TAR Salerno, sez. I, sentenza 2013-01-07, n. 201300001

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Salerno, sez. I, sentenza 2013-01-07, n. 201300001
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Salerno
Numero : 201300001
Data del deposito : 7 gennaio 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 02027/2011 REG.RIC.

N. 00001/2013 REG.PROV.COLL.

N. 02027/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2027 del 2011, proposto da: A S, rappresentato e difeso dagli avv. F F, I R e A F T, con domicilio eletto presso F F in Salerno, c.so Garibaldi,103;

contro

Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distr. Salerno, domiciliata in Salerno, corso Vittorio Emanuele N.58;
Questura di Salerno, Consiglio Provinciale di Disciplina, Capo della Polizia;

per l’annullamento del decreto 19 agosto 2011 n. 333-C/1 con il quale il Capo della Polizia ha applicato nei confronti dell’ex ispettore A S la sanzione della destituzione con decorrenza 9 maggio 2002 con contestuale revoca del provvedimento di sospensione dal servizio nonché di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenti nonché per l’accertamento del diritto del ricorrente all’intero trattamento economico per il periodo (9 maggio 2002- 29 settembre 2005) di sospensione cautelare dal servizio,


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 dicembre 2012 il dott. A O e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

A seguito del suo arresto, l’ispettore di polizia A S con decreto del Questore di Salerno del 9 maggio 2002 è stato sospeso in via cautelare dal servizio con decorrenza 9 maggio 2002.

Sono seguiti varie pronunce del Giudice penale;
di esse, ai fini del presente giudizio, assumono rilevanza:

a)- la sentenza n. 32374/2008 con la quale la VI Sezione pen. della Cassazione ha annullato senza rinvio <per non aver commesso il fatto>
la sentenza della Corte di appello di condanna del sig. S per il reato di cui all’art. 416 cod. pen.;

b)- la sent. n. 210/2011 con la quale la II Sez. pen. della Cassazione ha annullato senza rinvio per intervenuta prescrizione dei reati la sentenza della Corte di appello che aveva riconosciuto il S colpevole dei reati di corruzione e rivelazione di segreto di ufficio.

Nel frattempo, con decreto 18 marzo 2006 l’interessato è stato dispensato dal servizio per inabilità fisica.

Una volta definito il secondo dei due procedimenti penali sopra menzionati, l’Amministrazione, previa contestazione degli addebiti, ha avviato il procedimento disciplinare conclusosi con il provvedimento in questa sede impugnato contenente l’applicazione della sanzione della destituzione con decorrenza 9 maggio 2002 e con contestuale revoca del provvedimento di sospensione dal servizio.

Di qui il ricorso in esame con il quale sono stati dedotti i seguenti motivi:

1)-Violazione degli artt. 4,9,13,14, 20 e 21 DPR n. 737/1981, dell’art. 9 L. n. 19/1990 e dell’art. 118 DPR n. 3/1957 nonché il vizio di eccesso di potere sotto diversi profili in quanto il collocamento a riposo per inabilità fisica avrebbe avuto effetti <costitutivi>
<con irreversibile cristallizzazione della posizione del ricorrente>
e, pertanto, definitiva vanificazione del potere disciplinare dell’Amministrazione;
d’altra parte, la destituzione risulterebbe <sine causa>
se adottata nei confronti di un soggetto che comunque non può rientrare in servizio.

2)-Violazione dell’art. 16 DPR n. 737/191, dell’art. 9 L. 19/1990 e dell’art. 118 DPR n. 3/1957, dell’art. 27 Cost., dell’art. 6 della convenzione dei diritti dell’uomo e dell’art. 108 Cost. nonché eccesso di potere sotto diversi profili in quanto la presidenza del Consiglio di disciplina sarebbe stata affidata ad un dirigente che non ricopriva la qualifica di <vicario>
del Questore e limitatamente al solo procedimento disciplinare riguardante il ricorrente;
analogamente sarebbe illegittima la nomina a componente del medesimo consiglio del dott. Amato che non risulta ricompreso tra i membri supplenti individuati all’inizio dell’anno.

3)-Violazione delle medesime norma ed eccesso di potere sotto diversi profili in quanto al provvedimento sarebbe stata attribuita un’ inammissibile efficacia retroattiva con travolgimento in via di mero fatto del provvedimento di dispensa dal servizio per inabilità.

4)-Violazione delle medesime norme ed eccesso di potere in quanto sarebbe stata omessa qualsiasi autonoma valutazione dei fatti oggetto della vicenda penale conclusasi peraltro con un’assoluzione piena e una pronuncia di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dei reati.

5)-Violazione delle medesime norme ed eccesso di potere in quanto non sarebbero stati osservati i termini stabiliti dalla norme per le varie fasi del procedimento disciplinare.

L’Amministrazione intimata si è costituita in giudizio e ha controdedotto alle argomentazioni avversarie chiedendo che il ricorso sia respinto.

Alla pubblica udienza del 6 dicembre 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

DIRITTO

1-Il secondo motivo di ricorso, da esaminare in via prioritaria per ragioni di ordine logico, risulta fondato.

L’art. 16 DPR 25 ottobre 1981 n. 761, per quanto in questa sede interessa, prevede che <con decreto del questore è costituito, in ogni provincia, il consiglio di disciplina composto: a) dal vice questore con funzioni vicarie che lo convoca e lo presiede;
b) da due funzionari del ruolo direttivo della Polizia di Stato;
c) da due appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato di qualifica superiore a quella dell'incolpato, designati di volta in volta dai sindacati di polizia più rappresentativi sul piano provinciale. Un funzionario del ruolo direttivo della Polizia di Stato funge da segretario. I membri di cui alla lettera b) durano in carica un anno. Con le stesse modalità si procede alla nomina di un pari numero di supplenti per i membri di cui alla lettera b)>.

Nel caso in esame, invece, la Commissione di disciplina che ha adottato la proposta di destituzione è stata <appositamente>
nominata ai fini del procedimento a carico del S e risulta presieduta da un <dirigente>
privo della qualifica di <vicario del Questore>
e da un componente (Amato) neppure compreso tra i supplenti che annualmente debbono essere scelti tra i funzionari del ruolo direttivo.

La dedotta violazione di carattere formale circa la composizione della Commissione consultiva di cui all’art. 15 del D.P.R. n. 737 del 1981 risulta quindi fondata (per una fattispecie analoga, cfr. TAR Marche 10 ottobre 2007 n. 1594).

2-Altrettanto fondato risulta il quarto motivo;
dalla piana lettura degli atti impugnati e, in particolare, del parere della Commissione di disciplina emerge chiaramente che l’Amministrazione, ai fini della ricostruzione dei fatti e dell’individuazione delle responsabilità dagli stessi derivanti, ha acriticamente fatto proprie le conclusioni cui era pervenuta la Corte di Appello la quale aveva giudicato il sig. S colpevole per i reati di corruzione e rivelazione di segreto di ufficio.

La Commissione non ha invece adeguatamente valorizzato la circostanza che tale sentenza è stata successivamente annullata dalla Corte di Cassazione sia pure per intervenuta prescrizione.

A tal proposito il Collegio ritiene di dover preliminarmente ricordare che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione per discostarsi, nel procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti, l’Amministrazione è titolare di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dei fatti addebitati al dipendente, circa il convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente sanzione da infliggere: ciò in considerazione degli interessi pubblici che devono essere attraverso tale procedimento tutelati.

A ciò consegue che il provvedimento disciplinare sfugge ad un pieno sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, non potendo in nessun caso quest’ultimo sostituire le proprie valutazione a quelle operate dall’Amministrazione, salvo che le valutazioni siano inficiate da travisamento dei fatti ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente (cfr., ex pluribus, Cons. Stato, Sez. VI 14 febbraio 2008 n. 512, Sez. IV, 21 agosto 2006 n. 4841, 30 giugno 2005 n. 3544 e 16 gennaio 1990 n. 21) ovvero sia inficiato da palese irrazionalità (cfr. Cons. Stato, Sez. IV 30 gennaio 2005 n. 3544)

Sul piano normativo, non va sottaciuto che l’art. 653, primo comma, c.p.p., nel testo emendato dall’art. 1 della legge n. 97 del 2001, afferma che <la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle Pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso>.

Ciò significa che una questione disciplinare non può essere posta soltanto quando, in sede penale, abbia avuto luogo un proscioglimento con formula ampia, cioè quando i fatti esaminati nella sentenza penale sono definiti come storicamente inesistenti oppure la sentenza ricostruisce la condotta materiale o l’elemento psicologico in modo tale da collocare con sicurezza gli episodi esaminati al di fuori delle fattispecie disciplinari.

Lo stesso non può dirsi nel caso in cui si verta su fatti oggetto di procedimenti penali archiviati, in quanto il decreto di archiviazione esprime sì valutazioni afferenti al profilo penale, ma ciò non ne preclude l’apprezzamento in sede disciplinare (cfr. Cons. Stato, Sez. VI 5 dicembre 2005 n. 6944).

L’Amministrazione, quindi, ben può attivare un procedimento disciplinare nei confronti del proprio dipendente laddove il relativo processo penale si sia concluso con sentenza dichiarativa di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 giugno 2000 n. 3156).

In tale ultima ipotesi, tuttavia, <l’accertamento amministrativo>
deve avvenire in maniera del tutto autonoma rispetto alle risultanze penali, procedendo, in particolare, alla cognizione del fatto, alla sua qualificazione ed alla determinazione della sanzione disciplinare (cfr., ex multis, T.A.R. Lazio, Sez. II, 20 ottobre 2004 n. 12431).

Orbene, bella fattispecie, come sopra accennato, l’Amministrazione procedente non ha affatto compiuto tale autonomo accertamento e si è limitata ad acriticamente recepire le risultanze processuali acquisite nel giudizio penale .

3-Altrwettanto fondato è il primo motivo da esaminare, per la parte che qui rileva, con la restante parte del quarto motivo.

Nel procedimento disciplinare conseguente a condanna penale o provvedimento definito di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati, anche in presenza di non contestazione dei fatti, l’amministrazione datrice di lavoro, in coerenza con la legge 19/1990 è tenuta a prendere in considerazione, per non ricadere nell’automatismo sanzionatorio non più consentito, la possibilità di riassumere il dipendente destituito o sospeso, all’uopo valutando non l’astratta natura del reato commesso, bensì la sua obiettiva gravità (ossia l’allarme sociale provocato e gli indizi di pericolosità che l’hanno caratterizzato), le pene accessorie e le misure di sicurezza eventualmente adottate e la loro entità, la complessiva personalità e la successiva condotta del reo, il di lui recupero morale in relazione al tempo trascorso dalla commissione del reato (Cfr. Cons. Stato V 26 marzo 1999, n.341, 29 novembre .1995 n.1656).

Certamente, quindi, tra le circostanze delle quali l’amministrazione (e il giudice chiamato a sindacarne l’operato) deve tenere in conto vi sono la personalità del reo, il recupero morale del medesimo, il tempo effettivamente trascorso dalla commissione del reato, in quanto, se è vero che da un lato il procedimento disciplinare non può essere attivato prima della conclusione di quello penale, dall’altro lato il lungo tempo trascorso determina il venire meno dell’interesse sociale (e di quello dell’amministrazione datrice di lavoro) alla sanzione.

Né può affermarsi che il giudice amministrativo non sia in grado di sindacare la proporzione della adottata sanzione.

La proporzionalità in materia sanzionatoria è principio generale di giustizia sostanziale, dovendo sempre sussistere una proporzione tra fatto contestato e misura della sanzione inflitta (Cfr. Cons. Stato VI Sez. 24 aprile 2009 n. 2637).

Orbene, nessuna di tali valutazioni è stata compiuta nella fattispecie sicché la sanzione più grave rappresentata dalla <destituzione>, peraltro con effetto retroattivo,a tacer d’altro, è stata comminata a distanza di 9 anni di distanza dai fatti ascritti, senza tener conto che ben poco era residuato dall’originaria imputazione, e ( ciò che più rileva) mostrando di ignorare il fatto che ormai da anni l’interessato non è più nella possibilità di in qualche modo nuocere all’Amministrazione in quanto collocato a riposo per inidoneità fisica.

4-Da tutto quanto sopra consegue inevitabilmente l’annullamento dell’impugnato provvedimento di destituzione senza che neppure occorra prendere in esame le ulteriore doglianze formulate in ricorso.

5- Resta da esaminare la domanda del ricorrente di condanna dell’Amministrazione alla "restitutio in integrum" prevista dall'articolo 96 del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, rientrando lo stesso nell'ipotesi in cui il dipendente sia stato prima sottoposto a misura restrittiva della libertà personale, da parte dell'autorità giudiziaria, con conseguente sospensione cautelare obbligatoria dal servizio e, successivamente, sia stato sospeso cautelarmente dal servizio in via facoltativa, da parte dell’Amministrazione, senza però subire, al termine dei relativi procedimenti, né una condanna in sede penale, né l'irrogazione di una sanzione disciplinare.

In proposito ritiene il Collegio che non sussistano ragioni per discostarsi dall'ampio orientamento giurisprudenziale secondo cui la menzionata "restitutio in integrum" spetta per tutto il periodo di sospensione cautelare sofferto dal dipendente, in quanto la misura cautelare per sua natura produce effetti interinali fino a quando non intervenga un provvedimento definitivo che risulti idoneo a regolare stabilmente il rapporto tra amministrazione e dipendente, ossia un provvedimento che si concretizzi nella eventuale sanzione adottata in esito al procedimento disciplinare (Cons. Stato, Ad. Plen. 16 giugno 1999, n. 15;
Sez. VI, 3 luglio 2001, n. 3659).

Pertanto, ove quest'ultimo procedimento si concluda con una sanzione che non comporti una sospensione del rapporto, ovvero non giunga a conclusione copn un provvedimento inoppugnabile, come avvenuto nel caso particolare ora in esame, non possono ravvisarsi motivi per negare la piena reintegrazione, nonostante la mancata prestazione del servizio (Cfr. Cons. Stato IV Sez. 30 giugno 2005 n. 3508)..

Né può assumere rilevanza, in tale prospettiva, che lo stato di detenzione in cui si sia trovato il dipendente abbia in concreto impedito la realizzazione del rapporto sinallagmatico intercorrente tra la prestazione lavorativa e il pagamento della retribuzione, atteso che il meccanismo della "restitutio in integrum" è specificamente preordinato allo scopo di assicurare la retribuzione proprio in mancanza della prestazione lavorativa, ove il procedimento penale si sia concluso con una sentenza assolutoria, ovvero la sospensione del rapporto lavorativo non abbia trovato adeguato supporto in un provvedimento disciplinare instaurato a seguito della definizione del procedimento penale.

6-La stessa natura della controversia giustifica pienamente la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

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