TAR Palermo, sez. I, sentenza 2022-03-25, n. 202201051
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Testo completo
Pubblicato il 25/03/2022
N. 01051/2022 REG.PROV.COLL.
N. 01348/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1348 del 2021, proposto da-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato L T, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio presso sito in Palermo, Passaggio dei Poeti n. 11;
contro
Ufficio Territoriale del Governo di Palermo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, 6;
per l'annullamento
del provvedimento antimafia interdittivo prot. n. 72155 del 19.5.2021, ex artt. 67 e 84 d.lgs n. 159/2011, comunicato in data 20.5.2021 dalla Prefettura di Palermo.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Ufficio Territoriale del Governo di Palermo e del Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 marzo 2022 il dott. Luca Girardi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso ritualmente proposto, il Sig.-OMISSIS-, nella qualità di titolare della omonima ditta individuale, ha impugnato il provvedimento antimafia interdittivo n. 72155 del 19 maggio 2021, emesso ex artt. 67 e 84 d.lgs n. 159/2011.
In fatto il ricorrente deduce di essere titolare dell’omonima ditta individuale con sede in Palermo, che opera nel campo della coltivazione e produzione di prodotti agricoli biologici.
Con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, il Tribunale di Palermo, in data 21 febbraio 2007, applicava al Sig.-OMISSIS- la pena di anni due di reclusione, per fatti risalenti agli anni 2000 e 2001.
Il Giudice concedeva le circostanze attenuanti generiche e riconosceva il beneficio della sospensione condizionale della pena, essendo, in particolare, favorevole il giudizio prognostico in ordine all'astensione dello stesso dalla commissione di reati.
Con decreto del 19 giugno 2007, il Tribunale di Palermo, Sez. Misure di Prevenzione, rigettava la proposta di applicazione della misura di prevenzione personale e revocava, rigettando la proposta di confisca, il sequestro operato, ex L. 575/1965, sull’impresa individuale oggi oggetto del provvedimento impugnato e su una porzione di fondo rustico sito in C.da Susafa.
Successivamente, il Sig.-OMISSIS- proponeva istanza di riabilitazione ai sensi degli artt. 667, 676 e 178 c.p. L’istanza di riabilitazione veniva però rigettata dal Tribunale di Palermo con provvedimento del 17 marzo 2015. A questo proposito il Sig.-OMISSIS- precisa che la ragione del provvedimento di rigetto non era legata ad elementi inerenti la condotta tenuta successivamente ai fatti di cui alla sentenza suddetta, ma esclusivamente alla circostanza che egli non aveva provveduto al risarcimento del danno in favore degli enti territoriali, sebbene questi ultimi non avessero mai avanzato alcuna richiesta in tal senso, né nell’ambito del procedimento penale, né in altra sede giudiziaria, né in via extragiudiziaria, così ponendo, a suo dire, l’interessato nella materiale difficoltà di dar corso ad un risarcimento per quel “danno all’immagine” che il Tribunale di Sorveglianza riteneva quale unico ed esclusivo motivo ostativo alla riabilitazione.
Di seguito, in data 19 maggio 2021, la Prefettura ha proceduto ad adottare la comunicazione qui gravata.
Più nel dettaglio, il ricorrente precisa che siffatta misura rinviene il suo unico fondamento nel precedente penale e nella mancata riabilitazione.
A ciò si aggiunga che, alla luce del disposto normativo di cui all’art. 645, comma 2, c.p.p, il reato oggetto della più volte richiamata sentenza di applicazione della pena è da ritenersi estinto per il decorso del termine di cinque anni previsto dalla norma.
Il ricorso è assistito da unico complesso motivo di lagnanza, con il quale preliminarmente il ricorrente richiama l’art. 166, comma 2, c.p., che prevede: “La condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, né d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa”.
A suo dire, la norma richiamata è espressione di un principio di carattere generale, applicabile a prescindere da ogni normativa di riferimento. Rimarca l’istante che il sistema della cd. prevenzione amministrativa antimafia trova la sua ragion d’essere sul fatto che esso intende incidere sulla pericolosità del soggetto.
Pertanto, il precedente penale richiamato nel provvedimento impugnato sarebbe inidoneo a fungere da presupposto per l’applicazione delle cause di decadenza, sospensione e divieto di cui all’art. 67 d.lgs. 159/2011, salvo a voler violare il principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico.
Così come, sempre a parere dell’istante, il provvedimento impugnato sarebbe stato assunto in violazione di legge perché privo di ogni valutazione dei dati favorevoli al ricorrente.
Ancora, emergerebbe anche un ulteriore profilo di contraddittorietà del provvedimento impugnato e financo della richiesta di comunicazione inviata da AGEA alla Prefettura, in quanto l’impresa individuale avrebbe regolarmente fruito, senza alcuna soluzione di continuità, delle agevolazioni di legge nel corso degli anni.
In subordine, il ricorrente chiede al Collegio di proporre questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, d.lgs. 159/2011 in relazione agli artt. 3 e 41 Cost., laddove fa derivare automatici effetti pregiudizievoli nell’ipotesi di condanna in sede penale per i reati ivi indicati, anche in assenza di pericolosità sociale o allorquando con la sentenza di condanna sia stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Resistono in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Palermo, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo che ha depositato memorie a difesa chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanza n. 571 pubblicata il 20 settembre 2021, questo Tribunale ha rigettato la richiesta di sospensione del provvedimento impugnato “alla luce della mancata riabilitazione dalla condanna intervenuta per reati richiamati dall’art. 67, comma 8, del d.lgs. 159/11 ed in considerazione del fatto che, con la comunicazione di cui all’art. 84, comma 2, del codice antimafia, il Prefetto si limita a dare atto dell’esistenza di elementi ostativi che, ex lege, escludono il conseguimento di autorizzazioni, iscrizioni in albi o elargizione di contributi statali sulla scorta del solo provvedimento emesso dal Giudice Penale”.
A seguito di appello cautelare, con ordinanza n. -OMISSIS- del 20 dicembre 2021, il CGA ha riformato il provvedimento di prime cure chiarendo che: “[…] per risolvere la presente fattispecie non assume rilievo la problematica relativa alla necessità della riabilitazione anche a fronte di una sentenza di patteggiamento, tematica già affrontata da questo Consiglio (cfr. C.G.A.R.S. 129/2018). Non assume altresì rilievo la questio relativa alla differenza tra riabilitazione ed estinzione del reato dovuta al decorrere del tempo durante in cui la pena rimane sospesa. Dirimente rilievo assume, ritiene il Collegio, la disciplina che il codice penale disegna per l’istituto della sospensione della pena e dei suoi effetti. Proprio nel disciplinare gli effetti di una condanna con cui si ordina la sospensione della pena inflitta così dispone il comma 2 dell’art. 166 c. p.: […]. Il d.lgs n. 159/2011 (codice antimafia) ha optato per una tendenziale equiparazione degli effetti della sentenza di patteggiamento con quelli derivanti dalle sentenze emesse a conclusione del rito ordinario, ma nulla ha innovato in merito all’istituto della sospensione della pena. La l.n. 3 del 2019 (spazzacorrotti) ha integrato il primo comma dell’art. 166 c.p., senza apportare alcuna modifica al secondo comma dello stesso articolo che, appunto, disciplina la fattispecie oggetto del presente giudizio. Il termine “misure di prevenzione” utilizzato nel citato comma, ad avviso del Collegio deve essere inteso come comprensivo anche delle c.d. misure di prevenzione amministrative, compresa, quindi, la comunicazione antimafia (…in alcun caso..). Diversamente opinando dovrebbe registrarsi un insanabile conflitto tra la norma penale che collega alla pena condizionalmente sospesa il diritto di continuare ad ottenere concessioni, licenze, autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa e la previsione di una comunicazione interdittiva che proprio sulla valorizzazione della sola stessa pena sospesa renda impossibile ottenere concessioni, licenze, autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa. In termini restrittivi deve essere interpreta la deroga al citato principio generale prevista dallo stesso comma tra due virgole “né d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge”. Specifiche norme possono far derivare dalla pena sospesa solo il divieto di accedere a determinati posti di lavoro pubblici o privati. Non sussistono pertanto, nella presente fattispecie, le condizioni per emettere la comunicazione interdittiva”.
In vista dell’udienza odierna le parti hanno scambiato memorie e depositato documenti.
All’udienza pubblica del 10 marzo 2022 la causa è stata posta in decisione previa discussione da parte della difesa del ricorrente.
DIRITTO
1. Brevemente occorre riepilogare i fatti narrati.
Nei confronti del Sig.-OMISSIS-, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (AGEA) ha inserito nella Banca Dati Nazionale Antimafia (B.D.N.A.) due richieste di “comunicazione” ex art. 87 D.lgs. 159/2011. Dalla consultazione della suddetta Banca Dati è emersa la sussistenza di una delle cause ostative previste dall’art. 67 del d.lgs. 159/11, e cioè la condanna, con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti del G.I.P. del Tribunale di Palermo, alla pena di anni due di reclusione (Procurata inosservanza di pena in concorso, art. 110 c.p., art. 390 c.p., circostanza: art. 7 L. 12.07.1991 n. 203;Favoreggiamento personale, art. 378 c.p., circostanze: art. 378, comma 1, c.p., art. 378, comma 2 c.p.;art. 7 L. 12.07.1991 N. 203; Violazione delle disposizioni contro la criminalità mafiosa – Art. 12-quinquies L. 356/1992, circostanza: art. 7 L. 12.07.1991 n. 203).
I reati per i quali è stato condannato il Sig.-OMISSIS-, aggravati dalla circostanza di cui all’art. 7 l. 12.07.1991, n. 203, ricadono nelle previsioni di cui all’art. 67 del codice antimafia ed escludono, per il soggetto destinatario di dette condanne, il conseguimento di autorizzazioni, iscrizioni in albi ed altri benefici ivi previsti.
Conseguentemente, in ragione dell’elemento ostativo riscontrato e della mancata riabilitazione conseguita medio tempore , in applicazione dell’art. 84, comma 2, del codice antimafia nei confronti del Signor-OMISSIS-, nella qualità di titolare della omonima ditta individuale, è stato adottato il provvedimento interdittivo n. 72155 del 19.05.2021.
2. Premesso tutto ciò, il Collegio intende confermare quanto già deciso in sede cautelare, da cui discende il rigetto dell’odierno ricorso.
3. In primis, occorre ribadire che l’estinzione del reato prevista dall’art. 445, comma 2, c.p.p. in seguito al cd. “patteggiamento” non può giustificare il ritiro o la revoca di un provvedimento interdittivo. Infatti, l'estinzione del reato in caso di applicazione della pena su richiesta non può considerarsi sufficiente ai fini dell'informativa antimafia, essendo per converso necessaria la riabilitazione, ossia un provvedimento implicante un più approfondito esame giudiziario della condotta del soggetto ed un'eventuale favorevole considerazione del percorso rieducativo del condannato, valutazione discrezionale del giudice del tutto assente nella procedura di estinzione conseguente a patteggiamento.
Non è corretto, quindi, equiparare due istituti giuridici autonomi e distinti. Come da giurisprudenza, infatti, la riabilitazione ex art. 178 c.p. ed estinzione conseguente al patteggiamento ai sensi dell’art. 445 c.p.p. non sono equivalenti. Ed invero, ai fini della riabilitazione non è sufficiente la mancata commissione di altri reati, come nel caso dell’estinzione conseguente al patteggiamento ai sensi dell’art. 445 c.p.p., ma occorre l’accertamento del completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del reato, (Cons. St., sez. III, sent. n. 3067/2018 che richiama Cass. pen. sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089).
La Suprema Corte, nel distinguere e sottolineare l’autonomia dei due istituti, ha chiarito che mentre l’estinzione della pena patteggiata si produce con il solo mancato avveramento della condizione risolutiva nel previsto arco temporale, la riabilitazione viene pronunziata all’esito di un effettivo approdo rieducativo del reo (Cass. pen. sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089 cit.). Pertanto, i due istituti, sia pur diretti teleologicamente al conseguimento della cessazione degli effetti penali della condanna, non possono considerarsi sovrapponibili. La prova certa dell’avvenuta rieducazione del reo, infatti, può ottenersi esclusivamente con la riabilitazione e non, con l’estinzione della pena, un istituto che opera in via automatica basato sul mero dato fattuale del decorso del tempo. (da ultimo, Consiglio di Stato sez. III, 11/07/2019, n. 3499).
Nel caso che ci occupa, come detto, il Tribunale di Palermo, con ordinanza del 17 marzo 2015, non ha concesso la riabilitazione al richiedente;l’art. 70 del codice antimafia prevede invece che la riabilitazione comporta la cessazione di tutti gli effetti pregiudizievoli riconnessi allo stato di persona sottoposta a misure di prevenzione nonché la cessazione dei divieti previsti dall'articolo 67.
4. Ora, ai fini di una migliore intellegibilità della vicenda, anche perché il ricorrente indugia molto sugli aspetti legati alla riabilitazione e alla buona condotta da cui deriverebbe comunque la necessità di un giudizio favorevole da parte dell’amministrazione resistente, è opportuno riportare ampi stralci del suddetto provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Palermo di diniego della chiesta riabilitazione: “Occorre premettere che in sede di riabilitazione la personalità dell'istante va verificata alla luce di tutto quanto accaduto nel periodo intermedio fra quello del fatto per il quale sentenza e quello dell'odierna decisione. In tale valutazione globale bisogna ricercare e trovare non tanto un'assenza di ulteriori elementi negativi, bensì delle prove effettive e costanti di buona condotta. Infatti, come insegna la giurisprudenza del Supremo Collegio, alla pronuncia di riabilitazione si perviene previo accertamento del completo ravvedimento, dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione, ove possibile, delle conseguenze civili del reato. In tale ottica, l'attivazione per l'adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, presupposto indefettibile richiesto dalla norma del potere ottenere il beneficio, non deve essere valutata alla stregua delle regole proprie del codice civile, ma anche quale onere imposto al condannato in funzione del valore dimostrativo dell'elemento (in tal senso Cassazione, sezione I, 27 gennaio 2005). È pertanto irrilevante che il soggetto danneggiato dal reato non si sia costituito parte civile nel processo da cui è scaturita la condanna in questione, e che non abbia, in alcuna sede avanzato, richieste risarcitorie. Nel caso di specie, l'istante chiede la riabilitazione dalla sentenza di applicazione della pena emessa a suo carico per aver aiutato un noto boss di cosa nostra (Giuffrè Antonino) a sottrarsi ai provvedimenti cautelari che lo riguardavano, per averlo nascosto in un suo appartamento sito in Palermo, per essersi intestato fittiziamente i titoli azionari in realtà appartenenti al medesimo mafioso, il tutto commesso per agevolare l'attività dell'associazione criminale cosa nostra, in Palermo, nel 2000 2001 […]. L'esistenza e l'operatività dell'associazione mafiosa in cui favore ha operato il-OMISSIS- ha certamente arrecato un danno agli enti territoriali interessati (Palermo, provincia e gli ulteriori ambiti territoriali) in cui il sodalizio ha operato. In tal senso, è ormai principio pacifico in giurisprudenza che l'ente territoriale (o i vari enti territoriali, da individuarsi in relazione al luogo in cui il sodalizio ha manifestato la sua operatività, si veda Cassazione sezione VI 16 maggio 2000, 10 agosto 2000, n. 2324) può essere considerato danneggiato dal delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso o dai reati di agevolazione dell'associazione criminale mafiosa, in quanto “tale reato certamente cagiona un pregiudizio di carattere patrimoniale e non, almeno all'immagine della città e dallo sviluppo del turismo e delle attività produttive di essa, con conseguente lesione di interessi propri, giuridicamente tutelati dall'ente e della collettività danneggiata alla rappresentanza” (si veda Cass. Pen. Sez. I 24 luglio 1992, n. 8381, Bono) così come altro danno, di certo risarcibile, è quello conseguente alla paralisi e alla devianza del potere amministrativo cagionato dal sodalizio mafioso. […] Nel nostro caso, peraltro, l'azione criminosa svolta dal soggetto oggi istante in favore dell'associazione a delinquere, non può essere considerata affatto marginale. Infatti l'attività di favoreggiamento del boss latitante è stata svolta da soggetto di elevato livello sociale (si vedono le informazioni di P.S. agli atti), tale da non indurre gli inquirenti a sospetto nascondendo il latitante in un appartamento nel centro di Palermo, anche intestandosi titoli azionari appartenenti al boss latitante, al fine di eludere eventuali provvedimenti di prevenzione patrimoniale. In conclusione, a fronte di un danno sicuramente arrecato dal soggetto oggi istante agli enti territoriali in cui opera l'associazione mafiosa favorita dallo stesso commercio illecito penale, nessuna attività risarcitoria, comunque articolata e comunque effettuata, anche prescindendosi dall'aspetto meramente finanziario del risarcimento, è stata posta in essere, o solo anche prospettata dall'istante, per cui viene a mancare un presupposto di ammissibilità del richiesto beneficio. E quanto richiesto al soggetto istante vale a maggior ragione ove si ponga mente al fatto che, come accertato dall'autorità di P.S., il-OMISSIS- è proprietario di diversi immobili e gode di un reddito - riferito al 2014 - complessivamente superiore ai 200.000 € (si veda nota del 24 febbraio 2015 del commissariato di P.S. Politeama di Palermo in atti)”.
Riassumendo, il Tribunale evidenzia: il particolare disvalore dei fatti oggetto dell’originario giudizio, anche se risalenti;la necessità che, in prima persona, il ricorrente si attivasse per elidere gli effetti negativi del proprio comportamento;che “nessuna attività risarcitoria, comunque articolata e comunque effettuata, anche prescindendosi dall'aspetto meramente finanziario del risarcimento, è stata posta in essere, o solo anche prospettata dall'istante, per cui viene a mancare un presupposto di ammissibilità del richiesto beneficio” . Pertanto, non si richiedeva che gli enti territoriali si attivassero per avanzare proposte risarcitorie al ricorrente, ma per contro, che lo stesso avesse un atteggiamento propulsivo nella vicenda (circostanza che non emerge dagli atti di causa, quantomeno fino al deposito in giudizio dell’offerta di risarcimento del ricorrente trasmessa al Comune di Palermo in data 4 ottobre 2021, e quindi non vagliata dal Tribunale di Sorveglianza).
Il Collegio osserva, inoltre, che nonostante il diniego sia avvenuto nel 2015, il ricorrente non ha proceduto ha impugnare l’ordinanza o a reiterare l’istanza, come consentito dall’art. 683 c.p.p., dimostrando ancora un atteggiamento passivo davanti alle richieste dell’autorità giudiziaria.
5. Va ancora precisato che, per come si chiarità meglio in prosieguo, lo stesso CGA ha di recente ribadito (ordinanza n. 525 del 29/07/2021) la natura vincolata della comunicazione antimafia. Infatti, a mente dell’articolo 84 D.Lgs. n. 159/2011, la comunicazione antimafia “consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67” . Si legge nel provvedimento del giudice di appello ora richiamato che: “Con la comunicazione il Prefetto si limita a dare atto di un provvedimento impeditivo indicato dall’art. 67 del medesimo decreto legislativo. In particolare, è stato rilevato dal certificato del casellario giudiziale, che l’odierno ricorrente «in data -OMISSIS-, con decreto del Tribunale di Palermo, definitivo il-OMISSIS-, è stato sottoposto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di P.S., con obbligo di soggiorno, per anni due». Con il provvedimento impugnato, pertanto, il Prefetto ha comunicato un dato, non ha certamente formulato un giudizio. Il solo modo per rendere irrilevante (facendone cessare gli effetti) il dato comunicato dal Prefetto è la procedura di riabilitazione espressamente prevista dall’art. 70 della stessa legge”. Da ciò discende, a confutazione delle censure sul tema, l’irrilevanza di una compiuta istruttoria sul punto da parte dell’autorità prefettizia una volta riscontrata l’assenza di condizione per la concessione del beneficio valutabile per tabulas .
6. Inoltre, il Collegio ritiene di dover confermare quanto delibato in via interinale nonostante quanto deciso dal CGA in sede di appello cautelare, non ritendo accoglibile la ricostruzione esegetica offerta dal Giudice di appello con l’ordinanza -OMISSIS-/21 per le ragioni che seguono.
7. Il CGA valorizza il dato testuale del comma 2 dell’art. 166 c.p., secondo cui: “ La condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, né d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa”.
A dire del Giudice di appello l’inciso “in alcun caso” servirebbe ad includere anche le misure di prevenzione amministrative di cui al codice antimafia tra quelle incompatibili con la sospensione condizionale della pena: “Diversamente opinando dovrebbe registrarsi un insanabile conflitto tra la norma penale che collega alla pena condizionalmente sospesa il diritto di continuare ad ottenere concessioni, licenze, autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa e la previsione di una comunicazione interdittiva che proprio sulla valorizzazione della sola stessa pena sospesa renda impossibile ottenere concessioni, licenze, autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa”.
E, pertanto, “in termini restrittivi deve essere interpreta la deroga al citato principio generale prevista dallo stesso comma tra due virgole “né d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge”.
Per contro, questo Collegio ritiene che la specialità delle disposizioni del codice antimafia sottraggano l’applicazione della norma richiamata al caso di specie.
Infatti, gli interessi tutelati dai provvedimenti prefettizi non coincidono con quelli tutelati dalle misure di prevenzione di matrice penale.
Ciò detto, il sistema delle misure interdittive attribuite alla competenza del Prefetto è espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata. L’interdittiva antimafia costituisce “una misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 1743). Ancora: “ L’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, del resto, ha ricondotto ad una incapacità di agire temporanea l’effetto dell’interdittiva, essendovi – nello stesso cd “codice antimafia” – adeguate misure, compiutamente disciplinate, per ricostruire le condizioni di affidabile partecipazione della società al mercato, nella sua espressione libera e incondizionata da sospette infiltrazioni. D’altronde le medesime misure, ritenute estranee per comune ammissione e per costante giurisprudenza al sistema sanzionatorio penale in ragione del loro carattere cautelare ed anticipatorio, così come espressamente ammesso dalla medesima difesa di parte appellante sono sottoposte ai principi di legalità e del giusto procedimento ammnistrativo, secondo criteri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità (di recente, Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165).
Il Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 3/2018, ha avuto modo di chiarire che l’interdittiva antimafia è un provvedimento amministrativo, adottato all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario, al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’articolo 41 della Costituzione.
La comunicazione antimafia, in particolare, è un documento ricognitivo di tipo accertativo che viene rilasciato dalla competente Prefettura, avente lo scopo di dimostrare i fatti accertati circa la sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’articolo 67 del decreto legislativo n. 159/2011, ovvero l’applicazione, con provvedimento definitivo, di una delle misure di prevenzione personali previste dal libro I, titolo I, capo II, del decreto legislativo n. 159/2011 e disposte dall’autorità giudiziaria.
Il provvedimento in parola è finalizzato proprio a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese che possano condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’articolo 97 della Costituzione, sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato sia, infine del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
Per contro, il presupposto per l’applicazione delle misure di prevenzione di stampo penalistico è rappresentato dalla pericolosità del soggetto e queste sono dirette ad evitare la commissione di reati da parte di determinate categorie di soggetti considerati socialmente pericolosi.
Come condivisibilmente precisato dalla Difesa erariale, la comunicazione antimafia, come tutto il sistema che fa capo al codice antimafia, risponde quindi a ragioni di carattere general-preventivo, impedendo ai soggetti nei cui confronti sia intervenuta una sentenza di condanna per reati specificamente individuati dal legislatore, caratterizzati da particolare efferatezza e/o disvalore, di fruire di provvedimenti autorizzatori o di contrattare con la pubblica amministrazione.
Non v’è dubbio, allora, che le norme in tema di comunicazioni antimafia qui richiamate mirano a scongiurare pericoli che persistono anche nel caso in cui sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, istituto che invece punta ad un ridimensionamento della funzione retributiva della pena e alla riduzione delle pene detentive brevi.
Pertanto, attesa la particolare natura e finalità delle disposizioni del D.lgs. 159/2011, nonché la specificità dei soggetti cui sono rivolte le norma in parola e l’elencazione tassativa dei reati che ne comportano l’applicazione, gli artt. 87 e ss. del suddetto codice debbono ritenersi disciplina speciale con forza derogatoria rispetto alle disposizioni del codice penale ed, in particolare, rispetto all’art. 166 c.p., comma 2.
Di tale specialità, di cui la giurisprudenza amministrativa non dubita per come chiarito, sembra dare atto anche la Cassazione in un recente arresto in tema di sequestri di prevenzione di cui al titolo IV D.lgs. 159/11, quale disciplina non estensibile ai sequestri penali attesa la sua specialità (cfr. Cassazione penale, sez. IV, 06/07/2017, n. 36092).
8. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto avendo l’amministrazione correttamente eseguito la verifica per l’emissione della comunicazione interdittiva e avendo riscontrato la mancata intervenuta riabilitazione del ricorrente da parte del giudice penale.
9. Non meritevole di accoglimento, inoltre, è la richiesta di rimessine alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale avanzata da parte ricorrente in relazione all’art. 67, comma 8, d.lgs. 159/11, alla luce della recente sentenza della Consulta n. 178 del 30 luglio 2021, su questione sicuramente differente, ma i cui principi consentono al Collegio una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, indispensabile ai fini dell’eventuale proposizione della richiesta rimessione.
10. Con la suddetta decisione la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 41 Cost., l'art. 24, comma 1, lett. d), d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), conv., con modificazioni, nella l. 1° dicembre 2018, n. 132, che modifica l'art. 67, comma 8, d.lg. 6 settembre 2011, n. 159, limitatamente alle parole "e all'articolo 640-bis del codice penale" , nonché, in via consequenziale, l'art. 24, comma 1, lett. d), d.l. n. 113 del 2018, come convertito, che modifica l'art. 67, comma 8, d.lg. n. 159 del 2011, limitatamente alle parole "nonché per i reati di cui all'articolo 640, comma 2, n. 1), del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico" .
Nella specie, la Corte ha avuto modo di chiarire come l’automatismo nell’emanazione delle comunicazioni antimafia previsto dall’articolo richiamato, di cui si duole anche parte ricorrente, non risulti violativo di canoni costituzionali allorché la condanna in sede penale sia legata comunque a reati in tema di contrasto alla criminalità organizzata.
Nel caso analizzato dalla Consulta, infatti, sono stati espunti dall’elenco tassativo dei reati previsti dall’art.67, comma 8, d.lgs. 159/11 i reati previsti agli artt. 640-bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) e 640, comma 2, n.1 (truffa commessa a danno dello Stato o di un altro ente pubblico (o dell'Unione europea) del codice penale.
Dopo una breve premessa sulle differenze tra comunicazione ed interdittiva antimafia, nella quale la Consulta ha avuto modo di ribadire che “la comunicazione antimafia, in conclusione, è il frutto di un'attività amministrativa vincolata, volta al mero accertamento delle cause di decadenza o divieto di cui all'art. 67” e “l'interdittiva antimafia, sebbene derivi da una condanna, non necessariamente definitiva, prescinde da una valutazione di specifica pericolosità del soggetto (che è invece alla base dell'applicazione di una misura di prevenzione)” , i Giudici costituzionali hanno richiamato il contenuto dell'art. 67, comma 8, cod. antimafia.
Nel merito della vicenda, la Consulta ha considerato violativo degli art. 3 e 41 della Costituzione l’inserimento dei reati di truffa suddetti insieme a reati la cui maggiore gravità giustifica invece l’automatismo nell’emissione della comunicazione antimafia. Si legge nella sentenza, infatti: “Va rilevato che gli altri casi previsti dalla disposizione censurata, cioè quelli di cui all'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., hanno una specifica valenza nel contrasto alla mafia, tant'è che essi vengono qui elencati allo scopo di attribuire le funzioni di pubblico ministero ai magistrati addetti alla direzione distrettuale antimafia, su designazione del procuratore distrettuale (art. 102 cod. proc. pen.). Si tratta, nella specie: dei delitti di cui agli artt. 452-quaterdecies, 600, 601, 602 e 630 cod. pen.;del delitto di associazione per delinquere finalizzato al compimento di gravi reati contro la personalità individuale, elencati dall'art. 416, commi 6 e 7, cod. pen., nonché al compimento dei reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen.;dei delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis cod. pen,), di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter cod. pen,) e dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen. e al fine di agevolare l'attività di tali associazioni;dei delitti di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza») e di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale»). Tali fattispecie delittuose hanno in gran parte natura associativa oppure presentano una forma di organizzazione di base (come per il sequestro di persona ex art. 630 cod. pen) o comunque richiedono condotte plurime (come per il traffico illecito di rifiuti di cui all'art. 452-quaterdecies cod. pen.), oltre a prevedere pene che possono essere anche molto alte. Ed è proprio in virtù di siffatta complessità che si radica la competenza della procura distrettuale antimafia, operante secondo linee di intervento dotate della necessaria coerenza, organicità, programmazione”.
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