistrature a quella ordinaria per quel che riguarda, innanzitutto, lo stato giuridico e le garanzie di indipendenza, senza peraltro che si possa parlare di unicità sostanziale delle giurisdizioni.

Giova, al riguardo, richiamare la sentenza n. 278 del 1987, con la quale la Corte ha espressamente riconosciuto che «(...) esistono princìpi e valori, costituzionalmente vincolanti, che attengono a tutte le giurisdizioni: ad esempio, il principio dell'indipendenza dei giudici vale per tutte le giurisdizioni ordinarie e speciali (per queste ultime cfr. l'art. 108 comma 2 Cost.) (...). Tali princìpi non attengono alla giurisdizione ordinaria ma al concetto stesso «generale» di giurisdizione: sicché organi o procedimenti disciplinati in violazione dei predetti princìpi non possono qualificarsi né ordinari né speciali in quanto, ancor prima, non costituiscono organi o procedimenti giurisdizionali. Conseguentemente, prevedere il superamento delle lacune (eventualmente esistenti prima dell'entrata in vigore della Costituzione) relative alla violazione dei princìpi in discussione, non equivale a rendere ordinaria una magistratura speciale bensì a rendere costituzionale la medesima».

Analogamente, nella sentenza 1 marzo 1995 n. 71, a proposito del divieto di istituire giudici speciali di cui all'art. 102 Cost., la Corte esplicitamente ha sostenuto che la disposizione in questione «pur perseguendo il principio di unità della giurisdizione, che riflette le garanzie di indipendenza proprie della magistratura e si combina con esse, non impone l'unicità degli organi di giurisdizione, né esclude che possano ancora permanere giudici non regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario, la cui indipendenza sia ugualmente assicurata» (art. 108)».

Dal sistema costituzionale emerge che la funzione giurisdizionale è unica, anche se ripartita tra quattro complessi giurisdizionali diversi. Il principio di unità della giurisdizione deve, pertanto, essere attuato garantendo l'unità delle garanzie, sia pure nella pluralità dei complessi giurisdizionali. La norma di chiusura di questo sistema di garanzie unitario va individuata nell'art. 101, comma 2, Cost., il quale, sancendo il principio per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, rappresenta il valore costituzionale su cui si fonda l'autonomia e indipendenza di tutti i soggetti chiamati ad esercitare la funzione giurisdizionale.

L'unità delle garanzie va certamente intesa come omologazione dei risultati, nel senso della necessità, come affermato dalla Consulta nella sentenza n. 16 del 2011, dell’esistenza di un organo di garanzia che deve assicurare, qualunque sia la strutturazione del sistema di autogoverno, l’indipendenza delle singole compagini giurisdizionali, essendo piena ed assoluta la loro unità con riferimento all'indipendenza che da tali sistemi deve essere assicurata.

In tale contesto, l'autonomia organizzativa degli apparati giurisdizionali, che è strumentale all'indipendenza di cui devono godere coloro che sono deputati all'esercizio della funzione giurisdizionale, richiede quindi necessariamente la istituzione di un organo di autogoverno, come peraltro affermato dalla Consulta nella sentenza n. 16 del 2011, con ciò affermando che l’istituzione, per le diverse giurisdizioni speciali, di appositi organi di autogoverno o di garanzia, rappresenti una soluzione necessitata anche in assenza di una specifica previsione costituzionale analoga a quella di cui all’art. 104 della Costituzione.

Ai descritti paradigmi va ricondotta la problematica della composizione dei Consigli di presidenza delle magistrature speciali, trattandosi di questione fondamentale non solo per la garanzia della autonomia delle magistrature dagli altri poteri dello Stato, ma anche per la garanzia della indipendenza dei singoli giudici, stante la stretta e profonda connessione tra tali aspetti, capaci di incidere l’uno sull’altro sulla base di un rapporto di osmosi necessaria.

Ed invero, l’indipendenza della magistratura come ordine non può credibilmente essere predicata laddove non venga assicurata l’indipendenza dei singoli magistrati, altrimenti risolvendosi in un concetto astratto privo di reale efficacia, ancorato a concezioni istituzionalistiche della magistratura quale ordine autonomo e indipendente e ordinamento a sé stante, ed inidoneo ad assicurare l’esercizio imparziale della funzione giurisdizionale.

In ragione delle funzioni, delle attribuzioni e delle competenze degli organi c.d. di autogoverno delle magistrature – ovvero di governo della magistratura mediante adozione di atti a carattere generale e astratto e di provvedimenti concreti, concernenti, tra gli altri, l’organizzazione e la composizione degli uffici giudiziari, le assegnazioni dei magistrati, i trasferimenti, le nomine e le sanzioni disciplinari – il funzionamento di tali organi deve essere disciplinato in modo da garantire sia l’indipendenza e l’autonomia dagli altri poteri della magistratura intesa quale ordine, che l’indipendenza dei singoli magistrati, potendo derivare intuitivi ed inevitabili condizionamenti nello svolgimento delle funzioni da parte del singolo magistrato dalle concrete modalità di esercizio dei poteri di competenza dei Consigli di presidenza (così come dal C.S.M.) in materia di aspettative di carriera, di trasferimenti o di sanzioni disciplinari (a tale ultimo proposito: Corte Costituzionale, sentenza n. 87 del 2009) in ragione dei riflessi dell’attività svolta dagli organi di garanzia sulle prerogative giudiziarie di ogni singolo magistrato e, dunque, sulla sua indipendenza.

Di particolare rilievo, ai fini che qui interessano, sono le considerazioni espresse dalla Consulta nella citata sentenza n. 87 del 2009 – con cui ha sancito l'illegittimità costituzionale del divieto posto ai magistrati amministrativi e contabili di avvalersi di un avvocato di fiducia nel procedimento disciplinare – sulla scorta dell’affermazione dell’indipendenza come carattere unitario di tutti i giudici ordinari e speciali, configurando l'indipendenza della magistratura come principio unitario comune e indifferenziato per tutti gli ordini giudiziari, sul fondamento giuridico individuato nell’art. 104, che dispone che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere », e nell'art. 108 dispone che la legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali e che dunque reca il precetto costituzionale che garantisce piena indipendenza anche ai giudici amministrativi e contabili, configurando l'indipendenza della magistratura come principio unitario comune e indifferenziato per tutti gli ordini giudiziari e valore irrinunciabile.

Secondo la Consulta, la Costituzione distingue tra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali ma detta anche norme generali sulla giurisdizione e sul processo, preoccupandosi di definire le garanzie necessarie al corretto svolgimento della funzione e, tra queste garanzie, vi è quella dell’indipendenza dei magistrati, che riguarda tanto la magistratura ordinaria quanto le giurisdizioni speciali.

Nell'omogenea definizione data all'indipendenza di tutti i giudici, dunque, la Corte costituzionale , con la citata decisione ha affermato che l'unità della giurisdizione rappresenta un inequivoco dato insito nell'ordinamento pur nella conservazione della distinzione oggettivo-funzionale tra giudici ordinari e giudici speciali, dovendo in tale prospettiva l'autogoverno magistratuale – distintamente regolato all’interno del dettato costituzionale - essere inteso non alla salvaguardia di interessi corporativi, bensì alla tutela dell'indipendenza del potere giurisdizionale, distinguendosi tra loro, a norma della costituzione, i magistrati, tanto ordinari quanto amministrativi, soltanto per la diversità delle funzioni giurisdizionali esercitate.

Deve, pertanto, darsi per acquisita l'indipendenza dei giudici speciali, esistenti all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, in misura equivalente a quella dei giudici ordinari, come desumibile dal principio di indipendenza di tutta la magistratura, sulla scorta dell’insegnamento della Corte costituzionale, potendo quindi ritenersi consolidato e definitivamente chiarito l'assunto in base al quale detta garanzia spetti indistintamente a chiunque appartenga alla magistratura, essendo a tutti i giudici di ogni ordine e grado dovuta pari indipendenza in quanto soggetti soltanto alla legge e non ad autorità, poteri o influssi estranei.

Il riferito valore dell'indipendenza non può essere promosso o compresso nel suo contenuto a seconda della tipologia di giudice, perché non sono configurabili diversi livelli di indipendenza, che è stata voluta dal Costituente per tutti i magistrati, ordinari e speciali, affinché essi siano assoggettati soltanto alla legge e lavorino affrancati dalle interferenze provenienti dagli altri poteri e dai condizionamenti derivanti dall'interno dell'apparato giudiziario.

Nella descritta prospettiva – di garanzia dell’indipendenza della magistratura e dei singoli magistrati – assume decisivo ed imprescindibile rilievo la composizione dei consigli di presidenza, dovendo in proposito osservarsi come, a fronte della comune esigenza di garanzia dell’indipendenza delle magistrature e dei singoli magistrati e del possibile vulnus che a tale indipendenza può derivare dalla configurazione e dal funzionamento degli organi di autogoverno, la Carta Costituzionale abbia espressamente disciplinato, all’art. 104, unicamente l’organo di autogoverno della magistratura ordinaria, stabilendone la composizione e così ponendo stringenti limiti al Legislatore ordinario, laddove per le magistrature speciali non ha disciplinato tale profilo, rimettendolo al Legislatore ordinario.

Se l’autonomia organizzativa degli apparati giurisdizionali è strumentale sia alla loro indipendenza che a quella di cui devono godere coloro che sono deputati all’esercizio della funzione giurisdizionale, la garanzia della indipendenza delle magistrature speciali e dei giudici che ne fanno parte, è stata affidata, dagli artt. 100, comma 3, e 108, comma 2, della Costituzione, alla legge, la quale deve “assicurare” – e significativamente la scelta dell’espressione “assicura”, ribadita in entrambe le disposizioni, nella sua cogente valenza, richiama il concetto di effettività - tale indipendenza, ovvero deve predisporre strumenti adeguati a garantirla effettivamente.

Mentre, quindi, il Consiglio Superiore della Magistratura è organo la cui composizione, durata e competenza sono fissate dalla Costituzione (articoli 104 e 105) ed è presieduto dal Presidente della Repubblica, recando la stessa Costituzione le regole concernenti le incompatibilità e la rieleggibilità dei suoi componenti, gli organi di garanzia delle altre magistrature sono, invece, organi istituiti con legge ordinaria, in conformità a quanto stabilito nel secondo comma dell'art. 108 della Costituzione, che vuole appunto che l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali sia assicurata mediante le previsioni contenute in leggi ordinarie.

La Costituzione, nel prevedere la necessità, sul piano formale, della fonte legislativa per la disciplina dell’indipendenza delle magistrature speciali e lasciando piena libertà al Legislatore quanto al contenuto di tale disciplina, ha contestualmente anche previsto che la legge debba effettivamente garantire tale indipendenza, senza peraltro fornire un preciso modello al quale il legislatore dovesse uniformarsi, unicamente imponendo il vincolo finalistico volto ad “assicurare” tale indipendenza.

La Costituzione prevede, quindi, che gli organi di garanzia delle magistrature siano diversamente disciplinati e distintamente regolati, potendo conseguentemente l’interesse pubblico generale, perseguito dall’insieme delle norme costituzionali dettate con riferimento alla magistratura di ogni ordine e grado, costituito dall’indipendenza, essere attuato tramite differenti schemi e moduli organizzativi elaborati in connessione alle peculiari caratteristiche delle singole giurisdizioni.

Il Legislatore può quindi articolare diversamente da quanto previsto per il C.S.M. gli organi di garanzia delle singole giurisdizioni, non trovando l’uniformità organizzativa rango costituzionale, né costituendo il modello del C.S.M. scelta costituzionalmente obbligata, non incidendo peraltro la relativa diversità degli organi di garanzia, di per sé, sul precetto costituzionale di indipendenza valevole per tutti i giudici, la quale, per le magistrature speciali, deve essere tradotta a livello di fonti primarie a condizione, tuttavia, che siano rispettati i principi costituzionali comuni.

Risulta, quindi, pienamente compatibile con l’assetto costituzionale il riconoscimento della legittimità di un sistema diversificato di garanzie a tutela della indipendenza dei giudici speciali, articolato e modulato in rapporto alle peculiarità ordinamentali delle diverse giurisdizioni, risultando maggiormente aderente al dettato costituzionale la lettura del principio di unitarietà della giurisdizione nel senso di giurisdizioni che restano distinte quanto ad organizzazione degli uffici, a competenze e poteri.

L’assimilazione delle magistrature speciali a quella ordinaria riguarda le garanzie di indipendenza e lo status giuridico, con conseguente assimilazione dal punto di vista funzionale, senza che da ciò possa desumersi la necessaria identità strutturale e l’omologazione dei rispettivi organi di garanzia, che ben possono rispondere a distinti schemi organizzativi e ordinamentali.

Se l’istituzione di appositi organi di autogoverno rappresenta, come detto, alla luce della recente pronuncia della Consulta n. 16 del 2011, una soluzione necessitata, e se a fronte dell’assenza di una specifica previsione analoga a quella di cui all’art. 104 della Costituzione è rimessa al Legislatore la scelta di quale modello adottare, non può peraltro sfuggire al sindacato del Giudice delle leggi la disciplina concernente la composizione ed il funzionamento degli organi di garanzia, pur in assenza – e forse a maggior ragione stante tale assenza - del carattere di prescrittività del modello adottato per il C.S.M. e di stringenti vincoli per il Legislatore di ricalcare tale modello.

Difatti, se la disciplina legislativa dei sistemi di autogoverno o di garanzia delle magistrature non ordinarie può discostarsi dal modello costituzionale di riferimento delineato dall’art. 104 della Costituzione, è tuttavia necessario che tale discostamento sia ragionevole e che le differenze dal modello ritenuto dai Costituenti idoneo a garantire l’indipendenza della magistratura ordinaria siano giustificate dalla peculiarità della giurisdizione, ferma restando la necessità che lo strumento organizzativo adottato risulti idoneo a garantire in modo adeguato l’indipendenza dei giudici cui si riferisce.

L’architettura costituzionale impone, quindi, il sindacato intrinseco e sostanziale della Corte sulla congruità degli strumenti prescelti dal Legislatore rispetto al fine da realizzare.

Solo in presenza di più soluzioni tutte idonee a garantire il perseguimento di tale fine deve essere fatta salva la discrezionalità del Legislatore, ad esso non potendosi sostituire la Corte Costituzionale con il suo sindacato, così come affermato dalla stessa Corte nelle ordinanze n. 377 del 1998 e n. 161 del 1999 proprio in relazione a questioni di legittimità costituzionale, dichiarate inammissibili, sollevate circa la composizione del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa.

La posizione della Corte espressa nelle citate pronunce consente di affermare che l’assetto degli organi di garanzia delle magistrature speciali si presta ad essere disciplinato in modi diversi, con i consueti limiti della ragionevolezza e non arbitrarietà, dovendo la scelta trovare adeguata giustificazione nella peculiarità dell’ordinamento giurisdizionale ed essere comunque idonea a garantire l’indipendenza sia dell’ordine nel suo complesso, che dei singoli componenti, da affiancare all’indipendenza funzionale assicurata dall’inamovibilità, dall’irrevocabilità, dall’assenza di vincoli gerarchici, ecc.

L’intervento della Consulta va quindi sollecitato laddove la scelta del Legislatore non appaia in grado di assicurare l’indipendenza della magistratura speciale, dovendo conseguentemente tale scelta essere sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, altrimenti traducendosi la discrezionalità del Legislatore in libertà assoluta ed arbitrio, esautorando la Corte Costituzionale del sindacato sulla congruità delle scelte del Legislatore rispetto al fine posto dalla Costituzione di assicurare l’indipendenza dei giudici speciali.

La Corte peraltro, ha in passato dichiarato fondata la relativa questione sia a proposito della precedente composizione del Consiglio di presidenza della Corte dei conti che della mancata costituzione dell’organo di autogoverno della magistratura militare (C.Cost. sentenze n. 230 del 1987 e 266 del 1988).

Il sindacato di costituzionalità sulla congruità delle scelte del Legislatore ordinario rispetto al perseguimento del fine posto dalla Costituzione pone dunque, in concreto, il problema della individuazione dei parametri ai quali far riferimento e, in particolare, se ed entro quali limiti la disciplina costituzionale della magistratura ordinaria e del suo organo di autogoverno possa costituire un punto di riferimento a questi fini.

Al riguardo, riprendendo le considerazioni già accennate, sembra potersi affermare che, a differenza di quanto avviene in relazione alla indipendenza funzionale (concernente l’esercizio concreto della giurisdizione da parte dei singoli magistrati, che si traduce nella loro sottrazione a qualsiasi vincolo o prescrizione di attività che non derivi direttamente dalla legge) non esistano, quanto alla costituzione degli organi di garanzia delle magistrature, scelte costituzionalmente obbligate da porre a presidio della indipendenza istituzionale (attinente cioè alla organizzazione della magistratura che risulti idonea a porre il giudice nelle condizioni di esercitare liberamente le proprie funzioni), a differenza di quanto avviene per la magistratura ordinaria.

Come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 266 del 1988, la Costituzione, mentre per la magistratura ordinaria prevede espressamente il Consiglio superiore, disciplinandone, in maniera specifica (art. 104) la composizione, rimette, invece, al Legislatore ordinario (art. 108) l'assicurazione delle garanzie d'indipendenza dei magistrati delle giurisdizioni speciali, spettando, pertanto, alla legge di provvedere in ordine alle predette garanzie, segnalando come “ove la Costituzione avesse inteso "rimettere" al Consiglio superiore previsto dall'art. 104 anche l'autogoverno dei magistrati delle giurisdizioni speciali, l'avrebbe espressamente dichiarato” ed osservando altresì che il secondo comma dell'art. 108 Cost. impone alla legge d'assicurare l’indipendenza a tutti i magistrati delle giurisdizioni speciali senza sottoporre ad alcuna condizione l'assicurazione delle predette, oggettive garanzie d'indipendenza.

Segnalando, tuttavia, che “quali che siano i riflessi, "in foro interno", nel giudicante, della carenza di reali, oggettive garanzie d'indipendenza, le medesime, appunto perché "garanzie", valgono a prevenire attacchi all'autonomia ed indipendenza dell'esercizio delle funzioni giudiziarie e, comunque, non sono condizionate, nella loro attuazione, alla concreta esistenza di specifiche aggressioni alle predette autonomia ed indipendenza” essendo l'indipendenza “forma mentale, costume, coscienza d'un'entità professionale, non è men vero che, in mancanza di adeguate, sostanziali garanzie, essa, come è stato rilevato, degrada a velleitaria aspirazione.”

Tra le garanzie assicurate dalla Costituzione alle magistrature, necessarie al corretto svolgimento della funzione, vi è quello dell’indipendenza dei magistrati, declinata dall’art. 104 per la magistratura ordinaria e dall’art. 108 per le magistrature speciali.

Ferma la non vincolatività del modello delineato dall’art. 104 ai fini della istituzione e conformazione degli organi di garanzia delle magistrature speciali - in quanto non evincibile dal dettato costituzionale ed in potenziale conflitto con il solo vincolo finalistico imposto dall’art. 108 della Costituzione, il quale non reca indicazioni ordinamentali e organizzative, con la conseguenza che annettere carattere prescrittivo al modello delineato per il C.S.M. si tradurrebbe altresì in una non consentita limitazione della discrezionalità attribuita da tale disposizione al Legislatore - e richiamata la necessità del vaglio di costituzionalità in ordine alla congruità delle scelte in concreto effettuate dal Legislatore, l’individuazione dei parametri di riferimento cui ricondurre il vaglio di legittimità costituzionale della norma dettata dall’art. 11, comma 8, della legge n. 15 del 2009, avuto riguardo alla prevista composizione paritaria tra la componente togata e quella laica, deve prendere le mosse dalla ricognizione delle ragioni sottese alla presenza di membri laici negli organi di garanzia.

In tale direzione deve osservarsi come in seno all'Assemblea costituente, a proposito della composizione che si andava delineando per il Consiglio superiore della magistratura, fu rilevato che l'istituzione di un organo di autogoverno della magistratura ordinaria aveva lo scopo di sganciare il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, per evitare qualsiasi ingerenza, ma anche e nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della magistratura, cioè di un ordine insensibile alle esigenze sociali o di un corpo chiuso ad ogni influenza della volontà popolare, con ciò manifestando il timore che un organo formato unicamente da magistrati potesse determinare la degenerazione della magistratura da ordine autonomo ed indipendente ad ordinamento chiuso e corporativo che ha rappresentato uno dei motivi della configurazione del Consiglio superiore della magistratura come un organo a struttura mista o composita, giungendo a prevedere che un terzo della componente elettiva del collegio venisse scelta dal Parlamento in seduta comune nell'ambito di alcune categorie professionali di cittadini, espressamente e tassativamente individuate nell’art. 104, comma 4, della Costituzione.

Tale composizione mista si raccorda con una delle possibili letture dell'art. 101, comma 1, della Costituzione, con cui si apre il titolo IV della seconda parte della Costituzione - ai sensi del quale «la giustizia è amministrata in nome del popolo» - che suggerisce una stretta connessione tra sovranità popolare e funzione giurisdizionale, cosicché uno dei tanti corollari che possono essere desunti dal principio enunciato nell'art. 101, comma 1, della Costituzione si identifica con l'esigenza, precisa ed irrinunciabile, di evitare che gli organi di autogoverno delle diverse magistrature possano assumere un ruolo di rappresentanza meramente corporativa del rispettivo ordine giudiziario determinandone il relativo isolamento in assenza di un legame, sia pure indiretto, con la sovranità popolare.

La composizione del Consiglio superiore della magistratura, così come delineata dall'art. 104, comma 4, della Costituzione, rappresenta quindi il punto di equilibrio tra i due princìpi (potenzialmente in tensione) che sono sanciti dagli artt. 101, comma 1, e 104, comma 1, della Costituzione.

Se, pertanto, nel disegno elaborato dall'Assemblea costituente il principio di autonomia e di indipendenza della magistratura deve raccordarsi con il principio di sovranità popolare, tale momento di raccordo tra i due princìpi in questione viene poi individuato - per quel che concerne la composizione dell'organo di autogoverno della magistratura ordinaria - in un assetto di tale collegio che, se da un lato tiene conto delle istanze ricollegabili alla necessità di assicurare l'autonomia dell'ordine giudiziario e quindi l'indipendenza del singolo giudice, dall'altro, tuttavia, non trascura - ma anzi sottolinea - un'altra esigenza, che è quella di realizzare gli opportuni collegamenti tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato, allo scopo precipuo ed imprescindibile di impedire che l'autonomia dell'ordine si trasformi in isolamento o separatezza.

La presenza dei laici designati dal Parlamento assicura una voce alla sensibilità della società civile, e rappresenta quindi, in quest'ottica, una presenza irrinunciabile, in quanto garantisce una significativa continuità tra governo della magistratura e istituzioni rappresentative della sovranità popolare.

Poste tali precisazioni in ordine alle ragioni sottese alla presenza di componenti laici nel Consiglio Superiore della Magistratura, e precisato come tale soluzione non sia costituzionalmente obbligatoria per le altre magistrature, non essendovi per esse analoghe espresse previsioni, l’opzione legislativa per la composizione mista deve tuttavia ritenersi aderente allo spirito costituzionale, e pur avendo la Corte Costituzionale, con le ricordate ordinanze n. 161 del 1999 e n. 377 del 1998 dichiarato l’inammissibilità delle relative questioni sollevate con riferimento al Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa, ricordando che i problemi di struttura dell’organo vanno apprezzati nell’ambito dell’intero sistema, quale risultante dei diversi elementi che in esso intervengono e fra loro si combinano, nella sentenza n. 16 del 2011 la Corte ha altresì affermato che, ferma la necessità della sussistenza di un organo di garanzia per le giurisdizioni speciali, di tali organi devono necessariamente far parte sia componenti eletti dai giudici delle singole magistrature, sia componenti esterni di nomina parlamentare, nel bilanciamento degli interessi, costituzionalmente tutelati, al fine di “evitare tanto la dipendenza dei giudici dal potere politico, quanto la chiusura degli stessi in “caste” autoreferenziali”, potendo il rapporto numerico tra membri “togati” e membri “laici”, di nomina parlamentare, essere variamente fissato dal Legislatore.

Ricostruite le ragioni della presenza di membri laici all’interno degli organi di garanzia e la valenza, sotto il profilo costituzionale, da annettersi a tale presenza, l’indagine deve quindi indirizzarsi alla ricognizione delle ragioni sottese alla presenza della componente togata elettiva, la quale va posta in diretta connessione con la natura di tali organi, cui è immanente il carattere della rappresentatività dei magistrati appartenenti al relativo ordine, coerentemente con la natura anche di autogoverno, insita nel fatto di essere anche chiamati ad adottare provvedimenti amministrativi sia generali che particolari nei confronti degli appartenenti alla giurisdizione.

A tali organi, che assicurano l’indipendenza della magistratura attraverso la garanzia della sua autonomia ed indipendenza da ogni altro potere, sono difatti naturalmente devolute funzioni riconducibili nella nozione di autogoverno, che si traducono nel potere di adottare atti di organizzazione e composizione degli uffici giudiziari, di indirizzo della politica giudiziaria, di decisione sullo status dei magistrati quali assegnazioni, nomine, trasferimenti.

Gli organi di garanzia o di autogoverno rispondono allo scopo di assicurare l’indipendenza riconosciuta a tutte le giurisdizioni, in virtù del legame di stretta connessione tra la disciplina delle garanzie assicurate ai giudici e gli organi istituiti per la loro applicazione, delineandosi al riguardo, nell’ampia concezione dell’indipendenza del potere giurisdizionale, due aspetti fondamentali, l’uno funzionale, che esclude la subordinazione del giudice ad altri poteri e ne limita la soggezione alla legge, e l’altro organizzativo, che è senza dubbio strumentale rispetto al primo.

Alla garanzia di indipendenza che tali organi devono assolvere, accede la presenza al loro interno dei rappresentanti degli appartenenti al relativo ordine.

Tale presenza, come evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 16 del 2011, risponde all’esigenza di evitare la dipendenza dei giudici dal potere politico.

Dalle precedenti considerazioni possono, dunque, trarsi delle prime riflessioni in ordine al fondamento costituzionale delle due diverse componenti degli organi di garanzia, dovendo affermarsi che mentre la presenza della componente togata elettiva trova diretto fondamento nel principio di indipendenza delle magistrature, espressamente affermato dalla Costituzione all’art. 108, comma 2, la presenza della componente laica trova un fondamento più mediato ed indiretto, di cui sopra si è dato atto.

Ne discende che la diretta connessione della presenza della componente togata elettiva negli organi di garanzia con il principio dell’indipendenza delle magistrature – essendo tale presenza diretta derivazione di tale principio - rende la tematica del relativo rapporto numerico rispetto alla componente laica di particolare rilievo e delicatezza, posto che un rapporto numerico che oltrepassasse il limite di ragionevolezza vulnerando il principio di indipendenza della magistratura si porrebbe in insanabile contrasto con l’architettura costituzionale.

Sulla base degli indicati fondamenti costituzionali sottesi alla presenza della componente togata e della componente laica, mentre non sembrano potersi ravvisare profili di illegittimità costituzionale a fronte della eventuale previsione di una ridotta componente laica, trovando le istanze cui tale presenza risponde adeguata risposta nella mera previsione di tale componente, indifferente essendo la relativa consistenza numerica, non altrettanto è a dirsi con riferimento alla componente elettiva togata, cui va ricondotta la stessa rappresentatività dell’organo di garanzia nonché la garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

E’ invero indubbio che una forte presenza della componente laica, posta in relazione alla consistenza numerica della componente togata, risulterebbe esorbitante rispetto all’esigenza di evitare l’isolamento della magistratura e garantirne il raccordo con il principio di sovranità popolare, intaccandone e pregiudicandone la relativa indipendenza.

Tale carattere esorbitante rispetto allo scopo è ravvisabile con riferimento alla previsione della composizione paritaria tra componenti elettivi togati e componenti eletti dal Parlamento all’interno del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, prevista dall’art. 11, comma 8, della legge n. 15 del 2009.

Attraverso tale composizione paritaria, viene difatti tributato analogo peso – con ciò compromettendolo - al principio costituzionale di indipendenza della magistratura, come assicurato in modo privilegiato dall’organo di garanzia attraverso la sua componente togata, e a quello di apertura della magistratura a istanza esterne evitandone la chiusura in una casta autorefenziale, traducendo il bilanciamento degli interessi costituzionalmente tutelati – seppur, come accennato, in misura diversa - a favore di quello che risulta essere il più mediato e debole, per la cui soddisfazione è sufficiente la mera previsione della presenza della componente laica, laddove il principio di indipendenza della magistratura richiede che la stessa sia sottratta a possibili influenze derivanti dall’esterno, attraverso un sistema organizzativo – che si pone in rapporto di necessaria strumentalità rispetto alla garanzia di indipendenza - che assuma il ruolo di rappresentanza degli appartenenti all’ordine giurisdizionale.

Ed infatti discende dal principio dell’indipendenza ed autonomia della magistratura la necessità che l’organo di garanzia sia prioritaria espressione dell’ordine di appartenenza, il quale trova la propria rappresentanza nell’organo di autogoverno attraverso i componenti dallo stesso eletti.

Ciò sulla base del passaggio logico sistematico secondo cui la soggezione dei giudici soltanto alla legge, di cui all’art. 101, comma 2, della Costituzione implica la loro autonomia, che è presupposto tipico ed imprescindibile della loro indipendenza, che costituisce a suo volta il referente normativo centrale di un’interpretazione sistematica dell’assetto che deve essere assegnato all’organo di garanzia, rispetto al quale il ruolo assegnato ai componenti elettivi togati riveste ruolo indefettibile nella misura in cui garantisce la reale autonomia dell’organo e l’adeguata rappresentatività dell’ordine di riferimento, rispetto al quale la norma della cui legittimità costituzionale si dubita si discosta, apparendo rispondere ad una logica non aderente agli indicati paradigmi di riferimento.

La soluzione legislativa favorevole alla parità numerica tra componenti laici e componenti togati risulta invero essere, oltre che eccedente rispetto alle finalità sottese alla presenza dei componenti laici nell’organo di garanzia, senza che ciò risponda ragionevolmente ad alcuna ulteriore esigenza - non risultando giustificata dalle peculiarità della giurisdizione in questione - idonea altresì a creare un vulnus all’indipendenza della magistratura, non garantendo in modo adeguato la sua sottrazione ad influenze esterne.

Il modello delineato dalla norma sospettata di illegittimità costituzionale, oltre a porsi in contrasto con il principio di indipendenza della magistratura, non appare inoltre rispettoso del canone di ragionevolezza, non sussistendo valide ragioni, costituzionalmente compatibili, che a fronte dell’immanente principio dell’indipendenza della magistratura e dei singoli giudici releghi la rappresentatività di questi ad una consistenza numerica identica a quella accordata ai membri laici, oltrepassando quei requisiti minimi di indipendenza dei giudici speciali che la Costituzione garantisce, che non possono essere disattesi in ragione della generica affermazione di indipendenza contenuta nell'art. 108, che opera un totale rinvio alla discrezionalità del Legislatore in materia di indipendenza dei giudici diversi dall'ordinario, dovendo in proposito rilevarsi che, sulla base dell’analisi lessicale dell'art. 108, comma 2, della Costituzione, il Legislatore è chiamato ad «assicurare» - e non, semplicemente, a regolare o disciplinare - l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali.

La terminologia utilizzata dal Costituente, nella sua perentorietà inconsueta, segna quindi precisi limiti alla discrezionalità del Legislatore, per cui, seppur allo stesso è rimessa la fissazione del rapporto numerico tra membri togati e membri laici di nomina parlamentare (sentenza n. 16 del 2011 citata), tale discrezionalità deve muoversi entro confini ben precisi, nel rispetto dei requisiti minimi ed imprescindibili dell’indipendenza dei giudici speciali, con la conseguenza che l'attuazione legislativa del canone dell'indipendenza dei giudici non ordinari è sostanzialmente libera nella individuazione dei moduli realizzativi, ma vincolata nei suoi contenuti ad alcuni fondamentali parametri costituzionali, tra cui il carattere necessariamente prevalente della componente elettiva togata, in quanto unica misura idonea ad assicurare il precetto dell’indipendenza della magistratura ed il carattere di rappresentatività dell’organo di garanzia e di autogoverno.

Se, difatti, dalla Costituzione non può evincersi la necessaria identità strutturale tra il C.S.M. e gli organi di garanzia delle altre giurisdizioni, dovendo riconoscersi l’ammissibilità di sistemi organizzativi diversificati di garanzia a tutela dell’indipendenza dei giudici speciali, articolato e delineato in rapporto alle peculiarità ordinamentali delle diverse giurisdizioni, possono dalla Costituzione evincersi precisi vincoli all’esercizio della prevista riserva di legge in ragione della predeterminazione dei criteri che risultano, secondo il Costituente, idonei ad assicurare l’indipendenza della magistratura.

Non vi è dubbio che uno dei principali problemi interpretativi cui ha dato luogo la lettura dell'art. 108, comma 2, della Costituzione consiste proprio nello stabilire quale sia il grado di discrezionalità che deve essere attribuito al Legislatore ordinario nell'attuazione della riserva di legge ivi prevista, in base alla quale l'individuazione dei meccanismi concreti volti a garantire l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali è operazione che viene semplicemente rinviata, dalla Costituzione, alla legge ordinaria, secondo un'ottica complessiva in cui il potere di scelta dell'organo legislativo incontra l'unico limite di preservare requisiti minimi di indipendenza dei giudici speciali.

Il compito rimesso al giudice a quo, e di conseguenza alla Consulta, è dunque quello di individuare tali requisiti minimi, anche attraverso la verifica della possibilità di enucleare, dal modello tratteggiato per il C.S.M., degli elementi essenziali dai quali gli organi di garanzia delle magistrature speciali non possono prescindere, quale alternativa all’opzione interpretativa di una assoluta libertà di scelta del Legislatore in ordine alla composizione dell’organo di garanzia, segnatamente con riferimento al rapporto numerico tra i suoi membri, che involge il modo in cui vengono tradotti nella composizione dei consigli di presidenza i principi di indipendenza della magistratura, da un lato, e di necessario coordinamento di tali organi con la società civile, dall’altro.

Occorre, quindi, stabilire un punto di equilibrio oltre il quale non si ha più quel corretto bilanciamento degli interessi che la Consulta ha affermato come necessario nella sentenza n. 16 del 1011, ma l’espansione di uno di tali interessi a danno dell’altro, dovendo individuarsi il limite oltre il quale il principio di indipendenza, come tradotto dalla consistenza della componente elettiva togata, non può essere più ulteriormente ‘negoziato’ a favore dell’esigenza di evitare la chiusura in caste autorefenziali dei giudici.

In proposito, occorre rilevare che nel bilanciamento dei contrapposti interessi non può difatti prescindersi dal considerare che il principio di indipendenza della magistratura costituisce principio costituzionale espresso, di natura non cedevole di fronte ad un principio implicito o non espresso e di indubbia portata precettiva.

Escluso, come dianzi accennato, che il modello dettato per il C.S.M. costituisca una soluzione costituzionalmente obbligata, dovendo in proposito riconoscersi un margine di discrezionalità, costituzionalmente accordato, del Legislatore, la scelta del Costituente di rinviare al legislatore ordinario la previsione più specifica delle garanzie di indipendenza dei giudici speciali non contiene in sé, come sopra illustrato e come affermato dalla stessa Consulta, anche la scelta di accordare a tali giudici garanzie di indipendenza inferiori rispetto a quelle riconosciute alla magistratura ordinaria.

Ne discende, quale prima conseguenza, che non può riconoscersi al Legislatore l'assoluta libertà nel riempire di contenuti concreti il rinvio operato dal comma 2 dell'art. 108 della Costituzione, non potendo il Legislatore, sulla base di una corretta interpretazione storica del disposto costituzionale, nell'assicurare l'indipendenza dei giudici speciali, non tener conto dei princìpi generali che sono posti, in tema di indipendenza dei giudici ordinari, nel titolo IV della seconda parte della Costituzione, dovendo il discostamento da tali principi trovare adeguata e ragionevole giustificazione nelle peculiarità della giurisdizione che si intende disciplinare.

Particolare peso va tributato alla norma di chiusura dell'intero sistema costituzionale delle garanzie previste a tutela dell'indipendenza dell'attività giurisdizionale, coincidente con il principio, di generale applicazione, per cui i giudici (senza distinzioni) sono soggetti soltanto alla legge, da cui, sulla base di una lettura sistematica della Carta costituzionale, si evince l'esistenza di un indirizzo di omogeneità, voluta dalla Costituzione, degli status e delle garanzie di indipendenza, interna ed esterna, di tutti i soggetti che esercitano funzioni giurisdizionali.

Se è innegabile, pertanto, che ad una regolamentazione espressa degli istituti che assicurano l'autonomia e l'indipendenza della magistratura ordinaria (art. 104 ss.: autogoverno, assunzione per concorso, inamovibilità, ecc.) corrisponde poi, in Costituzione, un semplice rinvio alla legge del compito di prevedere le modalità concrete che dovranno presiedere all'indipendenza dei giudici speciali (art. 108 comma 2), è altrettanto evidente, tuttavia, che la Costituzione - se considerata nel suo complesso - delinea già, per quel che concerne le condizioni di autonomia e di indipendenza di tutti i giudici delle diverse magistrature, un unico modo di essere generale dei soggetti-giudici cui è affidato l'esercizio della giurisdizione.

In tale ottica, la disposizione prevista dal comma 2 dell'art. 101 della Costituzione, nello statuire la soggezione di tutti i giudici soltanto alla legge - e riconoscendo, quindi, ad ogni magistratura quell'autonomia che è presupposto tipico ed imprescindibile dell'indipendenza - rappresenta il referente normativo centrale dell'interpretazione sistematica che discende dalla Costituzione, la quale, nel delineare la soluzione per la magistratura ordinaria, ha individuato condizioni strumentalmente – anche se non vincolanti per le altre magistrature – idonee ad assicurare l’indipendenza della magistratura.

Inoltre, in accordo con lo stringente tenore letterale della norma di cui all’art. 108, il legislatore, come visto, è chiamato ad “assicurare” l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali.

Pur non potendo trarsi dalla terminologia utilizzata dal Costituente la necessità della legge di conformarsi ad un modello concreto e predefinito di indipendenza, ovvero quello puntualmente articolato dalla Costituzione agli artt. 104 e seguenti, sembra tuttavia che la prevista riserva di legge contenuta nell'art. 108, comma 2, della Costituzione, consente di guardare all'attuazione legislativa del canone dell'indipendenza dei giudici non ordinari in una chiave di discrezionalità libera nella individuazione dei moduli realizzativi che risultano tuttavia vincolati al rispetto di alcuni fondamentali parametri costituzionali.

Pertanto, escluso che la conformazione organizzativa e funzionale degli organi di garanzia o di autogoverno delle magistrature speciali debba necessariamente ricalcare il modello tratteggiato dalla Costituzione per il C.S.M., le deviazioni rispetto a tale modello vanno raccordate con la consapevolezza che la ragione principale che ha indotto il Costituente a mantenere le giurisdizioni speciali di cui all'art. 103 della Costituzione consiste proprio nella presa d'atto delle peculiarità che contraddistinguono tali giurisdizioni, con la conseguenza che la previsione di una disciplina diversa rispetto al “modello” delineato dagli artt. 104 e seguenti della Costituzione deve rispondere all'esigenza imprescindibile di adattare tale normativa, in modo difforme da quanto previsto per il C.S.M., alle caratteristiche proprie di ciascuna giurisdizione speciale, tenendo conto, tra l'altro, della collocazione istituzionale dei magistrati che la compongono e dei tratti peculiari del sindacato che questi sono chiamati ad esprimere.

Si tratta quindi – una volta ammessa la possibilità di variazione rispetto allo schema delineato dagli artt. 104 e seguenti della Costituzione - di verificare, di volta in volta, la ragionevolezza delle modifiche apportate dal Legislatore ordinario, così da valutare se siffatte modifiche, da un lato, risultino idonee a garantire un'efficace tutela dell'indipendenza dei giudici non ordinari (come richiesto dall'art. 108, comma 2, della Costituzione), e dall'altro, possano ritenersi giustificate in rapporto a quelle specifiche peculiarità che contraddistinguono ciascuna giurisdizione speciale.

Ne consegue che in applicazione di siffatto criterio di giudizio, il problema della legittimità costituzionale della composizione prevista per il Consiglio di presidenza della Corte dei Conti – ferme le precedenti considerazioni - può essere sintetizzato nel quesito se, al fine di garantire l'indipendenza dei giudici della Corte dei Conti, siano rinvenibili ragioni specifiche, attinenti a caratteristiche proprie di tale giurisdizione, da cui discenda la necessità - o quanto meno l'opportunità - di prevedere una composizione numerica paritaria tra componenti elettivi togati e componenti elettivi laici.

Le indicazioni che dalla disamina delle disposizioni costituzionali possono trarsi, come sopra indicate, depongono per la risposta negativa, non essendo rinvenibili valide ragioni e giustificazioni che, in relazione alle funzioni assegnate a tale ordine giurisdizionale, consentano un sacrificio di quelle modalità organizzative – che la Costituzione ha riconosciuto idonee e necessarie per la magistratura ordinaria - che maggiormente garantiscono l’indipendenza dell’ordine e dei suoi appartenenti e la rappresentatività dell’organo di garanzia, da identificarsi nella maggioranza numerica dei componenti togati elettivi rispetto ai componenti laici, con riferimento ai quali ultimi non possono predicarsi i principi di indipendenza e di autonomia, valendo la loro presenza unicamente a mantenere un collegamento dell’organo di garanzia con istanze esterne all’ordine.

Con la conseguenza che la consistenza numerica di tale componente laica, in relazione a quella assegnata alla componente elettiva togata, è idonea – se paritaria o prevalente rispetto a quest’ultima - ad intaccare i principi di autonomia ed indipendenza dell’organo, esistendo indubitabilmente un punto, nel rispettivo rapporto numerico, oltre il quale le relative previsioni non costituiscono espressione di un equilibrato bilanciamento degli interessi di cui sono espressione, ma si risolvono nella prevalenza di quello costituzionalmente meno stringente a danno del cogente precetto costituzionale dell’indipendenza delle magistrature speciali.

Tale indipendenza può invero subire un vulnus in ragione di un rapporto numerico tra la componente laica e componente togata elettiva che non costituisca espressione di un equilibrato bilanciamento dei contrapposti interessi, come avviene, a giudizio del Collegio, con riferimento alla norma sospettata di incostituzionalità.

Non si intende, in tal modo, sminuire l’importanza della presenza di componenti laici all’interno del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, dovendo in proposito osservarsi che con riferimento all'aspetto esterno o istituzionale dell'indipendenza che deve essere garantita ai magistrati della Corte dei Conti, un organo di garanzia a composizione mista, quale quello previsto per la magistratura ordinaria, sembra dover valere a fortiori per il governo di ordini magistratuali di connotazione diversa, che siano, più ancora della magistratura ordinaria, connessi nelle loro funzioni e in qualche modo sovrapposti all'amministrazione.

Ed infatti, tanto più rileva il legame organizzativo e funzionale con il potere politico-amministrativo, tanto più è importante connettere la funzione di autogoverno di quella magistratura con la funzione di controllo politico esercitata dalle Assemblee elettive, introducendo quindi, a tal fine - all'interno dell'organo - un congegno in qualche modo codecisionale fra componenti di diversa derivazione, onde evitare il cortocircuito istituzione-corporazione, non risultando il grado di indipendenza esterna che è garantito a ciascuna categoria di magistrati direttamente proporzionale al grado di isolamento che la legge assicura al rispettivo ordine giudiziario, rendendo l’eventuale assenza di membri esterni alla magistratura contabile l’autogoverno della stessa eccessivamente corporativo.

Tuttavia, un rapporto non equilibrato, rispetto ai valori costituzionali di riferimento, tra componente laica e componente togata, esporrebbe l’organo al formarsi di maggioranze o gruppi di pressione esterni alla magistratura suscettibili di intaccare l’indipendenza dei giudici anche nella loro libertà di autodeterminazione, condizionandone l’operato agli interessi di cui sono portatori i componenti laici, le cui determinazioni concorrono alla formazione della volontà dell’organo, assegnando alla componente laica un peso ultroneo rispetto alla finalità di consentire, attraverso la stessa, un collegamento esterno, intaccando l’indipendenza funzionale dei giudici contabili.

Né la parità numerica tra componenti laici e componenti elettivi togati, come accennato, può ritenersi giustificata - e quindi ragionevole - in rapporto a specifiche peculiarità della giurisdizione contabile, alla quale è garantita dalla Costituzione lo stesso grado di indipendenza riconosciuto a tutte le altre giurisdizioni speciali.

Al fine di vagliare il corretto esercizio da parte del Legislatore ordinario della propria discrezionalità nell’attuazione della riserva di legge prevista dall’art. 108, comma 2, della Costituzione, interviene, inoltre, a dare consistenza ai manifestati dubbi di costituzionalità della previsione normativa della parità numerica della componente consiliare eletta dai magistrati contabili a quella rappresentativa del Parlamento, l’approdo cui è di recente giunta la giurisprudenza costituzionale, che ha nitidamente disegnato i rapporti tra l’art. 108 e 104 Cost. in particolare nella già citata sentenza n. 87 del 2009, con la quale è stata ammessa anche nel procedimento disciplinare dei magistrati amministrativi la difesa da parte di avvocati del libero foro.

La decisione della Corte Costituzionale poggia sulla considerazione, che costituisce punto fermo ai fini del vaglio di qualsivoglia incidente di costituzionalità involgente il profilo dell’indipendenza delle giurisdizioni speciali, che, pur essendo l’indipendenza della magistratura ordinaria e quella delle magistrature speciali regolate da norme costituzionali diverse - rispettivamente l’art. 104 e l’art. 108 Costituzione - il principio dell’indipendenza dei magistrati sia ordinari che speciali è un principio generale e costituisce una delle garanzie del corretto svolgimento della funzione giurisdizionale complessivamente intesa, come esercitata sia dalla magistratura ordinaria che dalle magistrature amministrativa e contabile.

Di particolare rilievo è la precisazione, contenuta nella sentenza in esame, secondo cui, pur potendo il Legislatore articolare diversamente l’ordinamento delle singole giurisdizioni, devono tuttavia essere rispettati i “principi costituzionali comuni” posti a presidio dell’indipendenza delle varie magistrature. Per tale ragione, la Corte ha ritenuto che, nonostante il procedimento disciplinare dei magistrati amministrativi abbia natura amministrativa e non giurisdizionale, dovesse essere comunque garantita anche ai magistrati amministrativi la possibilità di avvalersi, nel procedimento disciplinare, di un avvocato del libero foro, al fine di assicurare loro una piena indipendenza attraverso il ricorso ad un’efficace difesa.

Pur non avendo la sentenza n. 87 del 2009 affermato la piena equiparazione sotto il profilo organizzativo tra C.S.M. e i Consigli di Presidenza della Giustizia Amministrativa e della Corte dei Conti, occupandosi di altri profili, ha tuttavia affermato l’importante principio della necessità di assicurare, al di là delle differenze organizzative e ordinamentali, lo stesso grado di indipendenza sia ai magistrati ordinari che a quelli amministrativi (quindi anche contabili), e a tal fine ha fatto riferimento a “principi costituzionali comuni” cui il legislatore deve uniformarsi, pena la violazione dell’art. 108 della Costituzione.

Le statuizioni contenute nella citata sentenza consentono di rinvenire nelle norme costituzionali dedicate alla magistratura ordinaria, ed in particolare nell’art. 104 della Costituzione, i “principi costituzionali comuni", posti a presidio dell’indipendenza della magistratura ordinaria che risultano mutuabili per le magistrature speciali, riconosciuti dal Costituente come formule idonee a garantirne l’indipendenza sia interna che esterna, costituenti un paradigma di riferimento per il Legislatore, pur senza rappresentare un assetto statutario vincolante e che, come tali, rilevano quale limite per l’esercizio della riserva di legge che, in tal senso, può assumere carattere rinforzato, e come parametro di ragionevolezza delle scelte del Legislatore.

Peraltro, in questa linea sembra essersi posto di recente il Consiglio di Stato, il quale, in sede consultiva, ha affermato che il principio della non rieleggibilità dei membri elettivi del C.S.M., di cui all’art. 104 della Costituzione, ultimo comma, debba valere anche per le magistrature speciali, trattandosi di un principio generale dell’autogoverno della magistratura (Consiglio di Stato, Sez. I, 1 aprile 2009, n. 954).

Richiamate tali coordinate interpretative, al fine di verificare quali elementi degli organi di garanzia siano coessenziali rispetto al fine costituzionale dell’indipendenza, occorre analizzare se dall’art. 104 della Costituzione possa trarsi un principio comune concernente anche la composizione degli organi di autogoverno delle magistrature speciali che possa fungere da parametro di legittimità costituzionale delle scelte del Legislatore in questo ambito.

Giova, a tal fine, procedere alla disamina della composizione del Consiglio Superiore della magistratura, come descritta dai commi 3 e 4 dell’art. 104 della Costituzione.

La composizione del Consiglio Superiore della magistratura prevede la presenza di membri di diritto e componenti elettivi, i quali sono per i due terzi eletti dai magistrati mentre per un terzo sono eletti dal Parlamento in seduta comune.

Dei tre membri di diritto (tra cui il Presidente della Repubblica che presiede il Consiglio) due sono togati, e segnatamente il Primo Presidente ed il Procuratore generale della Corte di Cassazione, così come lo sono i componenti eletti dalla magistratura, tuttavia la distinzione tra componenti togati e laici non è presa espressamente in considerazione dalla norma, la quale invece distingue i consiglieri in base alle forme di designazione (di diritto o elettiva) e, all’interno della componente elettiva, tra gli eletti da parte dei magistrati e gli eletti dal Parlamento in seduta comune. Tale distinzione è ulteriormente marcata dal fatto che il limite minimo di rappresentanza elettiva della componente magistratuale (i due terzi) è calcolato non sul totale dei componenti del Consiglio (comprensiva di quelli di diritto) ma sul totale dei soli componenti elettivi. Il comma quarto dell’art. 104 della Costituzione, infatti, espressamente stabilisce che “gli altri componenti”, oltre a quelli di diritto, “sono eletti per due terzi da tutti i magistrati (..) e per un terzo dal Parlamento (..)”.

E’ possibile dunque desumere che l’art. 104 della Costituzione intende garantire l’indipendenza della magistratura assicurando la prevalenza in seno al Consiglio non della componente togata complessivamente intesa, comprensiva dei membri togati di diritto, ma della componente togata eletta dai magistrati. Ad essa solo, infatti, si riferisce il limite dei due terzi.

Tale conclusione appare peraltro in linea con la diversa funzione della componente togata di diritto e quella elettiva in seno all’organo di autogoverno.

Infatti, mentre la presenza dei membri di diritto assolve a diverse funzioni (ad esempio, la rappresentazione in seno al Consiglio delle istanze della magistratura giudicante e requirente attraverso la presenza dei rispettivi organi di vertice), prevalentemente istituzionali, solo la componente elettiva può dirsi effettivamente rappresentativa del corpo elettorale costituito da tutti i magistrati.

Tale profilo appare di particolare rilievo posto che la stessa nozione di “autogoverno”, ancorché utilizzato in senso atecnico nel caso del Consiglio Superiore della magistratura e dei Consigli di Presidenza delle magistrature speciali, per la presenza anche di membri laici, evoca comunque, anche etimologicamente, l’esistenza di una relazione di rappresentatività tra governanti e governati.

Alla luce di tutte queste considerazioni, può dunque ritenersi che dall’art. 104, commi 3 e 4, della Costituzione possa trarsi il principio della necessaria prevalenza numerica della componente eletta dai magistrati rispetto alla componente eletta dalle forze politiche, prevalenza numerica che può esprimersi in varie modalità e con la previsione di diverse percentuali tra le varie componenti, con il limite comunque del riconoscimento della maggioranza dei componenti eletti dai magistrati.

Tale principio, per la sua rilevanza al fine di effettivamente garantire la rappresentatività dell’organo e dunque l’indipendenza dei magistrati, deve essere ritenuto, secondo l’espressione usata dalla sentenza n. 87 del 2009, un “principio costituzionale comune” applicabile anche al Consiglio di Presidenza della magistratura della Corte dei Conti.

Infatti, sia nel caso del C.S.M. che dei consigli di Presidenza della magistrature speciali, l’esistenza di una relazione di rappresentatività, quantomeno con la maggioranza dei componenti elettivi dei detti organi, appare un elemento imprescindibile perché essi possano effettivamente “assicurare” – per usare la stessa espressione degli artt. 100 e 108 della Costituzione, l’autonomia e l’indipendenza delle varie magistrature.

Pertanto, escluso che possa affermarsi la necessità del rispetto, per gli organi di garanzia delle magistrature speciali, dell’identica distribuzione, in termini percentuali, tra le varie componenti consiliari, prevista dall’art. 104 della Costituzione, il che priverebbe il Legislatore della sua discrezionalità nella scelta sui modi per assicurare l’indipendenza delle magistrature speciali, conferita dall’art. 108 della Costituzione, è possibile tuttavia ricavare dall’art. 104 della Costituzione, un principio di garanzia minimale secondo il quale deve essere comunque garantita almeno la maggioranza dei componenti togati eletti dai magistrati, nel caso di specie della Corte dei Conti, in seno al Consiglio.

Dunque, sotto questo profilo, l’art. 108, comma 3, della Costituzione, da leggersi in combinato disposto con l’art. 104, commi 2 e 3, della Costituzione, individua un parametro sostanziale per la valutazione delle scelte del Legislatore quanto a garanzie minime di tutela della indipendenza delle magistrature speciali, assegnando la prevalenza numerica dei componenti eletti dai magistrati rispetto ai rappresentanti del Parlamento.

A diversamente ritenere, le ricadute discendenti dalla previsione della parità numerica – e ovviamente, a maggior ragione, di una maggioranza dei rappresentanti del Parlamento - come dianzi illustrato, si risolverebbero nella vanificazione della stessa funzione dell’organo di garanzia, intaccandone l’indipendenza e l’autonomia, facendone venir meno il carattere di rappresentatività attraverso cui i richiamati principi necessariamente transitano.

Sottesa alla scelta legislativa della parità numerica tra componenti elettivi togati e laici, vi è difatti l’equiordinazione tra il principio di indipendenza della magistrature speciale e quello di apertura dell’organo di autogoverno alle istanze esterne in modo da evitarne la chiusura in una casta autoreferenziale, il che contrasta con la gerarchia dei valori costituzionali che non può vedere come recessivo, né equiordinato, il valore dell’indipendenza rispetto a quello del collegamento tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato, quest’ultimo attuato per il tramite della presenza dei membri laici nell’organo di garanzia.

Al riguardo, inoltre, non sembra potersi dubitare che ai componenti laici, per il loro essere espressione di una qualificata maggioranza politica delle Camere, non può essere riconosciuto un idoneo ruolo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici.

Alla luce di tale quadro costituzionale di riferimento, non può non dubitarsi della legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 8 della legge n. 15 del 2009 che, nel prevedere il numero dei componenti eletti da tutti i magistrati della Corte dei Conti uguale a quello dei rappresentanti del Parlamento, non rispetta i principi cui l’attuazione della riserva di legge deve conformarsi, come enucleabili dagli artt. 100, 103, 108 e 104, della Costituzione, letti alla luce della sopracitata giurisprudenza costituzionale.

Né i manifestati dubbi di illegittimità costituzionale possono ritenersi superabili alla luce della circostanza che la componente togata nel suo complesso (formata anche dai membri di diritto) del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti raggiunga comunque la maggioranza assoluta, stante la ricordata diversa valenza da assegnarsi alla presenza dei membri di diritto e le diverse funzioni dagli stessi svolte rispetto a quelli togati elettivi, ai quali soltanto è possibile riconoscere una funzione rappresentativa dei magistrati elettori, conformemente alle indicazioni che possono trarsi dalla scelta sottesa alle previsioni contenute nell’art. 104 della Costituzione.

Né risulta revocabile in dubbio che sia solo la componente togata elettiva ad essere rappresentativa dei magistrati della Corte dei Conti, come peraltro incidentalmente affermato anche dal Consiglio di Stato nel parere sopra menzionato, laddove, con riferimento alla riduzione da 10 a 4 dei componenti eletti dai magistrati della Corte dei conti, è stato evidenziato che l’innovazione impone di ritenere che la rappresentanza dei quattro componenti elettivi sia promiscua, ovvero unitaria, e non più ripartita per qualifica, come avveniva in precedenza.

In proposito, occorre altresì segnalare che il Presidente della Corte dei Conti è nominato, ai sensi della legge 21 luglio 2000 n. 202, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Presidenza, mentre gli altri due dei tre membri di diritto (Procuratore generale e Presidente aggiunto) sono nominati su designazione del Consiglio di Presidenza con provvedimento formale dell’Autorità politica, cosicché con riguardo ai membri di diritto non può parlarsi di elezione, neanche indiretta, da parte della base elettorale.

Non può, dunque, affermarsi che sulla base della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti sia comunque assicurata la prevalenza della componente togata, stanti le modalità di individuazione dei componenti di diritto, con conseguente discostamento dai criteri minimi idonei a garantire l’indipendenza del plesso giurisdizionale attraverso l’idonea strutturazione del relativo organo di autonomia, assistito dalle medesime guarentigie costituzionali pur a fronte della non necessità, costituzionalmente imposta, di adozione di un unico modello organizzativo per tutte le magistrature, potendo la soluzione adottata dalla norma dettata dall’art. 11, comma 8, della legge n. 15 del 2009, tradursi nel piegare l’azione dell’organo alla ricerca del consenso delle componente esterna, che verrebbe ad esercitare un peso ed un’influenza in contrasto con la riconosciuta indipendenza sia dell’ordine che dei singoli appartenenti ad esso.

In conclusione, sulla base di tutte le considerazioni sin qui illustrate, il Collegio dubita della legittimità costituzionale di una scelta legislativa che propone per la magistratura contabile un modello dell’organo di garanzia che, nel contemperamento dei contrapposti interessi, non opera un corretto bilanciamento degli stessi, senza che ciò trovi ragionevole giustificazione nelle peculiarità dell’ordine giurisdizionale di riferimento, recando un pregiudizio ai principi di autonomia e indipendenza della magistratura – essendo il primo presupposto indefettibile del secondo – in quanto non garantisce in modo adeguato l’indipendenza che la Costituzione assicura a tutte le magistrature speciali, così determinando un vulnus all’autonomia organizzativa dell’apparato giurisdizionale che è strumentale all’indipendenza sia interna che esterna della giurisdizione speciale contabile, ponendo sullo stesso piano valori e principi aventi invece diversa cogenza costituzionale – costituendo quello dell’indipendenza della magistratura una dei più rilevanti beni costituzionalmente protetti – così non rispettando, nella determinazione della composizione dell’organo anche di autotuela della magistratura, assistito da particolari guarentigie di indipendenza, le finalità e gli interessi che tramite lo stesso vengono perseguite e garantite.

Conseguentemente, ritiene il Collegio che la questione di illegittimità della norma dettata dall’art. 11, comma 8, della legge n. 15 del 2009 debba essere sottoposta al vaglio del Giudice delle leggi al fine di verificare la ragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità accordata dalla Costituzione al Legislatore ordinario nell’attuazione della riserva di legge, come vincolata al rispetto del principio di indipendenza della magistratura speciale, imposta al legislatore come finalità indefettibile dall’art. 108, secondo comma, della Costituzione, e dei “principi costituzionali comuni" richiamati dalla stessa Consulta.

Non pare, inoltre, infondata la questione di costituzionalità della norma in esame per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, poiché introduce una irragionevole disparità di trattamento a discapito della magistratura contabile rispetto a tutte le altre magistrature, così introducendo un vulnus della sua indipendenza.

Peraltro, è la stessa Corte Costituzionale che nella sentenza n. 16 del 2011, nell’affermare il carattere necessario della presenza di organi di garanzia per tutte le magistrature, fa riferimento alle scelte effettuate dal Legislatore ordinario che ha istituito tali organi per tutte le giurisdizioni speciali, così rintracciando nel dato fattuale legislativo un parametro a sostegno dei propri assunti.

Sotto questo profilo e per tutte le ragioni sopra svolte, deve essere rimessa alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità dell’art. 11, comma 8 della legge 4 marzo 2009 n. 15, per contrasto con gli artt. 100, 101, 103 e 108, comma 2, della Costituzione, in relazione agli artt. 3 e 104 della Costituzione, nella parte in cui prevede che la componente consiliare eletta dai magistrati contabili sia numericamente uguale a quella rappresentativa del Parlamento.

Si rende conseguentemente necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale affinché si pronunci sulla questione

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