TAR Venezia, sez. I, sentenza 2022-01-04, n. 202200003

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Venezia, sez. I, sentenza 2022-01-04, n. 202200003
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Venezia
Numero : 202200003
Data del deposito : 4 gennaio 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 04/01/2022

N. 00003/2022 REG.PROV.COLL.

N. 00537/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 537 del 2021, proposto da
A P, V B, F C e M M, rappresentati e difesi dall'avvocato M B, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Luigi Capuana 207;

contro

INPS, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati A T e S A, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo in Venezia, Dorsoduro 3500/D;
INPS - Direzione Provinciale di Udine, INPS - Direzione Provinciale di Pordenone e INPS - Direzione Provinciale di Padova, non costituitisi in giudizio;
Ministero dell'Economia e delle Finanze e Guardia di Finanza - Comando Generale, in persona del Ministro pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Venezia, piazza S. Marco, 63;

per l'accertamento

del diritto dei ricorrenti ai benefici economici di cui all'art. 6 bis del decreto legge n. 387 del 1987, con il conseguente obbligo dell'Amministrazione di provvedere alla rideterminazione dell'indennità di buonuscita, mediante l'inclusione nella relativa base di calcolo, dei sei scatti stipendiali previsti da detta disposizione.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’INPS e del Ministero dell'Economia e delle Finanze;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2021 il dott. Stefano Mielli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

I ricorrenti sono ex militari della Guardia di Finanza, congedati a domanda successivamente al compimento di 55 anni di età, e con oltre trentacinque anni di servizio utile contributivo. e deducono di aver ricevuto un trattamento di fine servizio in misura inferiore a quello che sarebbe loro spettato per legge.

In particolare i ricorrenti ritengono che la base di calcolo per la determinazione del trattamento di fine servizio avrebbe dovuto includere la maggiorazione di sei scatti stipendiali prevista dall’art. 6 bis del decreto legge 21 settembre 1987, n. 387, convertito in legge 20 novembre 1987, n. 472, come introdotto dall’articolo 21, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 232.

L’INPS, a cui i ricorrenti si sono rivolti, ha affermato di ritenere corretti i conteggi perché la norma invocata limita l’applicazione dei sei scatti stipendiali ai fini della liquidazione del trattamento di fine servizio a coloro che “ cessano dal servizio per età o perché divenuti permanentemente inabili al servizio o perché deceduti ” escludendo quindi tale maggiorazione in favore di chi - come i ricorrenti - sia cessato dal servizio per dimissioni volontarie.

Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti agiscono per l’accertamento del loro diritto ad ottenere i benefici economici derivanti da un corretto calcolo dell’importo dovuto a titolo di trattamento di fine rapporto.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Economia, per la Guardia di Finanza, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.

Si è altresì costituito in giudizio l’INPS sostenendo di essersi attenuto ai conteggi ricevuti dall’Amministrazione di appartenenza e rilevando, con riguardo alla norma invocata dai ricorrenti, che l’art. 4 del D.lgs. 30 aprile 1997 n. 165 ha in effetti inteso armonizzare il trattamento tra le varie categorie con l’attribuzione di sei aumenti periodici di stipendio in caso di cessazione dal servizio per qualsiasi causa, ma tale attribuzione deve intendersi limitata alla sola determinazione del trattamento pensionistico, senza alcun effetto con riguardo alla determinazione del trattamento di fine servizio. L’Istituto osserva che, in ogni caso, i ricorrenti sono decaduti dal diritto a tale attribuzione in quanto avrebbero dovuto presentare domanda entro e non oltre il 30 giugno dell'anno nel quale erano maturate entrambe le predette anzianità (anagrafica e di servizio). Aggiunge infine – con riguardo al ricorrente M M – che ogni diritto deve ritenersi prescritto per il decorso del termine quinquennale, in quanto risulta che il collocamento in quiescenza sia avvenuto il 30 novembre 2015 e il trattamento di fine servizio sia stato liquidato in data 2 febbraio 2016, mentre solo il 22 maggio 2021 è stato effettuato il primo atto interruttivo.

Alla pubblica udienza del 15 dicembre 2021, la causa è stata trattenuta in decisione.

L’eccezione di difetto di legittimazione passiva del Ministero delle Finanze – con cui si sostiene l’estraneità di tale Amministrazione rispetto al rapporto giuridico sostanziale dedotto dai ricorrenti, in quanto la legittimazione passiva alla controversia risiederebbe in capo all’INPS - non è fondata.

Va infatti rilevato che nella fattispecie in esame si realizza un litisconsorzio passivo necessario tra enti che concorrono entrambi, seppure con riferimento a diverse fasi procedimentali, a realizzare un procedimento sostanzialmente unitario, che comprende l'emissione del provvedimento di liquidazione del trattamento di fine servizio, e l'esecuzione dei relativi pagamenti (in tal senso cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 13 maggio 2021, n. 1184), fermo restando che, nel caso la pretesa dei ricorrenti risulti fondata, saranno individuati i rispettivi ambiti di competenza di ciascuna Amministrazione nell’attività di ricalcolo del trattamento di fine servizio.

Nel merito il ricorso deve essere accolto.

L’INPS nel diniego opposto afferma di non poter accogliere l’istanza di revisione perché la maggiorazione della base di calcolo spetta solo in caso di cessazione dal servizio per età o per inabilità permanente al servizio ovvero ancora per decesso, ma non per l’ipotesi di dimissioni volontarie.

Tale assunto non può essere condiviso, perché il comma 2 dell’art. 6 bis del sopra menzionato decreto legge n. 387 del 1997, espressamente dispone che “ le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche al personale che chieda di essere collocato in quiescenza a condizione che abbia compiuto i 55 anni di età e trentacinque anni di servizio utile ”. Anche la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare che il predetto comma 2 prevede una fattispecie aggiuntiva e concorrente rispetto a quanto dispone il comma 1 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 22 febbraio 2019, n. 1231).

La maggiorazione spetta pertanto anche in caso di dimissioni volontarie al ricorrere dei requisiti di anzianità anagrafica e di servizio richiesti dalla norma.

Con un secondo argomento, dedotto per la prima volta in giudizio, l’INPS sostiene che tale disposizione non può trovare applicazione in favore dei ricorrenti perché sono ex appartenenti alla Guardia di Finanza, e la norma si applica solamente in favore degli ex appartenenti della Polizia di Stato.

Anche questa tesi non merita condivisione, in quanto tale norma trova applicazione non solo in favore del “ personale della Polizia di Stato appartenente ai ruoli dei commissari, ispettori, sovrintendenti, assistenti e agenti, al personale appartenente ai corrispondenti ruoli professionali dei sanitari e del personale della Polizia di Stato che espleta attività tecnico-scientifica o tecnica ”, ma anche in favore del “ personale delle forze di polizia con qualifiche equiparate ”. Ed a chiarire che alla predetta disposizione deve essere data una lettura estensiva è intervenuto anche l’art. 1911 del D.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, il quale ha disposto che a tutto il “ personale delle Forze di polizia a ordinamento militare continua ad applicarsi l'articolo 6- bis , del decreto legge 21 settembre 1987, n. 387, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 1987, n. 472 ”.

Pertanto, in adesione della prevalente giurisprudenza, deve affermarsi che la disposizione invocata dai ricorrenti trova applicazione non solo in favore degli appartenenti alla Polizia di Stato, ma anche in favore degli appartenenti alla Guardia di Finanza (cfr. la già citata sentenza T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 13 maggio 2021, n. 1184, T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 23 aprile 2021, n. 133;
T.R.G.A. Alto Adige, Bolzano, 4 novembre 2021, n. 308).

Ciò premesso in ordine alla fondatezza della pretesa sostanziale rivendicata dai ricorrenti devono essere esaminate le eccezioni sollevate dall’INPS.

Con una prima eccezione l’Istituto sostiene che i ricorrenti sarebbero decaduti dall’esercizio del diritto in quanto l’art. 6 bis , comma 2, del decreto legge n. 387 del 1987 dispone che “ la domanda di collocamento in quiescenza deve essere prodotta entro e non oltre il 30 giugno dell'anno nel quale sono maturate entrambe le predette anzianità ”.

Sul punto il Collegio ritiene sufficiente osservare che il mancato rispetto del termine previsto da una norma non comporta effetti decadenziali quando la norma non contenga un’esplicita previsione in tal senso. Come è stato condivisibilmente osservato con riguardo al sopra citato art. 6 bis , comma 2, “ proprio l’ambiguità della disposizione, evidenziata dai rilievi appena formulati, non consente di far discendere, dal mancato rispetto del termine di presentazione della domanda di collocamento in quiescenza di cui al citato art. 6 bis, comma 2, secondo periodo D.L. n. 387/1987, alcuna conseguenza decadenziale, la quale presuppone evidentemente la chiarezza e perspicuità dei relativi presupposti determinanti ” (in questi termini la già citata pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. III, 22 febbraio 2019, n. 1231).

Pertanto, contrariamente a quanto sostiene l’INPS, deve ritenersi che nel caso in esame non si sia verificato alcun effetto decadenziale.

L’eccezione di prescrizione sollevata dall’INPS nei soli confronti del ricorrente M M è invece fondata.

Infatti l'art. 1 del D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (recante il testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato) dispone, al comma 1, che “ i dipendenti statali, all'atto della cessazione dal servizio, conseguono il diritto all'indennità di buonuscita o all'assegno vitalizio secondo le norme del presente testo unico ”, mentre il successivo articolo 20, rubricato “cause di perdita del diritto ”, prevede al comma 2 che “ il diritto del dipendente e dei suoi aventi causa all'indennità di buonuscita si prescrive nel termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui è sorto il diritto ”.

Il termine di prescrizione del diritto all'indennità di buonuscita, o dell'assegno vitalizio, decorre pertanto dalla data di cessazione del servizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 agosto 2018, n. 4898;
id. 24 aprile 2017, n. 1887;
id. 25 maggio 2005, n. 2653). Per completezza va soggiunto che nel caso in esame la fondatezza dell’eccezione non verrebbe meno neppure facendo riferimento all’orientamento giurisprudenziale che fa decorrere il termine dalla data di emanazione dell'ultimo ordinativo di pagamento del credito principale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 agosto 2010, n. 5870;
id. 14 novembre 2014, n. 5598). Infatti, come già rilevato, il ricorrente M M è stato collocato in quiescenza il 30 novembre 2015, il trattamento di fine servizio è stato liquidato in data 2 febbraio 2016, e il primo atto interruttivo è del 22 maggio 2021.

Non condivisibili inoltre sono i rilievi, svolti nella memoria di replica di parte ricorrente, secondo cui nel caso di specie la prescrizione non potrebbe operare in quanto dai prospetti di liquidazione del trattamento di fine servizio non poteva evincersi il mancato riconoscimento del beneficio dei sei scatti e in ragione del “ principio dell'affidamento dei consociati nella certezza dell'ordinamento giuridico ” e quindi nel rispetto della legge da parte dell’Amministrazione.

In disparte il rilievo che il principio richiamato dai ricorrenti è stato affermato dalla Corte Costituzionale con riguardo al diverso tema della retroattività delle leggi, sul punto è sufficiente osservare che i prospetti di liquidazione del trattamento di fine servizio non contenevano alcuna indicazione o riferimento che potesse indurre a ritenere che il beneficio dei sei scatti fosse stato effettivamente riconosciuto. Sicché sarebbe stato onere dell’interessato verificare, entro i termini prescrizionali, l’avvenuta corresponsione del beneficio accordato dalla norma invocata.

In definitiva, ritenuta l’infondatezza dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva del Ministero delle Finanze e dell’eccezione di decadenza sollevata dall’INPS, il ricorso deve essere accolto nel merito con conseguente accertamento del diritto dei ricorrenti ai benefici economici contemplati dall'art. 6 bis del decreto legge n. 387 del 1987, e quindi con l’obbligo delle Amministrazioni resistenti di provvedere alla rideterminazione dell'indennità di buonuscita mediante l'inclusione, nella relativa base di calcolo, dei sei scatti stipendiali. Sulle relative somme dovranno essere corrisposti solamente gli interessi, senza cumulo con la rivalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991 e dell’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994.

Nulla spetta invece al ricorrente M M il cui credito deve ritenersi prescritto.

Le spese di giudizio, tenuto conto della non univocità degli orientamenti giurisprudenziali circa la corretta interpretazione delle norme rilevanti ai fini della controversia, devono essere integralmente compensate tra le parti del giudizio.

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