TAR Roma, sez. 2Q, sentenza 2015-09-14, n. 201511224

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 2Q, sentenza 2015-09-14, n. 201511224
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201511224
Data del deposito : 14 settembre 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05142/2012 REG.RIC.

N. 11224/2015 REG.PROV.COLL.

N. 05142/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5142 del 2012, proposto da: L G, rappresentato e difeso dall'avv. L S, con domicilio eletto in Roma, viale Carso, 23;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del l.r. p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato;

per l'annullamento

del provvedimento di rigetto domanda di concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell'art. 9 co. 1 lett f) l. n. 91/92.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 luglio 2015 il dott. Pietro Morabito e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

I)- Il sig. Gaye Lempu, cittadino senegalese, classe 1951, ha chiesto, nel febbraio 2008, di seguito ad una residenza più che decennale nel Territorio Nazionale, la concessione della cittadinanza italiana. Tale istanza è stata respinta col provvedimento ministeriale in epigrafe traendone argomento dalla circostanza - ritenuta indicativa di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale - che, nonostante il significativo periodo di permanenza in Italia, la famiglia di origine dell’istante (composta dalla moglie e da tre figli) continua a risiedere all’estero.

Nell’atto introduttivo del giudizio il ricorrente qualifica detto giudizio valutativo come arbitrario ed indebitamente invasivo della sua sfera privata, coinvolgendo scelte intime ed insindacabili. L’amministrazione, si assume, laddove dice che il centro degli affetti e dell’interesse del richiedente permane all’estero raccorda l’equilibrio emotivo dello stesso ad un “ modulo comportamentale unico ”, senza tener conto che l’interessato potrebbe aver acquisito “altri affetti” in Italia dove convive, in un appartamento di proprietà comunale, con il fratello. E d’altro canto una tal valutazione è in distonia con postulati rivenienti dagli artt.2,3, e 29 della Costituzione in quanto accrediterebbe (indebitamente) in capo al solo ricorrente la scelta di trasferire moglie e figli in Italia laddove una tal iniziativa dovrebbe essere concordata con la consorte.

Nella nota conclusionale , da ultimo depositata, si sostiene poi che gli elementi che vanno presi in considerazione per poter apprezzare l’integrazione nella comunità sono l’assenza di pregiudizi penali, l’esistenza di una situazione lavorativa e la conoscenza dell’idioma italiano “ e non improvvisate speculazioni circa il modo più corretto di coltivare le relazioni familiari”.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione chiedendo il rigetto del gravame.

All’udienza del 21.7.2015 la causa è stata trattenuta per la relativa decisione.

II)- La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne il provvedimento di diniego dell’istanza di naturalizzazione, presentata ai sensi dell'art. 9 comma 1, lettera f della l.

5.2.1992 n. 91, motivato sulla base degli elementi di giudizio, in narrativa menzionati, indicatori di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale e deponenti per una dissociazione tra l’interesse pubblico e quello dell’interessato al conseguimento dello status civitatis italiano.

Orbene la tesi del ricorrente –a seguire in fondo la quale si arriva ad equiparare il decreto concessorio della cittadinanza italiana ad una generica abilitazione amministrativa da rilasciare ove si riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi – è incondivisibile.

L’art.9 della legge n.91 del 1992 afferma che la cittadinanza “può essere concessa” ed i termini “può” e “concessa” sottolineano il carattere altamente discrezionale del provvedimento (rientrante secondo la tradizionale ed uniforme interpretazione della dottrina tra quelli di alta amministrazione: in giur., in tal senso, cfr., ex plurimis, Cons.St. IV, sez. n.3006 del 2011 e n. 4748 del 2008). I requisiti prescritti dall’art.9 costituiscono, pertanto, solo i presupposti che consentono di avanzare l’istanza di naturalizzazione al cui accoglimento si possono, forse ed al più, ravvisare aspettative giuridicamente tutelate (cfr., in tal senso, Cons.St., IV, n.798 del 1999).

E ciò in quanto al conferimento dello status civitatis italiano è collegata una capacità giuridica speciale propria del cittadino cui è riconosciuta la pienezza dei diritti civili e politici: una capacità alla quale si ricollegano anche doveri che non è territorialmente limitata e cui sono speculari determinati obblighi di facere gravanti sullo Stato comunità (cfr. su tale principio, Cons.St. n.3006/2011 cit., n. 196 del 2005).

Dunque la concessione della cittadinanza italiana – lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che il Paese deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi – rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all'interno dello Stato comunità un nuovo componente e dell'attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri (cfr., sul principio ex multis, Cons.St. IV;
n.798 del 1999).

Si tratta, altrimenti detto, di apprezzare, oltre alla residenza decennale ed all’inesistenza di fattori ostativi, la sussistenza di ulteriori elementi che giustificano la concessione e motivano – come ebbe a dire il Consiglio di Stato nel parere della I Sezione n.914/66 del 4.5.1966 (parere forse non adeguatamente valorizzato in alcune pronunce giurisdizionali) – “l’opportunità di tale concessione”. E tanto anche al fine di evitare che, attraverso il conferimento dello status civitatis, lo straniero – cui nell’attuale Ordinamento non è più richiesto, a differenza di quanto accadeva sotto l’impero della legge n.555 del 1912 ( ed a differenza di quanto si registra in altri Paesi comunitari), di rinunciare alla cittadinanza di origine – possa aspirare alla naturalizzazione italiana (conservando nel contempo quella del Paese di appartenenza) per comodità di carriera, di professione o di vita.

Dunque la norma dell’art.9 c. 1, lett. f) della legge n.91 del 1992 deve essere intesa come indicativa di una fattispecie affidata a valutazioni ampiamente discrezionali che implicano un delicato bilanciamento di interessi fra l’aspirazione di un residente straniero ad essere pienamente integrato nella comunità nazionale e l’interesse di quest’ultima ad accogliere come nuovi cittadini solo soggetti in grado di rispettarne le regole, ivi comprese quelle attinenti alla solidarietà sociale, nei termini previsti dalla Costituzione. La sintesi che può trarsi da tali principi è quella per cui l’inserimento dello straniero nella comunità nazionale è legittimo allorquando l’amministrazione ritenga che quest’ultimo possieda ogni requisito atto ad inserirsi in modo duraturo nella comunità e sia detentore di uno status illesae dignitatis morale e civile (come condivisibilmente ebbe a precisare il Consiglio di Stato in un parere che, sebbene del 19.1.1956, conserva integra la sua attualità) nonché di un serio sentimento di italianità che escluda interessi personali e speculativi sottostanti alla concessione dello status di cui trattasi: concessione che costituisce l’effetto della compiuta appartenenza alla comunità nazionale e non causa della stessa.

In tale contesto valutativo, allora, appare razionale, logico e non censurabile il giudizio negativo dell’amministrazione che, lungi dal presentarsi come invasivo delle scelte affettive e coniugali dell’istante, prende atto che un soggetto che - sebbene si trova in Italia dal 1987, ha più di sessanta anni, ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, svolge regolare attività lavorativa, percepisce un reddito che negli anni dal 2008 al 2010 ha oscillato tra €17.268,70 (Cud 2009) ed €19.333,93 (Cud.2011) (ved. all.n.3 della Resistente concernente i dati informativi forniti dalla Questura di Milano), e dunque un reddito non inferiore a quello di una larga fetta della popolazione italiana, vive con un nipote in un appartamento di proprietà comunale, non risulta avere nel territorio nazionale una c.d. “famiglia di fatto”, - non avverte o quantomeno non ha mai manifestato l’intendimento di ricongiungersi nel Paese nel quale si sente totalmente integrato e che ha eletto a centro di riferimento dei suoi interessi personali, sociali e professionali (al punto di chiedere di acquisirne il relativo status civitatis ) al proprio nucleo familiare di origine ed appartenenza.

E’ dunque del tutto condivisibile il dubbio che, in presenza di dette circostanze, la richiesta di naturalizzazione avanzata non sia convintamente contraddistinta da un serio sentimento di italianità che escluda interessi personali e speculativi (quali, ad esempio, quelli di poter fruire della protezione diplomatica e consolare italiana in qualsiasi parte del mondo;
ovvero di poter trasmettere la cittadinanza così conseguita ai figli minori, ecc.) sottostanti alla concessione dello status di cui trattasi. Né tale giudizio si rivela inadeguato sotto l’aspetto motivazionale;
al riguardo la discrezionalità dell'Amministrazione in tema di concessione della cittadinanza italiana non può che tradursi in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, condotto sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale sotto ogni profilo comportamentale. I limiti della valutazione in questione non possono che essere quelli generalmente riconosciuti, in tema di esercizio di poteri discrezionali, necessariamente orientati all'effettuazione delle migliori scelte possibili, per l'attuazione dell'interesse pubblico nel caso concreto. Ne deriva che, essendo affidato ad una valutazione ampiamente discrezionale, il controllo demandato al giudice, avendo natura estrinseca e formale, non può spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un idoneo e sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole (giur.za pacifica;
ved., ex multis, Cons. St., n. 3006/2011 e n.4862 del 2010: quest’ultima decisione puntualizza che il parametro sindacatorio è quindi quello della abnormità/irragionevolezza, e si estende, ovviamente, all'elemento "sfavorevole" al richiedente valorizzato dall’amministrazione e sotteso al diniego).

Conclusivamente il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Possono compensarsi tra le parti in causa le spese di lite, attesa la peculiarità della controversia.

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