TAR Napoli, sez. VI, sentenza 2020-06-03, n. 202002170

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Napoli, sez. VI, sentenza 2020-06-03, n. 202002170
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Napoli
Numero : 202002170
Data del deposito : 3 giugno 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 03/06/2020

N. 02170/2020 REG.PROV.COLL.

N. 02126/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2126 del 2015, proposto da
K S, rappresentato e difeso dall'avvocato Ivana Nicolo', domiciliato presso la T.A.R. Campania - Napoli Segreteria in Napoli, piazza Municipio, 64;

contro

Questura di Napoli, Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvoc.Distrett.Stato Napoli, domiciliataria ex lege in Napoli, via Diaz, 11;

per l'annullamento

del decreto prot.392 del 26 gennaio 2015 notificato il 2.3.15 con il quale il Questore di Napoli ha rigettato il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo;


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Questura di Napoli e di Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 84 comma 5 del D.L. 18/2020;

Relatore nell'udienza smaltimento da remoto del giorno 27 maggio 2020 il dott. P P;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO





Il ricorrente impugna il decreto in data 2.8.2015 con cui la Questura di Napoli ha respinto la sua istanza di rinnovo di permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo (commercio al dettaglio ambulante chincaglieria).

Le ragioni del diniego esternate nel provvedimento sono collegate principalmente alla sentenza di

condanna a carico del ricorrente in data 10.4.2013 del Tribunale di Napoli, divenuta irrevocabile il 20.7.2013, per i reati previsti e puniti dall’art. 474 c.p. (commercio di prodotti con segni falsi, in specie occhiali contraffatti) e 678 c.p. (ricettazione), con pena di mesi cinque e 250,00 euro di multa. Trattasi in particolare di reati per i quali l’articolo 4 comma 3 e l’articolo 26 comma 7 bis del decreto legislativo 286/98 non consentono rilasci o rinnovi di titoli di soggiorno. Nel decreto impugnato si riferisce inoltre di un vano tentativo di notificare l’avviso di avvio del procedimento, alla luce della riscontrata assenza dello straniero all’indirizzo dichiarato, ragion per cui tale situazione di irreperibilità viene anch’essa posta a sostegno del diniego, in relazione alle previsioni di cui all’art. 6 comma 8 del citato decreto legislativo 286/98.

Nel gravame si deducono vizi di istruttoria e di motivazione, sia per l’assenza di reali e di ripetuti controlli mirati a verificare la presunta irreperibilità, sia per l’erroneo rilievo ex se ostativo dato all’unico precedente penale –di lieve entità- in cui è incorso il ricorrente, senza alcuna valutazione in concreto della personalità del richiedente e della sua situazione familiare, tanto più nei casi -come nel caso di specie- di pregressa lunga permanenza in Italia.

Si è costituita in giudizio l’Avvocatura Distrettuale dello Stato con memoria di pura forma.

Alla camera di consiglio del 13.5.2015 è stata respinta l’istanza incidentale di sospensione, mentre nel corso dell’udienza di smaltimento da remoto del 27.5.20, la causa è stata trattenuta in decisione.

Il ricorso non può trovare accoglimento.

Come già osservato in sede cautelare, “la condanna riportata dal ricorrente (per artt. 474 c.p. e 648 c.p.) è da ritenersi ostativa al rilascio del titolo di soggiorno, richiesto per motivi di lavoro autonomo (ex art. 26 del d. lgs 286/1998)”;
ora, non ignora il Collegio le evoluzioni giurisprudenziali che hanno condotto il giudice amministrativo ad una interpretazione orientata della norma, evitando automatismi preclusivi di tipo sistematico in assenza di un vaglio mirato ad accertare l’effettiva pericolosità sociale dello straniero destinatario del diniego di soggiorno. Ciò non di meno tali ponderazioni non devono intendersi quali fattori mirati a dequotare la gravità del reato che il legislatore ha a chiare lettere voluto evidenziare (cfr. anche art. 4 comma 3 decreto legislativo 286/98). Ed invero la commissione di reati collegati alla contraffazione di marchi assumono un connotato di tutto rilievo all’interno di una domanda di permesso di soggiorno per lavoro autonomo/commercio ambulante, afferendo direttamente all’attività lavorativa che il ricorrente fa valere, proprio a sostegno della sua richiesta di permanenza sul territorio nazionale;
in buona sostanza, il permesso richiesto potrebbe ragionevolmente finire per costituire lo strumento illecito (più che una mera occasione) per attuare la peculiare ipotesi criminosa da scongiurare. Per evitare applicazioni rigorose è in buona sostanza necessario che lo straniero –già nella sede procedimentale e non solo quando gli esiti dell’istanza volgono al peggio, ovvero dopo aver incassato il diniego invocando autotutela- faccia presente e dimostri con lealtà collaborativa situazioni familiari connotate da delicatezza, radicamenti sul territorio di tipo sociale lavorativo oltreché affettivo (senza riguardo ex se al mero dato temporale di permanenza in Italia) e comportamenti virtuosi non limitati ovviamente al non essere stato intercettato nel tempo a commettere malaffare;
quanto sopra, infine, senza mai trascurare ogni diligenza necessaria nel garantire alle Autorità una reperibilità effettiva e non difficoltosa, secondo criteri che saranno meglio puntualizzati infra.

In assenza di tali indici rilevatori, la PA di polizia è chiamata ad applicare le disposizioni di legge che impediscono il rilascio e/o il rinnovo di titoli di soggiorno per lavoro autonomo, nell’acclarata presenza di condanne collegate alla contraffazione.

Nel caso di specie il ricorrente –né nella sede procedimentale né in quella processuale- ha evidenziato e dimostrato alcun legame in grado di condizionare l’unità familiare con il suo rientro in Patria (ha solo riferito di essersi unito sentimentalmente ad una cittadina bulgara). Né sono stati allegati altri fatti e circostanze di particolare rilievo in grado di determinare l’amministrazione ad una ragionata attenuazione applicativa del delineato principio di legge.

Anche la presunta tenuità del fatto che ha dato origine alla condanna (sul quale il ricorrente ha insistito) va comunque valutata pur sempre all’interno della tipologia illecita in questione, che non esclude affatto piccoli episodi (a volte ripetuti, anche se non sempre intercettati, al di là del caso di specie), collegati alla vendita ambulante di prodotti contraffatti.

Quanto alla reperibilità –alla quale prima si accennava nel quadro delle diligenze sempre richieste allo straniero, a maggior ragione per evitare automatismi espulsivi legati a condanne ex lege ostative- il ricorrente tantomeno ha dato segnali di pronta collaborazione, visto che nella motivazione del provvedimento impugnato l’amministrazione ha rilevato l’impossibilità di notificargli l’avviso di avvio del procedimento non avendolo trovato al suo indirizzo dichiarato. Circostanza che ha condotto la PA procedente –ad ulteriore sostegno del diniego- a contestare all’interessato anche la violazione delle regole che impongono il rispetto di effettività del domicilio dichiarato.

Sul punto lo stesso ricorrente ha addirittura azionato il principale motivo di gravame, lamentandosi del fatto che la Questura si sarebbe limitata ad un solo sopralluogo senza approfondire le ricerche. In particolare egli ha eccepito di essere in possesso di “regolare carta di identità”, precisando che per “…dichiarare la irreperibilità di un soggetto è necessario rispettare tutti i criteri e le guarentigie previste dall’art. 4 legge 1228/1954 e dagli artt. 15 e 19 del regolamento anagrafico, ovvero bisogna recarsi più di una volta sul luogo eletto quale propria residenza ed eventualmente chiedere notizie ai vicini. Altresì verificare presso l’ufficio anagrafe le eventuali variazioni anagrafiche”.

Il collegio non condivide tali affermazioni, che confondono la procedura mirata a dichiarare la formale irreperibilità di un soggetto (per la sua conseguente cancellazione dalle liste anagrafiche), con la diversa attività ordinaria delle amministrazioni che hanno necessità di contattare il cittadino extracomunitario per comunicazioni o verifiche che lo riguardano. Ed all’interno di detta ultima fattispecie occorre ulteriormente distinguere le ipotesi del controllo logistico-comportamentale, rispetto alle ipotesi del contatto di garanzia posto in essere nell’interesse dello straniero stesso.

Ora, fa parte della sopra richiamata diligenza dello straniero –a maggior ragione durante la pendenza di una domanda di permesso ed ancor più in presenza di elementi “critici” al vaglio della PA di polizia- agevolare la sua rintracciabilità per ogni esigenza comunicativa, oltre che di controllo, delle autorità preposte. Più in particolare –secondo principi logici prima ancora che giuridici- non può ammettersi che nei casi in cui intenda assicurare garanzie partecipative nel procedimento, la Questura debba esperire faticosi protocolli riservati alla declaratoria di cancellazione dalle liste di anagrafe, impegnando ad oltranza personale anche della polizia municipale, a discapito degli altri fondamentali servizi di sicurezza pubblica.

Tale diligenza dovrebbe essere poi rinforzata –e non attenuata- nel caso di straniero impegnato in modo itinerante nel lavoro autonomo;
in questo senso servirebbero accorgimenti mirati a facilitare gli agenti che dovessero recarsi (vanamente) nel luogo di domicilio, ad esempio attraverso l’indicazione sul citofono di recapiti alternativi, in grado di assicurare collegamenti immediati con l’Autorità, sia per dare spiegazioni, sia per assicurare ravvicinate disponibilità di presenza. Non sono quindi in alcun modo da avallare atteggiamenti passivi dello straniero impegnato nel lavoro itinerante, che pretenda di essere sempre giustificato per sopralluoghi domiciliari senza esito da parte dell’Autorità, esigendo per di più da quest’ultima un attivismo insistito e dispendioso per garantirgli la conoscenza di atti di suo interesse.

Dette considerazioni –torna a ripetersi- restano ancora più rinforzate nel caso di straniero in giro sul territorio nazionale con domanda di rinnovo pendente (e quindi con titolo di soggiorno scaduto) e per di più con criticità istruttorie che potrebbero ragionevolmente determinare l’amministrazione verso un preavviso di diniego con conseguenti problematiche di notifica.

Proprio come nel caso di specie, ove il ricorrente –destinatario di una sentenza di condanna per reato “ostativo”- ha atteso il riscontro della Questura alla sua domanda di rinnovo senza adottare alcuna previa diligenza nel rendersi reperibile, salvo poi lamentare a carico dell’Autorità (che lo cercava per consentirgli il contraddittorio) il mancato esperimento di non pertinenti protocolli e procedure di ricerca.

In conclusione il ricorso va respinto.

Sussistono ragioni per compensare le spese di lite.



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