TAR Roma, sez. II, sentenza 2015-01-13, n. 201500429
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Testo completo
N. 00429/2015 REG.PROV.COLL.
N. 08328/2002 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8328 del 2002, proposto da:
B S, rappresentato e difeso dall'avv. A F, con domicilio eletto presso il medesimo, in Roma, Via Giambattista Vico, 22;
contro
Ministero dell'Economia e delle Finanze - Comando Generale Guardia di Finanza – Roma – Centro Reclutamento Guardia di Finanza, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, e presso la stessa domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del d.m. 16 aprile 2002, successivamente notificato, tramite il quale era inflitta la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione ai sensi degli artt. 70 n. 4 e 71 della l. n. 113/54;
di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale ed, in particolare: - del foglio n. 299177/P/4^ del 10 ottobre 2001, con cui era avviata l’inchiesta formale disciplinare;
- del rapporto finale n. 40170/P del 24 novembre 2001, con cui era proposto il deferimento al giudizio del Consiglio di disciplina;
- del foglio in data 28 novembre 2001, con cui il Comandante Interregionale dell’Italia Nord Occidentale esprimeva parere conforme in ordine alla proposta dell’Ufficiale inquirente;
- dell’ordine di deferimento alla Commissione di disciplina del 17 gennaio 2002;
- del verbale della seduta del Consiglio di disciplina del 28 febbraio 2002;
- della relazione n. 124211/P/4^ dell’8 aprile 2002 con cui era proposta l’irrogazione della sanzione della perdita del grado per rimozione;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 dicembre 2014 il Consigliere Solveig Cogliani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso indicato in epigrafe, l’istante, appartenente alla Guardia di finanza, nel 1992 con il grado di tenente colonnello, con funzione di comandante del III Gruppo di Sezioni del Nucleo Regionale di Polizia tributaria di Milano, premesso di essersi congedato dal servizio il 29 dicembre 1998 – esposti i fatti che avevano condotto alla condanna penale, a seguito di patteggiamento, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2001, per il reato di concorso in corruzione - riferiva che, con nota del 19 ottobre 2001, gli era contestato specifico addebito in relazione alla violazione dei doveri d’ufficio;di tal ché si doleva del fatto che – nonostante le giustificazioni - era avviato nei suoi confronti il procedimento disciplinare per l’irrogazione della sanzione di stato della perdita del grado per rimozione. Esponeva, ancora, che in data 28 febbraio 2002 il Consiglio di disciplina esprimeva giudizio di “non meritevolezza” a conservare il grado ed il Comandante Generale, e che, successivamente, dunque, proponeva di irrogare la sanzione della “perdita del grado per rimozione”.
Con il decreto indicato in epigrafe, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, infliggeva la sanzione.
Avverso tale atto l’istante deduceva, con un unico articolato motivo, i seguenti profili di illegittimità: violazione dell’art. 3, l. n. 241 del 1990, la falsa applicazione della l. n. 97 del 2001, nonché dell’art. 87, l. n. 113 del 1954 e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità ed ingiustizia manifesta, in quanto l’Amministrazione avrebbe fondato la propria decisione sulla base di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, considerandola, alla luce del novellato art. 445 c.p.p., completamente equiparata ad una sentenza di condanna.
Con i successivi motivi aggiunti (notificati in data 16 dicembre 2002), la parte istante deduceva ulteriori motivi alla luce della documentazione prodotta in atti:
- violazione dell’art. 3, l. n. 241 del 1990, per non aver l’Amministrazione valutato le argomentazioni svolte dal ricorrente;
- violazione della citata norma, e eccesso di potere per difetto di istruttoria ed illogicità, nonché violazione dell’art. 81, comma 5, l. n. 113 del 1954 per la valutazione negativa della circostanza che il ricorrente si era avvalso della facoltà di non rispondere nell’ambito del procedimento penale e per l’illegittima composizione del Consiglio di disciplina, poiché presieduto da un Generale di Divisione in violazione dell’art. 81, comma 5, l. n. 113 del 1954;
- violazione ulteriore dell’art. 87, comma 10, l. n. 113 del 1954, estesa con varianti alla Guardia di finanza dall’art. 1, l. n. 1089 del 1959 perché la votazione della Commissione di disciplina - contrariamente a quanto prescritto - della Commissione di disciplina si svolgeva in forma orale e palese.
Si costituiva l’Amministrazione per resistere al gravame.
Con ulteriore memoria, il Ministero resistente precisava che l’irrogazione della sanzione avveniva a seguito di specifica istruttoria, nonché precisava che l’art. 38 bis, d.lgs. n. 69 del 2001 espressamente prevede che “il presidente del Consiglio di disciplina non possa essere di grado inferiore a generale di divisione qualora il giudicato sia un colonnello ovvero a generale di corpo d’armata quando l’ufficiale deferito sia un generale …” (comma 2).
Da ultimo, controdeduceva che la segretezza della votazione compiuta dall’organo collegiale avrebbe esclusivamente efficacia esterna alla Commissione medesima.
A seguito di ulteriori memorie, la causa era trattenuta in decisione all’udienza del 9 dicembre 2014.
DIRITTO
I - Osserva il Collegio che oggetto del presente giudizio è la legittimità della sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione, sia pur successivamente al congedo dal servizio.
La giurisprudenza è pacifica nell’affermare con riferimento ai limiti dell’efficacia di giudicato della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 445 c.p.p., nell’ambito dei giudizi disciplinari vertenti sui medesimi fatti illeciti, che a norma di quanto disposto dagli artt. 445, comma 1 bis, c.p.p., la sentenza di “patteggiamento” ha efficacia di giudicato nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato l'ha commesso;per contro, tale sentenza non ha alcuna efficacia nel procedimento disciplinare in ordine alla valutazione dei fatti ed alla personalità dell'attore dell'illecito (cfr. Cass., Sez. Un., n. 18701 del 2012).
Nella specie non risultano smentiti i fatti posti a base della condanna penale, né la responsabilità dell’interessato.
Dalla documentazione in atti, emerge ulteriormente – di contro a quanto dedotto dall’istante – che l’Amministrazione ha svolto una specifica istruttoria ed un’autonoma valutazione della condotta dell’interessato in ordine alla non meritevolezza nell’ambito dell’inchiesta formale e ciò risulta espressamente dalla motivazione (cfr. il rapporto finale e processo verbale della seduta 28 febbraio 2002 del Consiglio di disciplina, allegati in atti).
II - Da quanto sin qui rilevato deriva, ancora, l’infondatezza delle censure tese a contestare la congruità della motivazione e l’adeguatezza e proporzione della sanzione applicata.
Deve rilevarsi – concordemente a quanto rilevato dall’Amministrazione -, peraltro, che l'autonomia del procedimento disciplinare si manifesta in una discrezionalità amministrativa, la cui sindacabilità appare limitata a casi particolari – quali le ipotesi di contraddittorietà, illogicità e travisamento dei fatti - come costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato 25 Marzo 1996 sez. IV).
III – Con riguardo alla censura di composizione dell’organo di disciplina, non può che richiamarsi la disposizione normativa, come evidenziata in fatto;ne deriva che il motivo non è fondato.
IV – Infine, relativamente alla disposizione che impone la segretezza del voto, il Consiglio di Stato, (cfr. sez. IV, sentenza 31.01.2006 n° 339) ha avuto modo di affermare, tuttavia su un piano generale - che le deliberazioni degli organi collegiali concernenti persone debbono essere di norma adottate a voti segreti e che tale principio deve essere osservato, in mancanza di diversa espressa previsione normativa, tutte le volte che l’Amministrazione deve esercitare facoltà discrezionali le quali hanno per presupposto l’apprezzamento e la valutazione delle qualità e degli atti di una persona. Infatti, la segretezza del voto - espressamente stabilita dall’antico art. 298 t.u. com. prov. 1915 - costituisce un principio generale (posto a garanzia della indipendenza e della libertà di coscienza dei componenti i collegi amministrativi), il quale, nelle sole ipotesi in cui l’oggetto della deliberazione investa persone, prevale sulla regola del voto palese, ispirata al diverso principio della trasparenza amministrativa.
Tuttavia, nella fattispecie che occupa, dalla lettura del verbale del Consiglio di disciplina, emerge che nessun elemento a favore del ricorrente era risultato sia dalla lettura degli atti processuali, sia dagli atti del procedimento disciplinare, con la conseguenza che il risultato della votazione – di cui formalmente si riporta l’esito finale, a tutela del principio sin qui affermato della segretezza del giudizio – non poteva che conseguire necessariamente in senso negativo.
Se, dunque, non può che condividersi l’interpretazione seguita dal Consiglio di Stato, quale espressione di maggiore garanzia per il soggetto sottoposto all’inchiesta, nell’applicazione concreta, non può che aversi riguardo al caso specifico, sicchè, laddove la convergenza delle posizioni porti ad un’unica soluzione, peraltro adottata all’unanimità, consegue necessariamente che il rispetto del predetto canone assuma una veste esclusivamente formale. Ciò, in vero, perché sostanzialmente si incrinano i margini di discrezionalità della decisione, a cui evidentemente fa riferimento l’argomento ermeneutico del Consiglio di Stato nella pronunzia richiamata.
Ne deriva che la censura non può essere condivisa, proprio alla luce delle risultanze e delle motivazioni espresse nel verbale del Consiglio di disciplina gravato.
V – Per le considerazioni sin qui evidenziate, il ricorso ed i successivi motivi aggiunti devono essere respinti.
La particolarità della fattispecie, tuttavia, giustifica la compensazione delle spese tra le parti.