TAR Roma, sez. II, sentenza 2010-04-16, n. 201007262
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N. 07262/2010 REG.SEN.
N. 19144/2000 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 19144 del 2000, proposto da:
“SOC. CHIABRA a r.l.”, in persona del rappresentante legale pro tempore, e TNON F, rappresentati e difesi dall’avv. G P, presso il cui studio sono elettivamente rappresentati in Roma, Via Oslavia n. 14;
contro
- il COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. D R, dell’Avvocatura comunale presso la cui sede è elettivamente domiciliato in Roma, Via del Tempio di Giove n. 21;
- la “SOC. COOP. CONSORZIO COOPERATIVE RIUNITE-CO.RI a r.l.”, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;
per il risarcimento del danno
da accessione invertita per intervenuta esecuzione di opera pubblica su terreni oggetto di occupazione d’urgenza non seguita da decreto di esproprio.
Visto il ricorso con i documenti allegati;
Vista la costituzione in giudizio dell’intimato Comune di Roma ed i documenti prodotti;
Esaminate le ulteriori memorie prodotte;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 giugno 2009 il dott. S Tschei e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – Premette la Chiabra S.r.l. che il Comune di Roma ebbe a dare avvio nel 1988 ad una procedura espropriativa avente ad oggetto terreni di proprietà della medesima ricorrente, in forza della delibera della Giunta municipale 30 agosto 1988 n. 5784 che stabiliva un termine di 5 anni per l’esaurimento della ridetta procedura.
Riferiva la ricorrente – proprietaria dei terreni distinti in catasto al foglio 804 particelle 182/r (poi 374) e 183/r (poi 375) ricadenti nel piano di zona 60 bis “Colli Portuensi Nord”-Comparto R/2 - che il Comune di Roma ebbe, altresì, ad assegnare i terreni in questione al Consorzio CO.RI. in diritto di superficie per la realizzazione di un interevento di edilizia residenziale pubblica
A quel punto la procedura ebbe il seguente sviluppo, per come emerge dalla documentazione depositata:
- in data 2 novembre 1988 il Comune si immetteva nel possesso delle aree che venivano contestualmente consegnate al suindicato Consorzio per l’inizio dei lavori;
- le operazioni di costruzione dell’intervento edilizio e delle pertinenze nonché di realizzazione delle opere di urbanizzazione avvennero nel periodo seguente, con trasformazione irreversibile dei fondi;
- scaduto il termine per l’occupazione legittima, questo veniva prorogato ex art. 22 della legge 20 maggio 1991 n. 158 per un periodo di ulteriori due anni, allo spirare del quale non fu emanato alcun provvedimento espropriativo.
La Società Chiabra successivamente, con atto Notaio Floridi di Roma del 9 giugno 2000 rep. n. 17093, vendeva al Signor T tutti i diritti relativi alla particella immobiliare 183/r (375).
Da qui il presente giudizio con il quale le parti ricorrenti chiedono il risarcimento dei danni subiti all’illegittima occupazione acquisitiva perpetrata ai loro danni dal Comune di Roma.
2. – Si è costituito in giudizio il Comune di Roma non contestando nei fatti la ricostruzione dei ricorrenti e rammentando che effettivamente:
- i terreni erano stati occupati in virtù della delibera di Giunta municipale 30 agosto 1988 n. 5784;
- in data 2 novembre 1988 il Comune si era immesso nelle aree, immediatamente consegnate al Consorzio CO.RI. per l’esecuzione degli interventi edilizi e delle ulteriori opere;
- dette opere erano state effettivamente realizzate con irreversibile trasformazione dei fondi;
- i termini di occupazione legittima, nonostante la proroga, erano scaduti senza che l’Amministrazione completasse il percorso procedimentale di espropriazione con l’adozione del provvedimento conclusivo.
Sostiene l’Amministrazione comunale che oramai nessun dubbio si pone circa la giurisdizione del giudice amministrativo in materia e che, seppure la vicenda rimonta ad un’epoca precedente rispetto all’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001 ed in particolare rispetto all’art. 43 di quel decreto, che declina l’attuale regime solutorio delle espropriazioni per pubblica utilità che intervengono senza il corretto sviluppo procedimentale che le deve necessariamente assistere, dovrebbe ritenersi pienamente applicabile anche al presente caso la regola secondo la quale il “risarcimento del danno per equivalente può essere validamente adottato dal giudice adito anche in mancanza di un formale provvedimento di acquisizione ex articolo 43 del Testo unico sugli espropri” (così, testualmente, a pag. 4 della memoria conclusiva di parte resistente).
Quanto al valore del bene da riconoscere, a titolo risarcitorio, il Comune di Roma sostiene che l’ammontare da liquidarsi deve essere condizionato dal (ed al) valore dei terreni per come identificato dalle stesse parti oggi ricorrenti successivamente all’intervenuta procedura di occupazione acquisitiva e concretamente evincibile con rinvio all’atto di compravendita stipulato tra i medesimi ricorrenti, per atto Notaio Floridi rep. n. 17093, nel quale per l’intero compendio immobiliare pari a 25.000 metri quadrati il prezzo è stato indicato in 70 milioni di lire: ne deriva che l’ammontare del risarcimento preteso dai ricorrenti nell’atto introduttivo non può – nei fatti – esser loro riconosciuto.
3. – In via preliminare e solo per incidens il Collegio rammenta che nessun dubbio si pone in ordine alla competenza giurisdizionale del giudice amministrativo nella controversia de qua atteso che, come ha ben chiarito la Corte costituzionale nella decisione 11 maggio 2006 n. 191 e come è ben specificato nell’art. 53 del D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, detta competenza giurisdizionale sussiste, nella veste esclusiva, ogni qualvolta la richiesta risarcitoria la cui fondatezza è oggetto del giudizio tragga origine da una procedura espropriativa avviata e non conclusa, anche nell’ipotesi in cui vi sia stata l’apprensione del bene per effetto di una legittima occupazione con irreversibile trasformazione dei suoli e non si sia completata, sotto il profilo della formalità amministrativa, l’operazione ablatoria con l’adozione del relativo provvedimento di esproprio (in tal senso si veda anche Cons. Stato, Ad. pl., 30 luglio 2007 n. 9).
Sul punto è sufficiente richiamare , la puntuale ricostruzione operata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la decisione 27 giugno 2007 n. 14794 - seguita tra le altre dalle sentenze 15 luglio 2008 n. 19500 e 23 aprile 2008 n. 10444, sempre delle Sezioni Unite - là dove viene delineato, riguardo alla giurisdizione in tema di azioni di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva (o appropriativa), un esauriente quadro di ricostruzione del succedersi delle ipotesi di giurisdizione correlate a ormai note vicende normative e giurisprudenziali.
Il predetto quadro è stato così delineato:
a) le controversie in materia di occupazione appropriativa iniziate in periodo ancora antecedente al 1 luglio 1998, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, secondo l'antico criterio di riparto diritti soggettivi - interessi legittimi;
b) le stesse controversie, se iniziate nel periodo corrente dal 1 luglio 1998 al 10 agosto 2000, data di entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, restano attribuite al giudice ordinario, per effetto della sentenza n. 281 del 2004 della Corte Costituzionale, che, ravvisando nell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, anteriormente alla riscrittura operata con l’art. 7 della legge n. 205 del 2000, un eccesso di delega, dichiarò l'incostituzionalità delle nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva;
c) le predette controversie sono invece attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se iniziate a partire dal 10 agosto 2000, data di entrata in vigore dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, come riformulato dall’art. 7 della citata legge n. 205 del 2000;
d) la stessa giurisdizione, infine, sarà giustificata dalla previsione dell’art. 53 del D.P.R. n. 327 del 2001, se la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta a partire dal 1 luglio 2003, data di entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni.
In sostanza, solo il ristoro discendente da mere condotte illecite ex art. 2043 c.c. – come è il caso, ad esempio, dell' occupazione di aree non comprese nell'originario progetto dell'opera pubblica - e non anche dall'adozione di atti illegittimi costituisce un’ipotesi di risarcimento da comportamento materiale ingiusto, con conseguente devoluzione della relativa controversia al giudice ordinario (cfr. Cons. stato, Sez. IV, 20 luglio 2009 n. 4571 il quale richiama anche Cass. civ., SS.UU., 20 marzo 2008 n. 7442, 19 aprile 2007 n. 9323 e 15 giugno 2006 n. 13911).
4. – Il secondo punto di valutazione che si impone al Collegio in ordine alla controversia sottoposta al suo esame è riferito alla applicabilità o meno delle disposizioni contenute nell’art. 43 del D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 a fattispecie ablatorie che, caratterizzate da una evidente forma patologica, siano temporalmente riconducibili, quanto meno con riferimento all’avvio della relativa procedura, ad un’epoca antecedente rispetto all’entrata in vigore del Testo unico sulle espropriazioni.
Il citato art. 43, come è noto, ha introdotto una normativa speciale sugli effetti dell'illegittimità dell'atto, che appare prevalente rispetto a quella generale, pur successiva, rintracciabile nella legge sul procedimento. Detta norma stabilisce, infatti, che "Qualora sia impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi 1 e 2 ovvero sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, l'amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo".
Il legislatore ha così ipotizzato non solo che l'acquisizione possa essere comunque disposta senza che venga seguita la via maestra del procedimento, con tutte le garanzie per esso previste, ma ha anche previsto che nel caso di fondatezza del ricorso, proposto anche avverso un atto di acquisizione, sia esclusa comunque la restituzione del bene.
Resta pur sempre ben chiaro nella norma che l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante si caratterizza per la discrezionalità sussistente in capo all’Amministrazione ai fini della scelta sul “se” adottare tale atto ovvero affrontare – l’eventuale – controversia giurisdizionale e la conseguente decisione del giudice amministrativo in merito alla possibilità di restituire il fondo ovvero di risarcire il danno.
Posto che, come nella specie è documentalmente dimostrato e comunque non costituisce oggetto di dubbio tra i controvertenti (cfr. sul punto la difesa del Comune resistente), la vicenda qui in esame è caratterizzata dalla patologica attività dell’Amministrazione, che non ha mai adottato il provvedimento conclusivo della procedura espropriativa e che in merito ai fondi fatti oggetto di occupazione acquisitiva non è stata proposta dai ricorrenti alcuna domanda restitutoria, orientando gli stessi la loro principale domanda verso il risarcimento dei danni subiti, siffatto comportamento processuale tenuto dalla parte ricorrente, accompagnato dalla documentata dimostrazione dell’ormai intervenuta trasformazione irreversibile dei fondi per la realizzazione di abitazioni di edilizia economica e popolare, di talché non è materialmente possibile la restituzione dei fondi ai ricorrenti, costituiscono elementi utili a ritenere che al giudice adito non rimane che valutare la sola domanda risarcitoria proposta, anche in assenza di provvedimento di acquisizione da parte dell’Ente.
5. – D’altronde recentemente, pur tenendo conto di orientamenti non univoci in materia espressi dalla giurisprudenza amministrativa, è stato affermato che (cfr. Cons. giust. reg. sic. 25 maggio 2009 n. 486 e la precedente 18 febbraio 2009 n. 51, i cui contenuti qui di seguito si sintetizzano nei passaggi salienti):
- in linea generale, secondo le coordinate civilistiche, desumibili dalla lettura sistematica degli articoli 2043, 2058 e 2933 del codice civile, la riparazione del danno patrimoniale ingiusto extracontrattuale subito dal proprietario di un bene può avvenire, alternativamente, tramite la corresponsione dell’equivalente monetario, oppure mediante la reintegrazione in forma specifica, attuata mediante la restituzione, accompagnata dalla fisica e materiale riparazione o sostituzione della cosa danneggiata, distrutta o resa inservibile per l’uso;
- la regola della alternatività non impedisce, ovviamente, la complementarità delle due tutele in particolari casi, considerando che il risarcimento per equivalente va comunque riconosciuto per quelle componenti del pregiudizio economico non riparabili in forma specifica, quali l’indisponibilità del bene nel periodo precedente la perdita della proprietà. Inoltre, la regola dell’alternatività è puntualmente ribadita nell’ambito del risarcimento del danno derivante dall’attività provvedimentale illegittima;in particolare, l’articolo 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998, contiene un esplicito riferimento ad entrambi i tipi di risarcimento e reintegrazione del pregiudizio, posti sullo stesso piano;
- nella sistematica civilistica si prevedono anche alcune specifiche disposizioni dirette a regolare il rapporto fra le due forme di tutela. In questa direzione, l’articolo 2058 del codice civile esclude il risarcimento in forma specifica solo qualora ciò sia considerato "eccessivamente oneroso" per il debitore o risulti contrastante con l’economia nazionale. Si veda anche sul punto l’art. 2933, comma secondo, del codice civile e le relative interpretazioni in merito offerte sia dalla giurisprudenza civilistica che da quella amministrativa (si veda in tal senso Cons. Stato, Sez. V, 3 maggio 2005 n. 2095 e Sez. IV, 3 maggio 2005 n. 2140);
- nella prospettiva del codice si muove ragionevolmente dall’idea secondo cui il risarcimento in forma specifica comporti, per il debitore, un sacrifico maggiore del risarcimento meramente patrimoniale e, pertanto, si prevedono alcune eccezionali limitazioni. Tali restrizioni operano "unidirezionalmente", nel senso che circoscrivono lo spazio applicativo della tutela in forma specifica, ma non delimitano mai l’operatività del diritto al risarcimento per equivalente.
Fermo quanto sopra, al di fuori di questi limiti espliciti, la previsione dell’alternatività delle due forme di tutela comporta, evidentemente, l’attribuzione al danneggiato del diritto di optare per la modalità risarcitoria ritenuta più idonea a proteggere i propri interessi. Né il giudice, né tanto meno l’autore dell’illecito possono contrastare tale scelta, al di fuori dei confini indicati dall’articolo 2058 del codice civile. In particolare, non è attribuito al danneggiante il potere di paralizzare - automaticamente - la domanda risarcitoria per equivalente proposta dall’interessato, mediante la mera offerta di una riparazione in forma specifica. Non vi sono, quindi, limiti espliciti, o derivanti da principi di creazione giurisprudenziale, alla utilizzabilità dell’ordinario strumento di tutela del risarcimento per equivalente.
In termini generali, peraltro, la Cassazione ha da tempo affermato il principio secondo cui la scelta del tipo di risarcimento (se in forma specifica o per equivalente) spetta al danneggiato (si veda anche Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2005 n. 6960). Gli strumenti di tutela del soggetto interessato, infatti, rientrano nella disponibilità della parte, la quale, in base alle circostanze, può ritenere preferibile l’una o l’altra forma di realizzazione dell’interesse leso dal comportamento illecito del danneggiante. Tale principio opera anche nei casi in cui il danno discenda dalla materiale apprensione di un bene e dalla sua radicale trasformazione fisica, e il risarcimento in forma specifica miri alla restituzione del bene, ovviamente nel suo stato originario e con le medesime potenzialità di utilizzazione presenti prima dell’evento dannoso.
La stessa giurisprudenza, tuttavia, ha chiarito che la regola dell’alternatività non osta a che il danneggiante, secondo i principi generali in tema di obbligazione, e fino a quando non intervenga la sentenza esecutiva, risarcisca spontaneamente il danno, anche in forma diversa da quella scelta dal creditore, salva la possibilità, per quest'ultimo, di rifiuto, che, ove ingiustificato e determinante un aggravamento del danno, comporta, tuttavia, la riduzione del risarcimento dovuto, ai sensi dell'art. 1227, comma 2, c.c. (Cass. Civ., Sez. III, 21 maggio 2004, n. 9709).
In questa prospettiva, quindi, solo il comportamento materiale dell’autore dell’illecito, che si sostanzia nella concreta eliminazione del danno, potrebbe comportare la riduzione, anche cospicua, dell’obbligazione risarcitoria, secondo le coordinate dell’articolo 1227 del codice civile. E non potrebbe escludersi nemmeno che il danneggiante riesca ad eliminare completamente il danno prima della pronuncia della sentenza di condanna.
Ma occorre ribadire, che, per la giurisprudenza della Cassazione, anche in queste ipotesi, la condotta del debitore non è sempre idonea a fermare – ope iuris - la pretesa risarcitoria del danneggiato, il quale, in base alle circostanze concrete - potrebbe rifiutare, giustificatamene, il risarcimento specifico, preferendo l’equivalente monetario. Si pensi ai casi in cui la restituzione della cosa avvenga a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’illecito e dall’inizio dell’utilizzazione dell’immobile.
6. – In ragione di quanto fin qui osservato può affermarsi che la disciplina specifica contenuta nell’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni non prevede, in materia di risarcimento del danno subito dal proprietario, regole contrastanti con i principi generali espressi dal codice civile e dallo stesso articolo 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998.
La specialità della normativa si innesta nel quadro sistematico della tutela risarcitoria, dettando alcune significative deroghe, le quali, tuttavia, non intaccano la persistente cogenza del principio di alternatività tra la tutela risarcitoria e la reintegrazione in forma specifica.
La disposizione, sul piano letterale, descrive un meccanismo caratterizzato dalla sequenza tra una richiesta di restituzione del bene e una determinazione del soggetto pubblico diretta ad operare l’acquisizione del bene e la conseguente metamorfosi della pretesa alla restituzione del bene in un diritto di credito al risarcimento del danno per equivalente.
Non sembra dubitabile, quindi, che il nuovo istituto introdotto dall’articolo 43 intenda eliminare la cosiddetta "anomalia" dell’occupazione appropriativa, di origine giurisprudenziale, ma poi recepita dal legislatore, conseguente al fatto materiale dell’irreversibile trasformazione dell’immobile (seppure nell’ambito di una efficace dichiarazione di pubblica utilità), riconducendo sempre il trasferimento coattivo dell’immobile, in danno del proprietario, ad un motivato provvedimento dell’amministrazione, ascrivibile al genus degli atti espropriativi per ragioni di interesse pubblico.
Ma, appunto, tanto la lettera della disposizione, quanto la sua ratio, intendono regolare, innovativamente, le ipotesi di trasferimento coattivamente imposte al proprietario, senza nulla dire in ordine alla perdita della proprietà derivante da una scelta spontanea dell’inte-ressato: in tale secondo caso devono applicarsi i principi comuni in materia di risarcimento del danno.
Nella prospettiva civilistica delle modalità di attuazione della tutela risarcitoria, quindi, secondo la giurisprudenza più recente della Cassazione, non emergono ostacoli di sorta in ordine alla possibilità, per il privato danneggiato, di chiedere il risarcimento per equivalente, anziché la restituzione del bene.
Detta domanda è certamente ammissibile, sul piano processuale, ferma restando la possibilità di verificare se, sul piano sostanziale e "materiale", il danno sia stato già, in tutto o in parte, eliminato dall’amministrazione, mediante la rimessione in pristino dell’immobile e la sua effettiva messa a disposizione in favore del proprietario spossessato. Detta circostanza di fatto, che deve essere dimostrata dall’amministrazione autrice dell’illecito e presuppone, in ogni caso, l’assenza di un rifiuto giustificato del danneggiato, peraltro, può rilevare ai soli fini dell’applicazione dell’articolo 1227 del codice civile e non paralizza, sul versante processuale, l’ammissibilità della richiesta di risarcimento per equivalente. Né, per quanto si è sopra osservato, può assumere una qualche valenza la circostanza che i fatti siano intervenuti in epoca precedente rispetto all’entrata in vigore dell’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001.
7. – Scrutinata con esito favorevole la problematica avente ad oggetto la proponibilità della domanda risarcitoria ex. art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni nel caso in esame, deve procedersi ad individuare la spettanza della pretesa risarcitoria in capo al soggetto privato del bene a seguito del verificarsi dell'irreversibile trasformazione del suo fondo, per il compiersi dell'edificazione di edilizia residenziale pubblica.
Come è noto tale fattispecie è stata, da ultimo, indagata dalla Corte Costituzionale che, dopo l’intervento della Corte di Strasburgo, con la sentenza 24 ottobre 2007 n. 349 si è specificamente pronunziata in ordine al risarcimento del danno subito a causa della occupazione acquisitiva, sulla questione sollevata in riferimento all'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione ed in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU) nonché all'art. 117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all'art. 6 della CEDU ed all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, in ordine alla legittimità costituzionale dell'art.