TAR Roma, sez. V, sentenza 2023-01-25, n. 202301290
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Pubblicato il 25/01/2023
N. 01290/2023 REG.PROV.COLL.
N. 09387/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9387 del 2017, proposto da F.lli De Cecco di Filippo Fara San Martino S.p.A., Barilla G. e R. Fratelli S.p.A., De Matteis Agroalimentare S.p.A., La Molisana S.p.A., F. Divella S.p.A., Rummo S.p.A., Pastificio Lucio Garofalo S.p.A., Pastificio Battagello S.r.l., Pasta Berruto S.p.A., Colussi S.p.A., Pastificio Rigo S.p.A., Pasta Zara S.p.A., Pastificio Felicetti S.r.l., Pastificio Granarolo S.r.l., in persona dei rispettivi legali rappresentanti
pro tempore
, rappresentati e difesi dagli avvocati Domenico Ielo e Massimo Merola, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo Massimo Merola in Roma, via Vittoria Colonna, 39;
contro
Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Ministero dello Sviluppo Economico, in persona dei rispettivi Ministri in carica, rappresentati e difesi
ope legis
dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l’annullamento
previa sospensione dell’efficacia
del decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e forestali e del Ministero dello Sviluppo Economico n. 0009317 del 26 luglio 2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 17 agosto 2017;
di ogni altro atto e provvedimento presupposto, connesso e comunque consequenziale nonché condanna delle Amministrazioni resistenti al risarcimento del danno, nella misura che ci si riserva di meglio quantificare in corso di causa;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e del Ministero dello Sviluppo Economico;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 87, comma 4- bis , cod. proc. amm.;
Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 12 dicembre 2022 il dott. E M e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con il ricorso in epigrafe si contesta la legittimità del decreto del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e del Ministero dello Sviluppo Economico n. 0009317 del 26 luglio 2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 17 agosto 2017, nella parte in cui impone ai produttori di pasta l’obbligo di indicare in etichetta il Paese di coltivazione del grano e il Paese di molitura, onde garantire ai consumatori un’informazione completa e trasparente, funzionale a consentire una scelta libera e consapevole nell’acquisto dei prodotti agro-alimentari.
L’impugnativa è stata affidata ai seguenti motivi di diritto:
I. Incompetenza, violazione dell’art. 26, par. 3, del regolamento UE n. 1169 del 2011 e dell’art. 288 TFUE, nonché nullità per carenza di potere e difetto dei presupposti , non essendo stati ancora adottati gli atti di esecuzione di cui all’art. 26, par. 3, del citato Regolamento UE, secondo cui l’obbligo di indicare il paese di origine (o il luogo di provenienza) dell’alimento e dell’ingrediente primario è subordinato all’adozione di atti di esecuzione da parte della Commissione europea (a seguito di specifiche valutazioni di impatto).
II. Violazione degli artt. 39 e 45 del Regolamento UE n. 1169 del 2011 , non essendo stato rispettato il procedimento di notifica della Commissione europea, finalizzato a consentire a quest’ultima la presenza di condizioni uniformi di attuazione del regolamento e a esprimersi con parere vincolante.
III. Violazione dell’art. 6 della legge 11 novembre 2011 n. 180 , essendo stato disatteso l’obbligo di sottoporre il decreto interministeriale impugnato “all’analisi dell’impatto della regolamentazione (AIR) e alla verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR)” di cui al citato art. 6.
IV. Violazione dell’art. 4, c. 3, della legge n. 4 del 2011 e dell’art. 3, comma 9, del d.lgs. n. 91 del 2014, nonché sopravvenuta carenza e decadenza del potere , atteso che il decreto impugnato è stato adottato quando erano ormai trascorsi i termini previsti dalla legge per l’emanazione di tale tipologia di provvedimenti.
V. Eccesso di potere per sviamento dall’interesse pubblico e violazione dell’art. 39, par. 1, del Regolamento UE n. 1169 del 2011 , perseguendo il decreto interministeriale non l’interesse pubblico cui è finalizzata la norma attributiva del potere (vale a dire la tutela del consumatore), bensì un interesse particolaristico assolutamente estraneo rispetto alla norma attributiva del potere, ovvero l’interesse settoriale (e non preso in considerazione dalla normativa sull’informazione del consumatore) di cui sono portatori i produttori italiani di grano.
VI. Violazione dell’art. 39, par. 2, del Regolamento UE n. 1169 del 2011 , non risultando comprovata l’esistenza di un nesso tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza, né la significatività di tali informazioni per il consumatore.
VII. Violazione dell’art. 26, par. 3, del Regolamento UE n. 1169 del 2011, nonché eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità, errore di fatto e difetto di istruttoria , prescrivendo il decreto impugnato di indicare il paese di origine dell’ingrediente primario, vale a dire il paese in cui è coltivato il grano ed è ottenuto la semola, ma non anche l’indicazione del paese di origine dell’alimento, vale a dire il paese in cui le semole sono miscelate e lavorate per ottenere l’impasto finale, con conseguente vanificazione della ratio dell’art. 26, par. 3, del citato regolamento UE, tesa a evitare che l’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza dell’ingrediente possa indurre il consumatore in errore in merito all’origine/provenienza dell’alimento.
VIII. Quanto all’art. 6 del decreto impugnato: violazione dell’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dell’art. 14-bis della legge n. 11 del 2005, eccesso di potere per disparità di trattamento e violazione dell’art. 3 della Costituzione , atteso che l’obbligo di indicare nell’etichetta della pasta l’origine del grano duro integra quella fattispecie illegittima, tanto sul versante europeo quanto su quello nazionale, denominata “discriminazione al rovescio”, sussistente nel caso in cui la normativa interna preveda una disciplina più restrittiva per determinate tipologie di prodotti rispetto a quella vigente negli altri Stati membri.
IX. Quanto all’art. 5 del decreto: violazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 689 del 1981 e dell’art. 7 CEDU , disponendo il decreto una sanzione prevista dalla legge per fattispecie diversa: la diversità tra il precetto previsto dalla legge e quello introdotto dal decreto sarebbe infatti evidente nella misura in cui la sanzione prevista dalla legge riguarda l’etichettatura idonea a indurre in errore, mentre la sanzione prevista dal decreto riguarda l’etichettatura carente di indicazione di provenienza, la cui obbligatorietà è fissata per la prima volta dallo stesso decreto.
Le Amministrazioni intimate si sono costituite in giudizio eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso in ragione del carattere generale ed astratto e dunque non immediatamente lesivo del provvedimento impugnato e concludendo nel merito per l’infondatezza delle censure ex adverso svolte.
Con ordinanza cautelare n. 6194 del 22 novembre 2017 è stata respinta la domanda di sospensione dell’efficacia del decreto impugnato, sul rilievo che “la mancata adozione da parte della Commissione europea degli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 26, par. 8, del regolamento n. 1169/2011, non preclude allo Stato membro di dettare, nelle more, una disciplina nazionale, corredata – come nel caso - dalla clausola di cedevolezza (cfr. art. 7, comma 2, del decreto impugnato)” .
All’udienza di smaltimento del giorno 12 dicembre 2022, la causa è passata in decisione.
Ciò premesso, deve in via preliminare essere disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso in ragione del carattere generale ed astratto e dunque non immediatamente lesivo del provvedimento impugnato, il quale contempla invero una serie di puntuali obblighi in capo ai destinatari, per la cui violazione è peraltro prevista apposita fattispecie sanzionatoria.
Nel merito, il ricorso è infondato e va respinto.
Quanto al primo insieme di censure (motivi da uno a quattro), con cui parte ricorrente lamenta vizi procedimentali relativi alla violazione delle disposizioni di rango comunitario, è sufficiente rilevare come la mancata adozione da parte della Commissione europea degli atti esecutivi ex art. 26, par. 8, del Regolamento n. 1169/2011, non preclude allo Stato membro di dettare, nelle more, una disciplina nazionale corredata – come nel caso - dalla clausola di cedevolezza (cfr. art. 7, comma 2, del decreto impugnato), di etichettatura dell’origine della materia prima per le paste di semola di grano duro, al fine di garantire una maggiore sicurezza e trasparenza verso i consumatori.
Inoltre, il decreto in questione prevede espressamente che le nuove prescrizioni non si applicano nei confronti dei prodotti legalmente fabbricati o commercializzati in un altro Stato membro dell’UE o di un Paese terzo (art. 6), sicché deve ritenersi priva di fondamento la denunciata interferenza delle nuove prescrizioni con la libertà di circolazione delle merci di cui al Trattato UE.
Occorre da ultimo rilevare che la notifica del decreto alla Commissione europea è stata effettuata dal Governo italiano in data 8 settembre 2017, ovvero con largo anticipo rispetto alla data fissata per l’entrata in vigore del decreto medesimo (febbraio 2018), senza che sia stato mosso alcun rilievo nel merito di segno negativo.
Quanto al preteso obbligo di sottoporre il decreto impugnato “all’analisi dell’impatto della regolamentazione (AIR) e alla verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR)” di cui all’art. 6 della legge n. 180/2011, giova osservare come tale incombente costituisca al più una mera irregolarità dell’atto, che oltre a non essere sanzionato con apposita comminatoria d’invalidità, non risulta aver impedito il raggiungimento dell’interesse pubblico sotteso all’emanazione della disciplina in contestazione.
Né può sostenersi che il decreto sia stato adottato quando erano ormai trascorsi i termini previsti dalla legge per l’emanazione di tale tipologia di provvedimenti, avendo le intimate Amministrazioni provveduto sulla base di quanto statuito all’articolo 26 del regolamento UE n. 1169 del 2011 e, più a monte, dall’articolo 114 del TFUE in virtù di quanto disposto dall’articolo 38, paragrafo 1, del medesimo regolamento n. 1169/2011, il quale prevede che, ove il diritto dell’Unione lo autorizzi, gli Stati possano mantenere disposizioni nazionali che prevedono indicazioni obbligatorie nell’etichetta dei prodotti alimentari ulteriori rispetto a quelle previste dall’articolo 9 dello stesso regolamento.
Quanto all’infondatezza delle successive censure (motivi da cinque a sette), inerenti vizi sostanziali per sviamento dell’interesse pubblico, deve osservarsi che l’obiettivo primario del decreto sia quello di rendere al consumatore informazioni chiare e trasparenti sull’origine dei prodotti alimentari, al fine di valorizzare la sua libera e consapevole scelta, coerentemente a quanto stabilito dal Regolamento UE n. 1169 del 2011, il quale statuisce espressamente che:
a) “La considerazione principale per richiedere informazioni obbligatorie sugli alimenti dovrebbe essere quella di consentire ai consumatori di identificare e di fare un uso adeguato di un alimento e di effettuare scelte adatte alle esigenze dietetiche individuali. A tal fine, gli operatori del settore alimentare dovrebbero agevolare l’accessibilità di tali informazioni alle persone con menomazioni visive” (cfr. considerando 17);
b) “Affinché la normativa in materia di informazioni sugli alimenti possa adattarsi alle mutevoli necessità dei consumatori per quanto riguarda tali informazioni, qualunque considerazione sulla necessità di informazioni obbligatorie sugli alimenti dovrebbe anche tenere conto dell’interesse ampiamente dimostrato dalla maggioranza dei consumatori a che siano fornite determinate informazioni” (cfr. considerando 18).
Deve d’altra parte ritenersi priva di pregio l’asserita violazione dell’articolo 39 del regolamento UE n. 1169 del 2011, trattandosi di riferimento normativo alternativo e non sostitutivo, rispetto alla possibilità di fare inserire, in etichetta, l’indicazione dell’origine della materia prima prevista all’articolo 26 del medesimo regolamento, che ha trovato applicazione nel caso di specie.
Alle medesime conclusioni, deve giungersi in ordine alla dedotta violazione dell’art. 45 del regolamento UE n. 1169 del 2011.
Trattasi, infatti, di disposizione mai richiamata dal decreto impugnato, facente invece riferimento l’articolo 38, par. 1, del medesimo regolamento, il quale prevede che : “Quanto alle materie espressamente armonizzate dal presente regolamento, gli Stati membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali salvo se il diritto dell’Unione lo autorizza. Tali disposizioni nazionali non creano ostacoli alla libera circolazione delle merci, ivi compresa la discriminazione nei confronti degli alimenti provenienti da altri Stati membri” .
Deve, da ultimo, ritenersi destituita di fondamento la dedotta violazione dell’art. 26, par. 3, del Regolamento UE n. 1169 del 2011, per aver prescritto il decreto impugnato di indicare il paese di origine dell’ingrediente primario, vale a dire il paese in cui è coltivato il grano ed è ottenuto la semola, ma non anche l’indicazione del paese di origine dell’alimento, vale a dire il paese in cui le semole sono miscelate e lavorate per ottenere l’impasto finale.
Al riguardo è sufficiente osservare come l’obbligo di indicazione in etichetta del paese di coltivazione del grano e del Paese di molitura (articolo 2), non esclude l’indicazione del Paese di origine dell’alimento, trattandosi di obbligo aggiuntivo e non sostitutivo rispetto alle prescrizioni in materia di etichettatura, come del resto desumibile, oltreché da una interpretazione logico-sistematica della normativa in materia, anche dall’articolo 1, comma 2, del decreto ove è previsto che: “Resta fermo il criterio di acquisizione dell’origine ai sensi della vigente normativa europea” .
Quanto alle ultime due doglianze (motivi ottavo e nono) in materia di vizi ordinamentali, è in primo luogo infondato il rilievo secondo l’art 6 del decreto darebbe luogo ad una c.d. “discriminazione al rovescio” , in quanto contemplante l’esclusione dagli obblighi del decreto ai prodotti legalmente fabbricati o commercializzati in un altro Stato membro dell’Unione europea o in un Paese terzo, circostanza questa che determinerebbe che gli operatori italiani sarebbero sottoposti ad una disciplina più restrittiva rispetto agli stranieri.
Invero, l’articolo 6 del decreto reca la c.d. clausola di mutuo riconoscimento ai sensi della quale “Le disposizioni del presente decreto non si applicano ai prodotti legalmente fabbricati o commercializzati in un altro Stato membro dell'Unione europea o in un Paese terzo” , con l’ovvia conseguenza che, per quanto riguarda le quote di mercato estero (UE ed extra UE), il produttore italiano è soggetto alla stessa disciplina in materia di etichettatura prevista per le imprese degli altri Stati membri, potendo commercializzare all’estero pasta prodotta in Italia senza dover applicare la disciplina del decreto impugnato.
Appare infine destituita di fondamento la dedotta violazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 689 del 1981 e dell’art. 7 CEDU, per aver contemplato il decreto in questione una sanzione prevista dalla legge per fattispecie diversa, atteso che “il principio di tipicità e di riserva di legge fissato in materia delle sanzioni amministrative dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, impedisce che l’illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie, senza tuttavia escludere che i precetti della legge, sufficientemente individuati, siano eterointegrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare” , come avvenuto nel caso di specie (Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 2016, n. 4114;id., Sez. 2, nn. 5243/2011, 13344/2010 e n. 9584/2006).
Le considerazioni che precedono impongono il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio seguono, come da regola, la soccombenza e si liquidano nella misura indicata in dispositivo.