TAR Roma, sez. I, sentenza 2016-02-26, n. 201602668

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. I, sentenza 2016-02-26, n. 201602668
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201602668
Data del deposito : 26 febbraio 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 09816/2015 REG.RIC.

N. 02668/2016 REG.PROV.COLL.

N. 09816/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9816 del 2015, proposto da:
M.E.I.S. Elettromeccanica S.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. M C, A G e A Z, con domicilio eletto presso il secondo in Roma, Via del Plebiscito 112;

contro

- Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - Antitrust, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domicilia in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
- Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell'Economia e delle Finanze;
- Trenitalia Spa;

nei confronti di

Firema Trasporti S.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. Carlo Malinconico e Stefano Malinconico, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 284;

per l'annullamento, previa sospensiva,

- del provvedimento n. 25488 (I-759 Forniture Trenitalia), adottato dall’Autorità il 27 maggio 2015 e notificato a mezzo PEC in data 12 giugno 2015, pubblicato sul bollettino dell’Autorità n. 21 del 15 giugno 2015, con cui MEIS è stata ritenuta responsabile insieme ad altre società di aver “posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza contraria all’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), consistente in un’unica e complessa pratica concordata continuata nel tempo volta a distorcere fortemente i meccanismi di confronto concorrenziale in occasione di ventiquattro procedure pubbliche indette dalla stazione appaltante Trenitalia S.p.a. per l’approvvigionamento di beni e servizi elettromeccanici ad uso ferroviario” ed è stata condannata al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di € 403.878,30 e ad astenersi dal porre in essere comportamenti analoghi a quelli contestati;

- dell’atto di avvio del procedimento del 5 febbraio 2014, dei provvedimenti del 16 aprile 2014 e del 24 settembre 2014, che hanno esteso soggettivamente il procedimento, dei provvedimenti del 12 novembre 2014 e del 19 dicembre 2014 che hanno esteso oggettivamente il procedimento;

- della Comunicazione delle risultanze istruttorie inviata a MEIS a mezzo PEC il 3 marzo 2015;

- del provvedimento n. 25152 del 22 ottobre 2014 di adozione delle Linee Guida sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità, pubblicato nel Bollettino n. 42 del 3 novembre 2014;

- del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1998, n. 217, recante il “Regolamento in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”,

- di ogni altro atto annesso, connesso, presupposto e consequenziale, ancorchè non conosciuto

nonché, in subordine

per la riduzione della sanzione irrogata a MEIS e con ogni ulteriore e consequenziale statuizione.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - Antitrust e di Firema Trasporti Spa in a.s., con la relativa documentazione;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 27 gennaio 2016 il dott. I C e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

In seguito all’acquisizione presso gli Uffici della Procura della Repubblica di Firenze nonché presso quelli della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) in data 5 febbraio 2014 avviava un’istruttoria, ai sensi dell’art. 14 l. n. 287/90, volta ad accertare eventuali violazioni dell’art. 2 l. cit. o dell’art. 101 TFUE relativamente a condotte, poste in essere dai principali operatori del mercato della fornitura di beni e servizi elettromeccanici per il comparto ferroviario, suscettibili di integrare una fattispecie di intesa restrittiva della concorrenza. Successivamente, nel corso del 2014, il procedimento era esteso anche ad altri soggetti.

Comunicate le risultanze istruttorie in data 3 marzo 2015 ed esaminate le memorie conclusive delle Parti, di alcune delle quali era anche effettuata l’audizione finale, l’AGCM adottava il provvedimento finale con il quale, accertata l’esistenza della violazione dell’art. 101 TFUE per via della costituzione di un’intesa orizzontale di natura segreta e restrittiva per oggetto, attuata in tutto il territorio nazionale, tra le principali (quasi esclusive) imprese fornitrici della stazione appaltante Trenitalia S.p.a. (Trenitalia) in relazione a beni e servizi interessati dalle procedure di gara esaminate in istruttoria, nella forma della pratica concordata nel quadriennio 2008-2011, disponeva nei confronti delle varie Parti indicate, tra cui la M.E.I.S. Elettromeccanica s.r.l. (M), l’astensione in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata nonché sanzioni amministrativi pecuniarie di vario importo, tra cui quello nei confronti della Piaggio pari ad € 403.878,30.

In particolare, l’Autorità evidenziava di aver accertato, nel corso dell’istruttoria, che l’intesa in questione era consistita in gravi restrizioni della concorrenza derivanti dall’alterazione dei fisiologici meccanismi di mercato e del corretto confronto competitivo, mediante importanti condizionamenti reciproci alle singole politiche commerciali e di posizionamento strategico dei membri del cartello, con ripartizione del mercato in relazione alle diverse possibili commesse di Trenitalia, tramite accordi funzionali a disciplinare non soltanto le offerte dell’aggiudicatario designato ma anche quelle – artificialmente maggiori – degli altri partecipanti non designati, che risultavano così di mera “copertura”. Erano stati – a riprova – individuati continui e sistematici contatti tra le Parti, anche tramite mezzi di comunicazione a distanza, che consentivano di predisporre e aggiornare la relativa contabilità “di cartello”, incentrata sul sistema dei “debiti/crediti”, il cui computo ricomprendeva anche le compensazioni realizzate tramite sub-forniture o altri simili strumenti. Gli accordi “di cartello” in questione, per l’Autorità, erano risultati idonei a produrre effetti nella forma di un artificioso innalzamento dei prezzi delle prestazioni da rendere alla stazione appaltante, con uno scarso consequenziale incentivo a ottimizzare l’efficienza delle stesse, come confermato dalla circostanza per la quale, al cessare delle condotte collusive (coincidente, di fatto, con l’avvenuta conoscenza da parte delle imprese delle indagini penali a loro carico), Trenitalia aveva stimato una considerevole riduzione dei prezzi di acquisto, nell’ordine medio del 25%.

Con ricorso a questo Tribunale, ritualmente notificato e depositato, M chiedeva l’annullamento, previa sospensiva, di tale provvedimento nonché degli altri indicati in epigrafe, lamentando, in sintesi, quanto segue.

I. Violazione e falsa applicazione del principio generale della separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie. Violazione e falsa applicazione degli artt. 10, 11, 15 della l. 10 ottobre 1990 n. 287 e dell’art. 6 della CEDU;
Violazione del principio del giusto procedimento amministrativo sanzionatorio. Eccesso di potere in tutte le figure sintomatiche e in particolare travisamento ed erronea valutazione dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità, contraddittorietà, sviamento
”.

Il procedimento da cui aveva tratto origine la sanzione – e il D.P.R. che ne era alla base – aveva violato il principio generale della separazione tra funzioni istruttorie e decisorie e ciò influiva sulla violazione della garanzia del contraddittorio, applicabile anche ai procedimenti dinanzi alle Autorità amministrative indipendenti di tipo “paragiurisdizionale”, per i quali è necessario uno standard garantistico più marcato di quello “ordinario” previsto per i procedimenti amministrativi ai sensi della l. n. 241/90. Nel caso di specie la commistione tra funzioni e competenze istruttorie e decisorie concedeva potere marcato e pervasivo al collegio e impediva all’interessato di svolgere il contraddittorio istruttorio, senza garanzia di un “giusto processo”, anche ai sensi dell’art. 6 CEDU su cui la giurisprudenza della relativa Corte si era già espressa, seppur in relazione a sanzioni della Consob, non potendo rilevare in senso contrario la possibilità di adire l’autorità giudiziaria.

In subordine, la ricorrente rilevava una questione di costituzionalità sugli artt. 10-15 l. n. 287/90 in relazione agli artt. 24 e 117 Cost. o anche la possibilità di disapplicazione in questa sede per contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE, nel testo consolidato dal Trattato di Lisbona del 13.12.2007, come ratificato ed entrato in vigore in Italia.

II. Prescrizione e tardiva contestazione. Violazione e falsa applicazione dell’art. 101 TFUE;
violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990;
violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 28 della l. n. 689/1981;
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare difetto di motivazione, difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, travisamento dei fatti, perplessità, contraddittorietà e illogicità manifesta, sviamento
”.

Nel caso di specie non si era – in realtà – di fronte ad un’unica e protratta condotta antigiuridica ma, semmai, ad una pluralità di illeciti istantanei (tanti quanti le singole gare), autonomi e indipendenti tra loro, con conseguente operatività della prescrizione quinquennale per l’avvio dell’istruttoria – avvenuta nel febbraio 2014 - prevista dalla normativa europea e dalla l. n. 689/81.

Inoltre, l’AGCM aveva, con due distinti provvedimenti, esteso l’oggetto dell’istruttoria ben oltre il termine di prescrizione per due delle tre gare considerate a tal fine, prendendo a riferimento un momento anteriore alla presentazione delle offerte, dato che le due gare vedevano i relativi inviti risalire al 9.9.2008 e al 10.1.2008 con termine per la presentazione delle offerte, per la seconda, al 12.1.2009. In più, ai sensi dell’art. 14 l. n. 287/90, il termine per la notifica della contestazione operava entro novanta giorni dall’accertamento, che nel caso di specie decorreva dall’acquisizione del c.d. “Piccolo Tabellone” in data 7.8.2014.

III. Inutilizzabilità delle risultanze parziali dell’indagine penale e delle intercettazioni. Carenza di istruttoria e illegittimità del modus operandi. Violazione degli artt. 11, 20 e 21 del d.lgs. n. 196/2003. Violazione dell’art. 15 Cost.;
violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo;
violazione dell’art. 101 TFUE e dell’art. 2 l. n. 287/1990 in relazione all’art. 270 del codice di procedura penale”.

La ricorrente evidenziava che l’attività istruttoria dell’Autorità era consistita in buona sostanza nella mera acquisizione della documentazione presente nel fascicolo dell’indagine penale, senza aver svolto autonome ispezioni o valutato elementi autonomamente riscontrati, non potendo a tal fine valere l’audizione infra-procedimentale degli interessati.

Risultava violato anche il principio di riservatezza, ex art. 21 d.lgs. n. 196/03, in assenza di audizione del Garante.

Nei fatti, comunque, la ricostruzione della ritenuta intesa si era fondata unicamente sulle intercettazioni telefoniche di cui al procedimento penale ma il loro utilizzo aveva violato l’art. 270 c.p.p., l’art. 15 Cost. e l’art. 8 CEDU, in quanto inutilizzabili in procedimento diverso, soprattutto in quello “antitrust”, connotato da carattere di afflittività e, come tale, assimilato a quello penale dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

IV. Nullità probatoria delle intercettazioni e delle risultanze parziali dell’indagine penale”. Violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo;
violazione dell’art. 101 TFUE e dell’art. 2 l. n. 287/1990;
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare per carenza di istruttoria, falsità di presupposti e travisamento dei fatti
”.

Le intercettazioni telefoniche utilizzate corrispondevano ai c.d. “brogliacci” redatti da organi di P.G. e non dimostravano credibilità in quanto non valutate nel pieno contesto e nella piena interezza. La stessa normativa del codice penale, infatti, prescrive precise modalità di trascrizione per riconoscere attendibilità a tale materiale probatorio, per cui la caratterizzazione “penale” del procedimento “antitrust” doveva imporre analoghe garanzie anche in questo caso, non avendo le parti avuto pieno accesso a tale materiale probatorio.

V. Inesistenza della pratica concordata. Violazione e falsa applicazione dell’art. 101 TFUE;
Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990;
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare difetto di motivazione, difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, travisamento dei fatti, perplessità, contraddittorietà e illogicità manifesta, sviamento
”.

Per la ricorrente, ricostruendo il ragionamento dell’AGCM posto alla base del provvedimento impugnato, richiamava la giurisprudenza europea e nazionale che aveva definito lo standard probatorio minimo per poter ritenere sussistente un’intesa anticompetitiva sotto forma di pratica concordata e rimarcava che l’AGCM aveva ritenuto un “unicum” ciò che invece era contraddistinto da specificità per ognuna delle 24 gare prese in esame e per cui doveva essere dimostrata la singola concertazione, tenendo anche conto che le gare erano state bandita nella vigenza del Sistema di Qualificazione dei Fornitori (SQF) di Trenitalia, che prendeva in considerazione già un “numero chiuso” di partecipanti.

Sotto tale profilo, i “brogliacci” telefonici e le “e-mail” acquisite in fase istruttoria non erano elementi probatori sufficienti, in quanto privi di conferma da parte di altre evidenze. Gli stessi “Tabelloni” pure presi in considerazione dall’AGCM si riferivano ad un periodo in cui le intercettazioni erano sostanzialmente assenti.

Non era conferente il richiamo ad un precedente giurisprudenziale europeo (c.d. “caso Shrimps”) perché in esso le intercettazioni telefoniche erano comunque ritenute un mero principio di prova, per il quale era necessaria la presenza di altri elementi di riscontro al fine di un utilizzo corretto per provare l’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza.

Lo stesso contenuto dei “Tabelloni”, che l’AGCM aveva considerato come strumento probatorio (non coincidente con le gare relative alle intercettazioni telefoniche) corrispondeva in realtà a informazioni di pubblico dominio relative alle gare e non dimostravano certo l’unicità della condotta ascritta alla ricorrente e alle altre imprese ai fini della sanzionata intesa né che fossero stati predisposti in un momento anteriore allo svolgimento delle gare stesse.

Inoltre, M osservava che vi era per numerose gare discordanza tra i tabelloni in questione e gli esiti delle singole gare e non risultavano provati gli “accordi di varia natura” che l’AGCM invocava per giustificare tali disallineamenti e che avrebbero portato ad integrare le spartizioni mediante sub-appalti, sub-contratti o forniture incrociate di vario tipo, fermo restando che tali tabelloni si fermavano a gare fino al giugno 2010.

Né – infine – risultavano riscontrati i rapporti di “credito/debito” che in essi sarebbero stati rappresentati.

La ricorrente ritornava, poi, a richiamare l’esistenza del SQF utilizzato per la quasi totalità delle gare prese a riferimento e l’impatto che esso determinava sulla partecipazione alle stesse.

Così pure risultava trascurato l’esame sui prezzi delle forniture in relazione al comportamento della stessa Trenitalia nel corso dell’esecuzione dei contratti.

VI. Insussistenza del ruolo di maggior rilievo di M. Violazione e falsa applicazione dell’art. 101 TFUE;
Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. 241/1990;
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare difetto di motivazione, difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, travisamento dei fatti, perplessità, contraddittorietà e illogicità manifesta, sviamento
”.

Erronea si palesava l’attribuzione a M dell’aggravante della “leadership”, con conseguente maggiorazione del 15% dell’importo base. Mancavano infatti i presupposti considerati dalla giurisprudenza europea a tal fine, quali il ruolo fondamentale rispetto a quello delle altre partecipanti all’intesa, il contributo per la partecipazione delle altre imprese al cartello, la presidenza di riunioni, la circolazione di informazioni e la cura, in generale, delle attività di cartello.

Risultava evidenziata in tal senso dall’AGCM la condotta di M rispetto a sole sette gare su ventiquattro ed era assente documentazione che potesse giustificare l’individuazione a suo carico della “leadership” come contestata.

VII. In via subordinata, insussistenza degli elementi distintivi della pratica concordata in relazione al periodo marzo 2008-giugno 2010 e in relazione alle gare sfornite di prova. Violazione e falsa applicazione dell’art. 101 TFUE;
Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990;
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare difetto di motivazione, difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, travisamento dei fatti, perplessità, contraddittorietà e illogicità manifesta, sviamento”
.

Il “cartello” non aveva comunque potuto avere la durata ipotizzata dall’Autorità, in quanto le risultanze di cui al fascicolo penale coprivano il solo periodo giugno 2010-settembre 2011 e i tabelloni erano generici. Ciò doveva indurre a riconsiderare quantomeno il profilo della particolare “gravità” invece riscontrato dall’AGCM, con conseguente rimodulazione della sanzione.

VIII. Sanzioni. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 15 e 31 della l. n. 287/1990;
Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della l. n. 689/1981 e dell’art. 3 della l. n. 241/1990;
Violazione del principio di non discriminazione;
Violazione dei principi di proporzionalità ed adeguatezza della sanzione;
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche e, in particolare, difetto di motivazione, difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, travisamento dei fatti, contraddittorietà e illogicità manifesta, sviamento. In via subordinata, domanda di riduzione della sanzione”.

Illustrando le modalità con le quali l’AGCM era pervenuta all’individuazione delle singole sanzioni, la ricorrente lamentava che non era stata valutata alcuna attenuante nei suoi confronti né la sua effettiva capacità economica.

Fondandosi per la prima volta sulle “Linee Guide” approvate nel 2014, l’AGCM aveva calcolato il dato iniziale sul valore delle vendite dei beni e servizi oggetto dell’infrazione, facendo riferimento agli importi oggetto di aggiudicazione o posti a base d’asta, con ciò pervenendo ad un dato abnorme e contraddittorio se rapportato al fatturato di M negli ultimi due anni di attività.

In realtà l’AGCM doveva valutare la partecipazione alle singole gare in a.t.i. e la relativa ripartizione delle commesse, considerando anche la tipologia di contratti propria del SQF, correlata alle esigenze della stazione appaltante che potevano variare in corso di esecuzione, come da relativa “griglia” fornita in fase istruttoria. Vi era così una diversità tra importo di aggiudicazione e quanto effettivamente fatturato da M a Trenitalia, con conseguente sproporzione della sanzione che si fondava solo sul primo elemento e non sui profitti effettivamente conseguiti dall’impresa.

Inoltre, l’infrazione non poteva ritenersi grave e la sua durata era ben minore da quella ipotizzata dall’Autorità.

In contrasto con l’art. 11 l. 689/81 era poi il punto 12 delle Linee Guida, come applicato, che riteneva applicabile “di regola” una percentuale del valore delle vendite non inferiore al 15%, senza tenere conto delle particolari condizioni economiche contingenti e di concorrenza nel mercato di riferimento, dei risparmi della stazione appaltante e dell’attuazione o meno della pratica illecita.

La ricorrente richiamava anche le precedenti doglianze sull’assenza di sua “leadership” e sull’operatività su sole sette gare su ventiquattro.

Sussistevano, inoltre, varie circostanze attenuanti, quali: le iniziative adottate per mitigare gli effetti della supposta violazione, la collaborazione prestata nel corso dell’istruttoria, il concreto funzionamento del SQF. A ciò doveva aggiungersi l’inesistenza o quantomeno la ridotta capacità contributiva rappresentata dalla ricorrente, ai fini del punto 34 delle Linee Guida, legata alla successione di tre bilanci consecutivi - precedenti a quello del 2014 (in limitatissimo “utile”) - “in perdita”, nonché le conseguenze economiche negative date dalla pendenza dell’indagine penale (escussione di fideiussioni ed esclusioni da gare), che avevano impedito all’azienda nuovi investimenti per opporsi al “trend” negativo.

Si costituiva in giudizio l’Autorità intimata, chiedendo la reiezione del ricorso con tesi sviluppate in una memoria “unica” sull’intero contenzioso in discussione alla camera di consiglio del 2 settembre 2015. In tale occasione la trattazione era rinviata al merito, su istanza di parte.

Si costituiva in giudizio anche la Firema Trasporti Spa in amministrazione straordinaria (Firema), con atto di mera forma.

In prossimità dell’udienza di merito, la ricorrente e l’AGCM depositavano memorie ad ulteriore illustrazione delle proprie tesi (l’Autorità nuovamente in forma “unico” per tutti il contenzioso) e la causa era trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 27 gennaio 2016.

DIRITTO

Il Collegio, preliminarmente, rileva l’inammissibilità della costituzione in giudizio di Firema, sia pure con atto di mera forma non contenente specifiche deduzioni o conclusioni, in quanto la medesima risulta essere “cointeressata” di M nonché autonoma ricorrente in separato giudizio avverso il medesimo provvedimento, in decisione alla medesima udienza di merito.

Passando all’esame del gravame, in relazione al primo motivo di ricorso, il Collegio ritiene che non sussistano elementi di novità idonei a superare quanto da questa Sezione già recentemente precisato in argomento (TAR Lazio, Sez. I, 1.4.15, n. 4943), per cui “la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, pur accogliendo una nozione molto ampia di illecito penale, afferma comunque che la conformità con l’articolo 6 C.E.D.U. non viene meno qualora, in un procedimento di natura amministrativa, una pena sia inflitta da un’autorità amministrativa, purché la decisione di questa “che non soddisfi le condizioni di cui all’articolo 6 § 1 debba subire un controllo a posteriori da un organo giudiziario avente giurisdizione piena”: invero “la natura di un procedimento amministrativo può differire, sotto diversi aspetti, dalla natura di un procedimento penale nel senso stretto della parola”, e se tali differenze non possono esonerare gli Stati contraenti dal loro obbligo di rispettare tutte le garanzie offerte dall’articolo 6, possono tuttavia influenzare le modalità della loro applicazione.”

Nel caso di specie, la ricorrente ha avuto la possibilità di impugnare la sanzione amministrativa in questione dinanzi a questo Tribunale, il quale emette una decisione appellabile dinanzi al Consiglio di Stato e tali organi soddisfano i requisiti di indipendenza e di imparzialità del “giudice” di cui all’articolo 6 della richiamata Convenzione, esercitando, proprio in virtù dell’art. 134, comma 1, lett. c), c.p.a. in materia una piena giurisdizione.

Non si può quindi ipotizzare un contrasto tra l’art. 6 CEDU e l’ordinamento nazionale, ove quest’ultimo comunque stabilisca, avverso una determinata sanzione una tutela giurisdizionale rispettosa dei principi fissati dall’art. 6 cit., come accade per le sanzioni dell’AGCM in materia di “concorrenza”, con consequenziale superamento delle prospettate questioni di costituzionalità e di conformità all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nel testo attualmente in vigore dopo le modifiche di cui al Trattato di Lisbona del 2007 come ratificato ed entrato in vigore in Italia.

Inoltre, nel caso di specie il procedimento si è svolto in due fasi autonome ben distinte, laddove quella istruttoria ha visto l’ampia partecipazione delle parti e si è chiusa con uno specifico documento (la c.d. “CRI);
la fase decisoria pure ha visto l’ampio contraddittorio mediante memorie e audizione delle Parti avanti al Collegio, di cui si è avvalsa anche la ricorrente.

Per quel che riguarda il secondo motivo di ricorso, il Collegio rileva che la durata della condotta sanzionata dall’AGCM parte dal marzo 2008 (gara a procedura negoziata “GPN 5149”, richiamata nel c.d. “Tabellone”, in cui già compare la ricorrente) fino al settembre 2011 (ultime comunicazioni tra la ricorrente e altre due società del “cartello” e concomitanza con la conoscenza delle indagini penali).

Non sono condivisibili le censure di M sulla – ritenuta dovuta - mancata considerazione di tre procedure del 2008, in quanto, come detto, e per quanto riguarda la ricorrente, l’elemento documentale preso a riferimento dall’AGCM e descritto con precisione nel provvedimento impugnato è il “Tabellone” in cui risulta indicazione di M sin dal marzo 2008.

Inoltre, nel caso di specie non può configurarsi – secondo la ricostruzione della ricorrente - una pluralità di illeciti istantanei (tanti quanti erano le gare alterate) ma, per quanto minuziosamente ricostruito dall’AGCM nel provvedimento impugnato, una “complessa e articolata strategia globale, continuata nel tempo, posta in essere dai membri del cartello e tesa a condizionare fortemente l’esito delle predette procedure…in un arco temporale il cui inizio è databile al marzo 2008…e il cui termine è riconducibile almeno al settembre 2011…peraltro in concomitanza con l’emersione dei primi esiti dell’indagine penale”.

Ne consegue che, anche per le evidenze indiziarie coincidenti, nel caso di specie si è dato luogo ad un illecito “permanente”.

In tale quadro, deve applicarsi quanto osservato recentemente dal Consiglio di Stato proprio in punto di illecito permanente, laddove ha evidenziato che ciò che si richiede per la permanenza è la continuità della condotta nel suo rapporto causale con l’evento (Cons. Stato, Sez. VI, 19.1.16, n. 167). Lo stesso Giudice ribadiva il concetto, precisando che: “La continuità che giustifica la qualificazione della condotta in termini di permanenza deve misurarsi in rapporto alla produzione dell’evento, non in relazione alla natura del comportamento in quanto tale: in tanto la condotta potrà dirsi continua in quanto sarà causa permanente dell’offesa. Fino a quando il comportamento dell’agente avrà efficienza produttiva del risultato vietato esso si dirà continuo. Tali conclusioni trovano autorevole conforto in una recente sentenza della Cassazione penale (Cass. Pen. Sez. I, 23 febbraio 2015, n. 7941), la quale, occupandosi proprio al fine di individuare il dies a quo della prescrizione, dei reati permanenti (o, in senso più ampio, dei reati a consumazione prolungata) ha chiarito che nei reati a consumazione prolungata, quali sono per definizione i reati permanenti, la fattispecie è caratterizzata dal fatto che la durata dell’offesa è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell’agente. Nel reato permanente (e nel reato istantaneo a condotta perdurante) si determina, quindi, uno spostamento in avanti della consumazione fino al momento della iniziata realizzazione del reato, in quanto, e fino a quando, la condotta dell’agente “sostenga” concretamente la causazione dell’evento. Del tutto diversa è invece l’ipotesi dell’illecito istantaneo ad evento permanente, nel quale non si ha il protrarsi dell’evento dovuta alla persistente condotta del soggetto agente, ma ciò che perdura nel tempo sono solo le conseguenze dannose del reato”.

Nel caso di specie, dalla descrizione accurata della fattispecie emergente dal provvedimento impugnato, si evince che la condotta è stata persistente fino al 2011 e dal 2008, per cui ben può individuarsi, nella specie, una condotta illecita permanente consistente nella alterazione programmata del confronto concorrenziale.

Il termine per la contestazione, poi, parte dalla conoscenza dei fatti, avvenuta per l’AGCM alla ricezione degli atti dalla Procura della Repubblica di Firenze il 6 novembre 2013 in seguito a notizie di stampa sulle indagini penali, e non dal verificarsi del primo evento (prima condotta illecita del 2008), per cui non risulta alcuna violazione dell’art. 28 l. n. 689/81 e dell’art. 14 l. n. 287/90, nei sensi prospettati dalla ricorrente, in quanto il procedimento istruttorio ha preso avvio il 5 febbraio 2014.

Passando all’esame del terzo e quarto motivo di ricorso, il Collegio non può esimersi dal rilevare che la fase istruttoria non si è fondata unicamente sulle intercettazioni telefoniche ma anche su altri elementi indiziari costituiti da numerose comunicazioni via “e-mail” e, soprattutto, dal riscontro documentale dato dai c.d. “Tabellone” e “Piccolo Tabellone”.

In merito appare opportuno sintetizzare i principi generali cui è pervenuta la giurisprudenza, evidenziando sin da ora che essi devono poi essere calati nel caso concreto all’esame del giudice, data la peculiarità che contraddistingue la fattispecie della pratica anticoncorrenziale, che non può che essere valutata sul singolo caso concreto legato agli elementi indiziari e/o probatori acquisiti dall’Autorità e forniti dalle parti nel procedimento e, dopo, al giudice amministrativo.

Ebbene, da ultimo il Consiglio di Stato e questa Sezione (Sez. VI, 4.9.15, n. 4123 e Tar Lazio, Sez. I, 4.11.15, n. 12416) hanno precisato in argomento che mentre la fattispecie dell’accordo ricorre qualora le imprese abbiano espresso la loro comune volontà di comportarsi sul mercato in un determinato modo, la pratica concordata corrisponde ad una forma di coordinamento fra imprese che, senza essere spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce, in modo consapevole, un’espressa collaborazione fra le stesse per sottrarsi ai rischi della concorrenza. I criteri del coordinamento e della collaborazione, che consentono di definire tale nozione, vanno intesi alla luce dei principi in materia di concorrenza, secondo cui ogni operatore economico deve autonomamente determinare la condotta che intende seguire sul mercato. Pur non escludendo la suddetta esigenza di autonomia il diritto degli operatori economici di reagire intelligentemente al comportamento noto o presunto dei concorrenti, essa vieta però rigorosamente che fra gli operatori abbiano luogo contatti diretti o indiretti aventi per oggetto o per effetto di creare condizioni di concorrenza non corrispondenti alle condizioni normali del mercato. L’intesa restrittiva della concorrenza mediante pratica concordata richiede comportamenti di più imprese, uniformi e paralleli, che costituiscano frutto di concertazione e non di iniziative unilaterali, sicché nella pratica concordata manca, o comunque non è rintracciabile da parte dell’investigatore, un accordo espresso, il che è agevolmente comprensibile, ove si consideri che gli operatori del mercato, ove intendano porre in essere una pratica anticoncorrenziale, ed essendo consapevoli della sua illiceità, tenteranno con ogni mezzo di celarla, evitando accordi scritti o accordi verbali espressi e ricorrendo, invece, a reciproci segnali volti ad addivenire ad una concertazione di fatto. La giurisprudenza, consapevole della rarità dell’acquisizione di una prova piena, ritiene che la prova della pratica concordata, oltre che documentale, possa anche essere indiziaria, purché gli indizi siano gravi, precisi e concordanti. Nella pratica concordata l’esistenza dell’elemento soggettivo della concertazione deve perciò desumersi in via indiziaria da elementi oggettivi, quali:

- la durata, l’uniformità e il parallelismo dei comportamenti;

- l’esistenza di incontri tra le imprese;

- gli impegni, ancorché generici e apparentemente non univoci, di strategie e politiche comuni;

- i segnali e le informative reciproche;

- il successo pratico dei comportamenti, che non potrebbe derivare da iniziative unilaterali, ma solo da condotte concertate.

La giurisprudenza comunitaria e nazionale distingue tra parallelismo naturale e parallelismo artificiosamente indotto da intese anticoncorrenziali, di cui la prima fattispecie da dimostrare sulla base di elementi di prova endogeni, ossia collegati alla stranezza intrinseca delle condotte accertate e alla mancanza di spiegazioni alternative, nel senso che, in una logica di confronto concorrenziale, il comportamento delle imprese sarebbe stato sicuramente o almeno plausibilmente diverso da quello riscontrato, e la seconda sulla base di elementi di prova esogeni, ossia di riscontri esterni circa l’intervento di un’intesa illecita al di là della fisiologica stranezza della condotta in quanto tale. La differenza tra le due fattispecie e correlative tipologie di elementi probatori – endogeni e, rispettivamente esogeni – si riflette sul soggetto, sul quale ricade l’onere della prova: nel primo caso, la prova dell’irrazionalità delle condotte grava sull’Autorità, mentre, nel secondo caso, l’onere probatorio contrario viene spostato in capo all’impresa. In particolare, qualora, a fronte della semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti sul mercato, il ragionamento dell’Autorità sia fondato sulla supposizione che le condotte poste a base dell’ipotesi accusatoria oggetto di contestazione non possano essere spiegate altrimenti se non con una concertazione tra le imprese, a queste ultime basta dimostrare circostanze plausibili che pongano sotto una luce diversa i fatti accertati dall’Autorità e che consentano, così, di dare una diversa spiegazione dei fatti rispetto a quella accolta nell’impugnato provvedimento. Qualora, invece, la prova della concertazione non sia basata sulla semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti, ma dall’istruttoria emerga che le pratiche possano essere stati frutto di una concertazione e di uno scambio di informazioni in concreto tra le imprese, in relazione alle quali vi siano ragionevoli indizi di una pratica concordata anticoncorrenziale, grava sulle imprese l’onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti (sulla ricostruzione della fattispecie delle pratiche concordate anticoncorrenziali, sotto il profilo sostanziale e probatorio, v., per tutte, Cons. St., Sez. VI, 13 maggio 2011, n. 2925, con ampi richiami giurisprudenziali, comunitari e nazionali).

In sostanza, l’esistenza di una pratica concordata, considerata la (estremamente) difficile acquisibilità della prova di un accordo espresso tra i concorrenti, viene quindi ordinariamente desunta dalla ricorrenza di determinati indici probatori dai quali inferire la sussistenza di una sostanziale finalizzazione delle singole condotte ad un comune scopo di restrizione della concorrenza e in materia è dunque ammesso il ricorso a prove indiziarie, purché le stesse, come più volte affermato in giurisprudenza, si fondino su indizi gravi, precisi e concordanti (per tutte: TAR Lazio, Sez. I, 18.12.15, n. 14281).

Premesso ciò e rimandando al prosieguo lo sviluppo nel caso concreto di tali principi, per quanto riguarda le censure di cui ai primi due motivi di ricorso, il Collegio evidenzia che, secondo la giurisprudenza, ben può essere utilizzata – ai ricordati fini indiziari e nel complesso valutativo con altri elementi autonomamente acquisiti – la documentazione inerente a un procedimento penale se la stessa – come avvenuto nel caso di specie – ha rispettato le formalità proprie dell’acquisizione in quella sede (Cons. Stato, Sez. VI, 2.7.15, n. 3291).

Il principio è di ordine generale ed opera ogni qual volta vi sia un’autonomia sostanziale e funzionale tra due giudizi (in campo disciplinare, per tutte: TAR Puglia, Le, Sez. III, 15.10.10, n. 2079 e Cons. Stato, Sez. VI, 10.12.09, n. 7703).

Il richiamo agli artt. 266, comma 1, 267 e 268 c.p.p. quindi non può operare in quanto limitato al processo penale e così pure il divieto e i limiti di utilizzazione di cui all’art. 270 c.p.p. non rilevano in quanto riferibili solo a procedimenti diversi ma pur sempre in campo penale (Cass. Civ., SSUU, nn. 3271/13, 15314/10 e 27292/09).

Nel procedimento “antitrust”, poi, non vigendo il principio della “prova legale” ma essendo il medesimo un giudizio fondato su elementi indiziari, sia pure gravi, precisi e concordanti, non risultano “tipicità” dei mezzi di prova, invece operanti per il processo penale, fermo restando che la stessa Corte Costituzionale ha precisato che le intercettazione acquisite in un processo penale ben possono essere utilizzate come mera “notitia criminis” pure in altri procedimenti penali (Corte Cost., 23.7.91, n. 366).

A ciò si aggiunga che da tempo la giurisprudenza ha precisato che le funzioni attribuite dalla legge n. 287/1990 all'AGCM a presidio della libera concorrenza si esplicano indipendentemente dalla rilevanza penale dei comportamenti, considerato che, ove ricorrano i relativi presupposti, esse possono formare oggetto di valutazione nelle sedi competenti (Cons. Stato, Sez. VI, 2.3.04, n. 926;
7.3.08, n. 1009 e 24.9.12, n. 5067).

A ciò si aggiunga che nel provvedimento impugnato la stessa AGCM evidenzia che le intercettazioni telefoniche in questione erano state effettuate a seguito di autorizzazione del GIP e acquisite agli atti del procedimento dietro formale nulla osta del P.M. e che le evidenze cui hanno avuto accesso le Parti sono state le medesime su cui gli Uffici hanno basato gli addebiti mossi, nel pieno rispetto del principio della “parità delle armi”, fermo restando che tali Uffici non hanno mai ascoltato “files audio” delle intercettazioni ma si sono limitati agli esami dei c.d. “brogliacci” di trascrizione, tutti elementi non segreti e conosciuti dalle parti.

Il Collegio, in proposito, ritiene di aggiungere, sul valore di tali “brogliacci” che nel giudizio penale non avrebbero assunto ancora la caratteristica di “prova” legale, che questi hanno contribuito nel procedimento avanti all’AGCM solo come elementi indiziari unitamente agli altri sopra richiamati e l’autonomia dei due procedimenti non richiedeva che fosse necessaria la previa assunzione “formale” al rango di prova penale dei medesimi. Non era quindi necessario che, ai fini qui in rilievo, si fossero materializzate “prove legali” o rinvii a giudizio per poter individuare una condotta collusiva sotto il profilo “antitrust” perso in considerazione nel caso di specie dall’Autorità.

L’AGCM, inoltre, non si è limitata – come detto - all’acquisizione dei contenuti delle conversazioni intercettate ma ha svolto un’accurata istruttoria ricorrendo anche all’assunzione di informazioni che hanno sostanzialmente confermato i fatti e le circostanze oggetto di contestazione “antitrust”, ai fini dell’individuazione di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, per cui non può condividersi quanto affermato dalla ricorrente secondo la quale l’intera istruttoria sarebbe stata improntata alla luce della documentazione richiesta e ottenuta dal giudice penale.

Analogamente è da rigettarsi il quinto motivo di ricorso.

La sussistenza di elementi gravi, precisi e concordanti si desume agevolmente da quanto ampiamente riportato nel provvedimento impugnato, in cui il coinvolgimento pieno di M si evince non solo dai riscontri documentali del “Tabellone” e del “Piccolo Tabellone” ma anche dalle conversazioni telefoniche e dalle “e-mail” acquisite.

Il Collegio osserva che il valore fortemente indiziario – unito ai “brogliacci” suddetti nonché alle comunicazioni “e-mail” - di tali evidenze documentali non risiede, come posto sufficientemente in evidenza nel provvedimento impugnato, sugli effetti concreti che il sistema di contabilità “credito/debito” aveva reso ma sulla influenza in ordine alla condotta che le Parti dovevano assumere in quel contesto di riferimento che, anche se inserita nel c.d. “SQF”, imponeva di evitare situazioni di concorrenza non corrispondenti alle normali di condizioni di mercato. Tali documenti riportavano le singole gare, il relativo prodotto, la quantità, il prezzo, il valore complessivo del medesimo rapportato alle posizioni di ciascuna impresa, così da costituire, il relativo rapporto, l’elemento cardine per la spartizione della procedura successiva, con annotazione della quota teorica che sarebbe spettata a ciascuna impresa, con esiti coincidenti nella sostanza per la maggior parte delle gare prese in considerazione (quindici su ventiquattro).

Come condivisibilmente osservato nelle sue difese dall’AGCM, che in alcuni casi le imprese vedevano importi diversi (in maggior valore, mai in minore) da quelli pervenuti era da imputare all’ulteriore meccanismo della distribuzione delle “sub-forniture” di cui pure si era acquisita evidenza documentale.

Per tale ragione opera la conclusione secondo la quale in tale tipo di intesa rileva il contesto complessivo della partecipazione alla concertazione, i cui singoli elementi (riscontro letterale di quanto pattuito) non acquistano valore in sé ma in quanto qualificano la restrizione del principio di libera concorrenza che dovrebbe sempre sottostare a tale tipo di competizione sul mercato, sia pure vincolato nell’ambito del SQF (Cons. Stato, Sez. VI, nn. 1192/12, 5171/11 e 896/11).

Infatti, la stessa giurisprudenza comunitaria ha posto in evidenza che la violazione dell’art. 101 TFUE può ben configurarsi quando sia accertata un’espressione di volontà delle parti in senso fraudolento senza necessità di individuare tratti formalmente vincolanti di adempimento (para)contrattuale (per tutte: Corte UE, 8.7.99, Montecatini e Tribunale UE, 26.10.2000, Bayer).

In sostanza, come ancora evidenziato nelle difese dell’Autorità, quel che rileva nel caso in esame è l’accertamento (con indizi gravi, precisi e concordanti) della collaborazione tra imprese al fine di istituire un meccanismo di ripartizione del mercato e di concertazione delle rispettive politiche di prezzo, senza necessità di valutarne gli effetti concreti, dato che l’illiceità in questione discendeva dall’oggettiva idoneità della condotta ad alterare potenzialmente la concorrenza (Cons. Stato, Sez. VI, n. 896/11 e TAR Lazio, Sez. I, 11.4.12, n, 3268).

In più, il Collegio rileva che l’operatività del SQF non può costituire un’esimente alla gravità della condotta, in quanto proprio la concentrazione di un numero limitato di fornitori ha semmai reso ancor più grave quest’ultima, posta in essere tra imprese già selezionate a avvantaggiate dal sistema – di per sé legittimo perché previsto dal Codice appalti – che già riduceva lo spettro di partecipanti alle selezioni di Trenitalia. Né la conformazione di tale sistema imponeva in alcun modo contatti tra le parti, plurimi e reiterati, come riscontrati dai numerosi riscontri indiziari costituiti dalle comunicazioni telefoniche e dalle “e-mail” di esplicito tenore nonché dagli elementi documentali sopra evidenziati.

Infondato si palesa anche il sesto motivo di ricorso.

Il ruolo di preminenza di M si desume da quanto riportato a sufficienza nel provvedimento impugnato, sia in riferimento alle evidenza documentali del “Tabellone” e del “Piccolo Tabellone” sia in riferimento alle “e-mail” e alle conversazioni telefoniche in cui si evidenzia la costanza della presenza di un rappresentante della ricorrente nel tenere i contatti con altre imprese, in particolare con l’altra società ritenuta “coordinatrice” (pp. 26, 27, 36, 37, 38, 40, 41, 42, 45, 46, 47, 48, 49, 50 del provvedimento impugnato).

Sulla durata della pratica, contestata dalla ricorrente nel settimo motivo di ricorso, il Collegio non può che rimandare a quanto sopra illustrato, ove il periodo evidenziato dalle risultanze istruttorie andava dal marzo 2008 al settembre 2011, fermo restando quanto si evidenzierà in prosieguo sull’entità delle sanzioni.

A tale proposito e in relazione all’ottavo motivo di ricorso, il Collegio ritiene che non possa prescindersi dall’osservazione per la quale l’intesa “orizzontale” di cui al caso di specie è stata ragionevolmente e legittimamente qualificata dall’Autorità come "molto grave", secondo gli orientamenti della Commissione europea e della Corte di Giustizia, le quali hanno più volte ribadito l’intrinseca e per così dire “ontologica” gravità delle intese orizzontali fra operatori economici volte alla spartizione del mercato, in relazione al conseguente forte pregiudizio per il rapporto di libera concorrenza, indipendentemente dalla quantificazione dei relativi effetti rapportabili alle singole imprese facenti parte dell’intesa, effetti comunque riscontrati, nella fattispecie in esame, nell'andamento dei prezzi medi di aggiudicazione delle gare prima e dopo la sussistenza dell’intesa e nel riallineamento dei prezzi al mercato nel periodo successivo di riferimento ovvero alla constatazione che un effettiva corrispondenza a prezzi di mercato si è verificato in occasione di una partecipazione allargata a imprese non riconducibile all’intesa come riscontrata.

Accertata la non illegittima individuazione, da parte dell’AGCM, di un’intesa orizzontale restrittiva della concorrenza nei termini indicati nel provvedimento impugnato - e quindi di una infrazione di particolare gravità delle norme comunitarie e nazionali di tutela della concorrenza - ne discende la legittima applicazione della relativa disciplina sanzionatoria secondo i vigenti parametri espressamente previsti per la fattispecie in esame, risultando del tutto irrilevanti, per costante giurisprudenza, gli eventuali indebiti trattamenti di favore riservati ad altri trasgressori, che anche qualora sussistenti darebbero luogo a responsabilità diverse, eventualmente sanzionabili davanti a Giudici diversi da quello amministrativo.

Non sono, infine, condivisibili le censure di violazione dei principi generali di logicità, ragionevolezza, proporzionalità e graduazione della pena in funzione dell'elemento soggettivo e oggettivo e dei criteri di quantificazione delle sanzioni “antitrust” fissati delle Linee Guida AGCM in argomento e dagli Orientamenti della Commissione per il calcolo delle ammende, in relazione all'irrogazione della sanzione nella misura massima edittale pari per tutte le imprese al 10% del fatturato.

Si osserva che la graduazione della sanzione secondo i criteri declinati dalla legge n. 689 del 1981 (richiamata dalla legge n. 287 del 1990) non può evidentemente prescindere da una valutazione di adeguatezza, anche sotto il profilo della deterrenza, in relazione allo specifico al caso concreto, e deve quindi avvenire, in un caso -come quello in esame - di violazione delle norme europee di tutela della concorrenza (valore peraltro munito anche di tutela costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 41 della Costituzione), alla stregua degli Orientamenti della Commissione UE per il calcolo delle ammende, con la conseguante necessità di applicare quale parametro di partenza il “range” del 15-30% del fatturato riferito all’attività sanzionata, alla stregua della giurisprudenza della Corte di Giustizia che ritiene la oggettiva responsabilità di tutte le imprese partecipanti all’intesa restrittiva orizzontale, che viene valutata di intrinseca rilevante gravità, in quanto capace di alterare irrimediabilmente il libero gioco della concorrenza, indipendentemente dalle sue concrete ripercussioni sul mercato, come detto in precedenza.

Proprio alla stregua dei principi di logicità e ragionevolezza che regolano l'azione amministrativa (artt. 97 Cost., 41 Carta di Nizza e 1 1egge n. 241 del 1990), quindi, il Collegio ritiene che l’AGCM abbia legittimamente dato attuazione ai principi (costituzionali e comunitari) di proporzionalità e graduazione della pena in funzione dell'elemento soggettivo e oggettivo della violazione (artt. 3 Cost., 49 Carta di Nizza e 7 CEDU), applicando le proprie Linee Guida del 2014 e, quindi, un parametro iniziale di calcolo della sanzione pari al minimo edittale comunitario del 15% del fatturato riferito all’attività sanzionata, peraltro poi ridotto, in ossequio al limite edittale posto dalla legge nazionale, al minore importo corrispondente al 10% del fatturato complessivo dell’impresa, restando in tal modo assorbita anche la –minore- riduzione che secondo la ricorrente avrebbe dovuto essere disposta in relazione al grado del proprio coinvolgimento.

In definitiva, la sanzione comminata dall’Autorità nell’osservanza delle proprie Linee guida risulta conforme, da un lato, agli Orientamenti comunitari in materia sanzionatoria e, dall’altro, ai principi comunitari e nazionali di gradualità e proporzionalità della sanzione, misurata nella sua oggettiva gravità secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di intese orizzontali restrittive della concorrenza.

Legittimamente, poi, non risultano applicate circostanze attenuanti – comunque nella discrezionalità dell’Autorità (Cons. Stato, Sez. VI, 3.6.14, n. 2338) – vista la posizione di rilevo assunta dalla ricorrente nel perdurare dell’intesa.

Per quanto riguarda la ridotta capacità contributiva invocata da M e non riconosciuta dall’AGCM, il Collegio ritiene non illogiche le conclusioni da questa espresse nel provvedimento impugnato, in quanto non risultava dimostrata alcuna irreversibile problematicità in ordine alla liquidità e alla solvibilità e in relazione all’importo della sanzione.

Per quanto illustrato, quindi, il ricorso non può trovare accoglimento.

Le spese di lite possono comunque eccezionalmente compensarsi per la complessità della fattispecie.

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