TAR Bari, sez. III, sentenza 2015-12-03, n. 201501558

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Bari, sez. III, sentenza 2015-12-03, n. 201501558
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Bari
Numero : 201501558
Data del deposito : 3 dicembre 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 01099/2013 REG.RIC.

N. 01558/2015 REG.PROV.COLL.

N. 01099/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1099 del 2013, integrato da motivi aggiunti, proposto da: A C, rappresentato e difeso dall'avv. F E L, con domicilio eletto presso F E L in Bari, Via Amendola n.166/5;

contro

Comune di Modugno, rappresentato e difeso dall'avv. C C, con domicilio, ex lege, presso la Segreteria T.A.R. Bari in Bari, P.za Massari;

Regione Puglia;

nei confronti di

CMC Costruzioni S.r.l., rappresentata e difesa dall'avv. F M, con domicilio eletto presso Segreteria T.A.R. Bari in Bari, P.za Massari;

G D C;

per l'annullamento (dedotto con il ricorso principale e con quello per motivi aggiunti), previa sospensiva,

del permesso di costruire n. 46 del 19 luglio 2013, rilasciato dal Comune di Modugno alla società “CMC Costruzioni S.r.l.” per la costruzione di un fabbricato per civile abitazione a piano seminterrato e n. 4 piani fuori terra, con altezza massima di m. 13, (oltre il torrino scala), su suolo individuato in catasto al foglio 20, particella 59, reso libero in seguito alla demolizione di fabbricato esistente alla via X Marzo, 76-78 del Comune di Modugno;

- di ogni atto al predetto connesso, compresi gli atti relativa all’istruttoria espletata dal Comune di Modugno con riferimento al permesso di costruire 46/2013;

per la declaratoria di nullità e per l’annullamento della disposizione di cui all’art.

4.6.4 delle N.T.A. in vigore nel Comune di Modugno;

per la declaratoria di nullità della Circolare interna del Servizio 4 del Comune di Modugno;

per il risarcimento del danno derivante nei confronti del sig. Capuano dal rilascio del permesso di costruire n.46/2013;

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Modugno e di Cmc Costruzioni S.r.l.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 novembre 2015 la dott.ssa Desirèe Zonno e uditi per le parti i difensori F E L, C C e Virginia Cirifresa;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Il ricorrente impugna il permesso di costruire (d’ora in poi PdC) n. 46 del 19.7.2013, rilasciato dal Comune di Modugno alla società “CMC Costruzioni S.r.l.” (d’ora in poi CMC) per la costruzione di un fabbricato per civile abitazione a piano seminterrato e n. 4 piani fuori terra, su suolo individuato in catasto al foglio 20, particella 59, reso libero in seguito alla demolizione di fabbricato esistente alla via X Marzo, 76-78 del Comune di Modugno.

Il ricorrente è proprietario di altro suolo confinante con tale particella, nonché del fabbricato su di esso edificato. Tale fabbricato e quello oggetto di demolizione (della CMC) sono stati realizzati in aderenza.

Con il ricorso, il ricorrente censura il PdC, denunciando la violazione delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico comunale, formulando una serie di specifiche censure di cui si darà puntualmente conto nel prosieguo.

All’udienza del 5.11.2015 la causa è stata trattenuta in decisione, dopo un precedente rinvio disposto dall’udienza del 26.3.2015, determinato dalla necessità di disporre gli incombenti istruttori indicati nell’ordinanza n.717/2015 (dei quali si darà conto nel corpo della motivazione).

Il ricorso è nel suo complesso fondato solo in una marginale parte, risultando le censure di maggior rilievo infondate.

Con la prima doglianza, come già indicato, il ricorrente censura il PdC sostenendo, in primo luogo e sotto vari profili, la violazione delle distanze legali e delle altezze imposte dalle NTA.

Per una migliore comprensione delle ragioni della decisione, è opportuno richiamare puntualmente la normativa di riferimento, invocata dallo stesso ricorrente, rappresentata dagli artt. 4.6.3-4.6.4 delle NTA del PRG del Comune di Modugno.

“Art. 4.6.3. Nella edificazione dei suoli liberi, parzialmente liberi, o resi tali dalla demolizione di manufatti esistenti e in tutte le operazioni che comportano aumenti di volumi, eccetto quanto riportato nel precedente art. 4.5, devono essere rispettati i seguenti parametri:

Dc- Distanza dai confini: H:2 con un minimo di m. 5;
è ammessa, inoltre, l'edificazione in aderenza a fabbricati esistenti sul confine e la possibilità dell'esercizio del diritto di prevenzione per la costruzione sul confine tra lotti edificati;

Df- Distanza fra fabbricati: semisomma delle altezze con un minimo di m. 10,00 tra pareti e pareti finestrate;

Ds- Distacco dal ciglio stradale: secondo allineamenti prevalenti cosi come sopra definiti;

Vp- Verde privato di pertinenza: minima 20% della superficie fondiaria. Questa superficie può essere ricavata anche al di sopra dei solai di copertura a livello terra, purché la superficie abbia almeno cm. 40 di terreno vegetale per accogliere la vegetazione;

HL-Rapporto altezza massima edificio con larghezza stradale <
1,5;

P-Parcheggio. La superficie da destinate a parcheggio deve essere pari, al minima di un decimo del volume della nuova costruzione, e comunque assicurare almeno un posto macchina (15 mq) per appartamento (posta auto=15 mq). La presente norma sostituisce quella dell'art. 6 delle N.T.A del P.R.G. "

- Art. 4.6.4-Zone di completamento Bl: “ in particolare per le zone B1 del vigente PRG per la edificazione dei lotti liberi, parzialmente liberi o resi liberi da demolizione di manufatti esistenti devono essere rispettati, oltre ai paramenti sopra indicati, i seguenti indici:

Iff- Indice di fabbricabilità fondiaria: 5 mc/mq. Applicato al lotto al netto delle superfici destinate o da destinate a strada;

Rc- Rapporto di copertura: massimo 50% del lotto fondiario;
H-Altezza massima: m. 13,00
”.

Con un primo profilo di doglianza, il ricorrente lamenta la violazione delle distanze legali, sostenendo che le NTA ammetterebbero l'edificazione in aderenza a fabbricati esistenti sul confine, richiedendo, in alternativa, il rispetto di una distanza dal confine pari alla metà dell'altezza dell'immobile da edificare, con un minimo di 5 metri, “fermo restando il rispetto della distanza di un minimo di 10 m. tra fabbricati”.

Il ricorrente deduce che il progetto assentito dall'Ente contrasterebbe con tali disposizioni, in quanto contempla, per un primo tratto longitudinale, la realizzazione di un muro costruito in aderenza con l’edificio del ricorrente che, tuttavia, non avrebbe alcuna funzione strutturale ma solo quella di realizzare un “contatto fisico” tra i due edifici, al fine di eludere l’obbligo di arretrare la nuova costruzione dal confine.

La doglianza non ha fondamento.

Sul punto giova, in primo luogo, chiarire che lo strumento urbanistico comunale certamente consente la costruzione in aderenza di nuovi edifici costruiti a seguito di demolizione di altro precedente.

Laddove non si proceda in aderenza, le distanze da rispettare saranno di almeno 5 m. dal confine e 10 tra pareti di cui almeno una finestrata.

Deve, pertanto, escludersi che possa sostenersi, come fatto dalla difesa di parte ricorrente che, laddove non si costruisca in aderenza, si debba rispettare una distanza di 10 m. tra edifici, in quanto tale distanza è dovuta solo in ipotesi di presenza di pareti finestrate che, per come si chiarirà in seguito, non possono dirsi sussistenti nel caso di specie.

Pertanto, dato che il ricorrente ha costruito sul confine (così esercitando il diritto di prevenzione), alla società controinteressata resta la possibilità o di costruire in aderenza ovvero di arretrare di 5 m. dal confine.

Sennonché, il ricorrente sostiene che il muro edificato sul primo tratto longitudinale del confine sia, in realtà, privo di alcuna funzione strutturale ed abbia natura di mera chiusura del lotto e, dunque, rappresenti un corpo edilizio che delimita e "crea" uno spazio interno all'edificio, al fine di creare un fittizio contatto tra gli edifici (sul punto giova rinviare alle tavole di progetto indispensabili per la comprensione dello stato dei luoghi e delle doglianze fatte valere).

Deduce in ricorso (ma tale aspetto viene completamente abbandonato nella memoria conclusionale depositata il 5.10.2015, con cui si sostiene una posizione del tutto difforme), che tale spazio così delimitato assumerebbe le caratteristiche di una chiostrina, su cui, peraltro si affaccerebbero alcuni vani abitabili, con i relativi balconi aggettanti della nuova struttura.

Tuttavia, tale configurazione contrasterebbe con la disposizione di cui all'art. 27 del Regolamento Edilizio Comunale che vieta 1'affaccio di vani abitabili e di qualsiasi oggetto e sporgenza nelle chiostrine.

Proprio su tale aspetto si è appuntata l’ordinanza istruttoria n. 717/2015, con cui si è richiesto alla società controinteressata di presentare un elaborato grafico (c.d. rendering ) da cui si possa individuare lo stato dei luoghi di progetto dopo l’edificazione, nonché un elaborato progettuale che evidenzi, con visione dall’alto, la posizione dei balconi in questione e del pilastro, provvedendo, inoltre, ad indicare le misure dei lati che compongono la c.d “chiostrina”.

Il deposito documentale ha permesso, in primo luogo, di escludere la natura di chiostrina dello spazio in questione.

Infatti, come emerge anche dalla relazione tecnica depositata da parte ricorrente il 24.9.2015, lo spazio in esame ha forma rettangolare con lati rispettivamente di m.6,12 e 5,22 (il grafico di parte controinteressata depositato in ottemperanza all’ordinanza istruttoria riporta le diverse misure di 6,51 e 5,30, ma per i fini che qui interessano, tali differenze non rilevano) e risulta delimitato da muri sul lato più lungo e sui due più corti.

Orbene, in base all’art. 53 del regolamento comunale, si intendono per spazi interni (nei quali rientrano le chiostrine, per espressa previsione della stessa disposizione) “le aree scoperte circondate da edifici per una lunghezza superiore ai ¾ del perimetro”.

Nel caso di specie l’inesistenza di alcuna parete che delimita il lato che affaccia su v. X Marzo (ovverosia su uno dei lati più lunghi del rettangolo) esclude che ricorra il richiesto requisito dimensionale dei ¾.

Del tutto inutile, pertanto, indagare ulteriormente se ricorrano gli ulteriori requisiti per definire lo spazio interno quale chiostrina, atteso che difetta il requisito primigenio (essere cioè uno spazio interno), richiesto dal regolamento comunale.

Deve, pertanto, escludersi che lo spazio realizzato attraverso il muro edificato in aderenza determini una chiostrina dotata di non consentito affaccio di balconi.

Né possono prendersi in considerazione, le ulteriori considerazioni sulla natura di tale spazio indicate nella già citata relazione tecnica, in quanto esse esulano del tutto dalle doglianze formulate.

Può, quindi, esaminarsi la natura del muro costruito in aderenza di cui si lamenta la caratteristica non strutturale.

Rileva il Collegio che, effettivamente, l’esito dell’adempimento istruttorio disposto non ha evidenziato la natura strutturale del muro, in quanto gli elaborati grafici depositati non evidenziano il pilastro che conferirebbe tale funzione.

Sul punto il Collegio è ben consapevole che in alcuni dei grafici depositati (c.d. rendering ) è indicata con il colore verde una parte longitudinale di muro che parrebbe un pilastro, tuttavia, a fronte dell’assenza di qualsivoglia specificazione sul punto – diversamente da quanto richiesto con l’ordinanza istruttoria- e della specifica contestazione mossa da parte ricorrente (che, nella memoria conclusionale, a pag. 4, evidenzia che il pilastro in questione non è stato indicato ed insiste sulla natura di pura recinzione del muro), deve ritenersi che tale pilastro in realtà, non esista.

Deve, pertanto, concludersi che il muro in questione (che, peraltro, come si nota nel rendering , non è continuo per tutta la sua altezza, ma ha ampie fasce orizzontali di c.d. “vuoto su pieno”, ad ulteriore conferma che non ha funzione strutturale) funge, nella sostanza da recinzione del lotto di proprietà della controinteressata.

Precipitato logico di tale accertamento in fatto, è la circostanza che esso non può considerarsi quale edificazione in aderenza, imponendo il rispetto delle distanze tra edificazioni, in applicazione dei principi civilistici relativi alla natura dei muri di recinzione ed alla loro inidoneità a derogare alle prescrizioni in tema di distanza (v.Cassazione civile sez. II 12/05/2011 n. 10461: “ In tema di distanze legali, il muro di cinta che abbia le caratteristiche previste nell'art. 878 c.c. non è considerato costruzione di cui tenere conto ai fini del calcolo delle distanze legali tra edifici e delle facoltà concesse al vicino di realizzare il proprio fabbricato in aderenza o in appoggio. Ne consegue che le distanze legali devono essere computate come se il muro non esistesse. ”;
Cassazione civile sez. II 29/06/1985 n. 3884: “ Ai fini del computo delle distanze legali (nella specie, quelle previste dal regolamento edilizio del comune di Sergnano), il muro di cinta avente le caratteristiche di cui all'art. 878 c.c. non può essere equiparato ad una costruzione e perciò non è possibile costruirvi in aderenza. ”)

Sennonché, escluso che sia stata realizzata una chiostrina (che renderebbe illegittimo l’affaccio dei balconi in base all’art. 27 REC), ed ammessa la natura non strutturale del muro, le distanze vanno

computate come se tale muro non esistesse.

Come già chiarito, le distanze da rispettare tra gli edifici sono di 5 m dal confine.

L’ulteriore muro (parallelo a quello con funzione non strutturale) è posto a circa 6,50 m dal confine, sicchè le distanze sono rispettate.

Deve, peraltro, aggiungersi che, laddove si ritenesse, invece, dimostrata la funzione strutturale del muro, si giungerebbe ad analoghe considerazioni, in quanto (esclusa l’esistenza della chiostrina), ci si troverebbe in presenza di un fabbricato costruito in aderenza, come consentito dalle NTA.

Sotto ulteriore profilo, nella prima censura, il ricorrente lamenta la violazione delle prescrizioni sulle distanze tra edifici con pareti finestrate.

Ha, infatti, sostenuto che, in aderenza al proprio vano scale, dotato di finestra, verrà realizzato uno dei piani della nuova costruzione, con conseguente violazione delle norme che richiedono, nella realizzazione dei fabbricati, il rispetto di un limite minimo -relativamente alla distanza fra pareti di cui almeno una finestrata- non inferiore a 10 m.

Le difese comunali – non smentite, né contestate- , tuttavia, hanno evidenziato che il titolo edilizio rilasciato al Capuano per l’edificazione del proprio manufatto, non prevede, per il vano scale, alcuna apertura di luce o veduta (ad eccezione della porta di accesso al solaio che però non è frontistante al muro erigendo).

L’apertura così realizzata, pertanto, va considerata abusiva ed inidonea a vincolare le successive edificazioni da parte di terzi.

Sempre nel corpo della prima doglianza, il ricorrente lamenta la violazione delle prescrizioni in materia di altezza massima degli edifici.

Deduce, infatti, che le NTA (art. 4.6.4) prevedono, per gli edifici da realizzarsi nelle zone B1 (in cui ricadono i suoli coinvolti), un’altezza massima pari a 13 m., indipendentemente dall'altezza degli edifici preesistenti e circostanti. Da progetto, a suo dire, l'immobile erigendo avrebbe un'altezza di 16 m, computando l’altezza del c.d. torrino scale di 3 m. (ovverosia 13 m. +3 m.), di gran lunga superiore a quella massima ammessa dalla norma tecnica.

II ricorrente ha, altresì, impugnato la norma tecnica in esame, nella parte in cui non tiene conto, nell'individuazione dell'altezza degli edifici, dell’altezza delle costruzioni circostanti che, nel caso di specie, è di gran lunga inferiore a quella massima di 13 m. prevista dalla disposizione.

In ordine a tale secondo aspetto di censura, deve, tuttavia, rilevarsi che lo scrutinio della questione di merito è preclusa dalla circostanza che l’interesse di cui si pretende tutela non la merita, poiché la posizione giuridica azionata si manifesta non quale “interesse legittimo”, quanto piuttosto quale “interesse illegittimo”, parafrasando espressione già nota ad autorevole dottrina, per violazione del divieto di abuso del diritto.

Emerge, infatti, in modo inequivoco dagli atti processuali che il ricorrente abbia edificato il proprio edificio, contermine a quello oggetto della demolizione e ricostruzione scrutinata in questa sede, ad un’altezza di 10 m. (8 m. inerenti l’edificio + 2 m. di torrino scale), a fronte dell’altezza di quello della allora vicina, sig.ra De Ceglie (dante causa della CMC), di soli 4 m.

Pertanto, lo stesso ricorrente, al momento dell’edificazione del proprio manufatto, non ha affatto tenuto conto dell’altezza dell’edificio a sé contermine, sopraelevandosi, rispetto a quest’ultimo, di ben 6 m.

Conclusivamente, l’assenza di una prescrizione che imponga il rispetto dell’altezza degli edifici circostanti, è stata dallo stesso odierno ricorrente, usata per sopraelevare il proprio edificio.

La contraddittorietà di tale comportamento, nonché la considerazione che esso risponde al paradigma per cui si pretenderebbe da altri consociati il rispetto di regole che, invece, vengono personalmente violate, per trarne personale vantaggio, impone al Collegio di non accordare tutela alla situazione fatta valere, per la grave ed evidente violazione della clausola generale dell’ordinamento di buona fede e correttezza (v. sentenza di questa Sezione n. 716/2015)

Sussiste, invece, la lamentata violazione della prescrizione che impone di non superare i 13 m. di altezza.

La CMC si difende sostenendo che l’altezza aggiuntiva contestata sarebbe imputabile ad un piccolo locale posto sul lastrico solare.

Tuttavia, a suo dire, il ricorrente sarebbe incorso in errore scambiando tale locale per torrino scale, mentre esso sarebbe il vano macchine dell’ascensore (come tale non computabile nell’altezza dell’edificio).

Il Comune, d’altro canto, sostiene che il vano in questione (di cui, invece, non contesta la natura di torrino scale) non andrebbe calcolato ai fini dell’altezza dell’edificio, trattandosi di volumetria tecnica, pacificamente irrilevante a fini urbanistici.

Rileva il Collegio che la allegata natura di vano macchine del locale in questione è tutt’altro che provata.

Il rendering depositato in giudizio evidenzia che torrino scale e locale macchine formano un locale unico la cui altezza supera i 13 m. imposti dalle NTA. A ciò si aggiunga che anche tutto il parapetto del lastrico solare (da costruirsi integralmente in muratura e, per ciò, integrante la sagoma, supera i 13 m.).

D’altro canto anche le allegazioni comunali depongono nello stesso senso. Esse, infatti, sono tese a confutare la computabilità del vano a fini volumetrici, ma non ne disconoscono la natura di vano scale.

Accertato, pertanto, che il torrino scale è previsto in progetto e si pone ad un’altezza superiore ai 13 m., se ne deve affermare la sua computabilità ai fini qui scrutinati, secondo i principi affermati da Cassazione civile sez. II, n. 2566, 03/02/2011 secondo cui “ In tema di distanze legali tra fabbricati, integra la nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi - quali quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore - di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa, e non anche quella che costituisce - come il vano scale - parte integrante del fabbricato. Ne consegue che, ai fini della determinazione dell'altezza dell'edificio, va computato il torrino della cassa scale, la cui prosecuzione al di sopra della linea di gronda del fabbricato integra una sopraelevazione utile per la definizione concreta delle distanze legali tra gli edifici come stabilite dalla normativa vigente al momento della realizzazione dell'immobile, senza che assumano rilievo eventuali disposizioni contenute in circolari amministrative, che costituiscono espressione della potestà di indirizzo e di disciplina dell'attività dell'amministrazione ma non sono fonte di diritto, né di interpretazione della legge.

Deve, precisarsi, peraltro, che le allegazioni del Comune in ordine all’irrilevanza a fini volumetrici non sono congruenti nel caso di specie in cui si dibatte in ordine alla computabilità a fini altimetrici (e non volumetrici).

L’edificio, pertanto, nella parte in cui supera i 13 m di altezza, non è assentibile.

Nell’ultima parte della prima doglianza il ricorrente lamenta, altresì, che il progetto contempli la realizzazione di una struttura non consentita sul lastrico solare della nuova costruzione (una copertura in legno amovibile, destinata a stenditoio coperto) di cui si contesta la superficie complessiva pari a mq 57,00 che sarebbe superiore rispetto a quella consentita (30% della superficie del piano sottostante).

Tale censura non è fondata.

Convincono, sul punto, le difese di parte controiteressata che ha rilevato che la superficie su cui calcolare la misura del 30% non è quella del piano terzo (come ritiene che abbia fatto parte ricorrente), bensì quella del lastrico solare.

Tale allegazione non ha trovato puntuale smentita e va, pertanto, ritenuta, quanto ai fatti in essa indicati, pacifica, sicchè il superamento della superficie consentita di copertura amovibile risulta indimostrato.

Con la seconda doglianza il ricorrente lamenta che il progetto assentito determinerebbe dannose conseguenze di carattere "pratico", ossia i1 totale stravolgimento dello stato dei luoghi e la violazione dei diritti di veduta ormai acquisiti, in quanto esercitati da oltre trent'anni.

Sennonché, sul punto, non possono che ribadirsi le considerazioni già svolte in ordine alla contestata legittimità della prescrizione sulle altezze, nella parte in cui non tiene conto delle preesistenze.

L’interesse fatto valere non merita tutela, in quanto anche l’edificazione del manufatto Capuano determinò, all’epoca dell’edificazione, il totale stravolgimento dell’assetto degli edifici contermini, originariamente di non più di 4 m. di altezza.

Il ricorrente ha, anche, proposto atto di motivi aggiunti con cui ha evidenziato la sussistenza di un ulteriore vizio del provvedimento adottato dal Comune di Modugno.

Ha, infatti, rilevato che il PdC in questione è stato rilasciato dall'allora Responsabile del IV Servizio Assetto del Territorio- Sportello Unico;
Edilizia- PUG -Urbanistica- Edilizia residenziale, dotata di una formazione di carattere giuridico.

Ha, per ciò, dedotto la censura di violazione di legge;
violazione della disposizione di cui all'art. 13 del D.P.R. 380/2001 Tuel e l’incompetenza del Dirigente con riferimento all'esame degli elaborati tecnici relativi alla richiesta di permesso di costruire formulata dalla società controinteressata che, per converso, si è difesa eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità del motivo per tardività, contestandone, peraltro, la fondatezza nel merito.

La doglianza è inammissibile.

Trattasi, come dedotto dalla controparte, di vizio procedimentale, evidenziatosi già nel corso del procedimento, per tanto del tutto noto o conoscibile già al momento di proposizione del ricorso principale.

Il vizio è, comunque, manifestamente infondato (il che assorbe la pronuncia di inammissibilità, preferibile, essendo, per il principio di effettività della tutela, la decisione nel merito), essendo del tutto irrilevante la competenza (intesa, come chiaramente intende il ricorrente, nel senso di “capacità tecnica” derivante dagli studi giuridici compiuti che non consentirebbero di comprendere gli elaborati tecnici) del funzionario con funzioni apicali al quale spetta l’adozione dell’atto. Peraltro, anche in punto di fatto la asserita “incompetenza” ( rectius : inesperienza) è manifestamente infondata, come dimostra la circostanza che le questioni di carattere squisitamente tecnico oggetto della presente controversia vengono esaminate in sede giurisdizionale da Giudici e Difensori dotati di formazione prevalentemente (ma non esclusivamente) giuridica.

Conclusivamente il ricorso va accolto per quanto di ragione, riscontrandosi, nel PdC impugnato, nei limiti delle doglianze formulate, solo la violazione delle altezze.

La domanda risarcitoria merita particolare scrutinio, in quanto la precisa individuazione della condotta causativa dei danni (causa pretendi), è dirimente.

Il ricorrente, nell’atto introduttivo del giudizio, indica il provvedimento illegittimo quale fonte dei danni subiti.

La responsabilità fatta valere sembrerebbe, dunque, atteggiarsi quale responsabilità aquilana conseguente all’adozione di un provvedimento illegittimo, poiché il ricorrente afferma di ricondurla all’illegittimo rilascio del titolo edilizio che ha consentito la demolizione e consentirebbe la ricostruzione secondo il progetto assentito.

Tuttavia, egli specifica (e tanto emerge inconfutabilmente anche dalla perizia a firma ing. Trentadue, dep. il 13.2.2015) che i danni sarebbero conseguenza dell’abbattimento del fabbricato della controinteressata (come chiarisce bene il materiale probatorio in atti rappresentato, tra l’altro, da varia documentazione fotografica relativa allo stato dei luoghi dopo l’abbattimento: infiltrazioni di umidità causate dalla mancata impermeabilizzazione del muro comune, rimasto privo di protezione dopo l’abbattimento, e lesioni nell’immobile Capuano).

Sennonché, un’attenta riflessione sulla natura del danno lamentato evidenzia che, in realtà, esso viene fatto discendere dalle modalità con cui è stata realizzata l’attività di demolizione che, a detta del ricorrente, nonostante le cautele apprestate, avrebbe determinato danni strutturali (lesioni) e infiltrazioni (ricondotte alla mancata predisposizione di opere di impermeabilizzazione del muro contermine rimasto esposto agli agenti atmosferici) al suo immobile.

Così ricostruita la attività cui viene imputato il danno, si impone una prima considerazione.

L’attività contra ius denunciata non è, a ben guardare, quella provvedimentale, bensì quella materiale- esecutiva dell’attività assentita.

In altri termini, il danno lamentato non è derivato, secondo la stessa prospettazione di parte ricorrente dall’illegittima attività provvedimentale, bensì dall’inadeguata attività materiale di esecuzione della demolizione (di cui, si badi bene, non è mai stata contestata l’ammissibilità e legittimità).

Nel caso di specie, il danno viene configurato quale conseguenza non dell’attività di demolizione illegittimamente assentita, ma imperitamente realizzata, sicchè viene fatta valere la violazione della regole che presiedono all’esecuzione dell’attività materiale oggetto del provvedimento e non la violazione dei principi pubblicistici che presiedono all’attività autorizzatoria.

Tale considerazione induce, in primo luogo, a ritenere la domanda risarcitoria in concreto esercitata esclusa dal perimetro della giurisdizione amministrativa, in quanto ascrivibile non ad attività connessa all’esercizio (anche mediato) di poteri amministrativi, bensì ad attività meramente materiale nella sua parte prettamente esecutiva del titolo provvedimentale.

L’ordinamento, infatti, limita la giurisdizione- anche laddove esclusiva- del Giudice amministrativo, alle controversie aventi ad oggetto atti, provvedimenti o comportamenti delle Amministrazioni che presentano un collegamento con l’esercizio di un potere di natura pubblicistica.

Alla luce di queste premesse, la giurisdizione del G.A sussiste solo quando l’attività dedotta in giudizio sia di natura autoritativa, o comunque, ad essa riconducibile.

Per questo, tale giurisdizione può esercitarsi solo in riferimento all’attività governata dalle norme e dai principi di cui all’articolo 1, comma 1, della Legge n. 241 del 1990.

Ne consegue - ed è proprio questo l’aspetto rilevante nel caso di specie - che non sussiste la giurisdizione amministrativa nei casi in cui è la violazione delle regole di perizia inerenti la condotta esecutiva ( come tali del tutto distinte dalle prescrizioni provvedimentali) che viene in rilievo. In tal caso, il Giudice naturale è quello ordinario.

In ogni caso, anche a volere ammettere la giurisdizione di questo Giudice, deve ritenersi che non possa essere rinvenuto il necessario nesso causale tra il rilascio del titolo edilizio ed il danno denunciato.

Il difetto del nesso causale è dimostrato dalla considerazione che il danno lamentato non sarebbe stato scongiurato dal rilascio di un titolo edilizio conforme alle pretese di parte ricorrente.

Ciò vale ad interrompere il nesso eziologico tra la lamentata illegittimità e il danno di cui si reclama la tutela risarcitoria.

In altri termini (posto che è indiscussa la facoltà di demolire e ricostruire, mentre oggetto di contestazione sono soli i limiti e le facoltà edificatorie conseguenti alle potenzialità edilizie del suolo), anche laddove il titolo rilasciato fosse stato esente da tutte le censure denunciate (e non fosse stato , per ciò, illegittimo), la sua conformità a diritto, non avrebbe impedito il verificarsi dei danni lamentati, imputabili, in realtà solo all’imperita (secondo la prospettazione di parte ricorrente) esecuzione dell’attività materiale di abbattimento e di protezione del muro contermine.

Infine, non può non rilevarsi che sussiste un’ulteriore ragione ostativa al riconoscimento della reclamata responsabilità.

I profili di illegittimità ritenuti fondati sono parziali e marginali (solo l’altezza del torrino scale, facilmente eliminabile – mediante demolizione- anche in ipotesi di intervenuta realizzazione del manufatto). Pertanto, anche laddove il titolo fosse stato rilasciato ab inizio in modo legittimo, i danni lamentati non sarebbero stati evitati.

Da ciò consegue che non può rinvenirsi il prescritto collegamento causale tra le illegittimità riconosciute ed il danno per cui si agisce, imputabile, invero, anche alla scelta processuale di parte ricorrente di insistere per la sospensione dei lavori a seguito dell’esercizio della tutela cautelare.

Per le ragioni appena esposte il ricorso principale, nella parte impugnatoria, è fondato nei limiti indicati in motivazione.

La domanda risarcitoria va, invece, dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione.

Le spese, in ragione della parziale soccombenza, vengono compensate.

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