TAR Bolzano, sez. I, sentenza 2022-02-24, n. 202200056
Sintesi tramite sistema IA Doctrine
L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.
Segnala un errore nella sintesiTesto completo
Pubblicato il 24/02/2022
N. 00056/2022 REG.PROV.COLL.
N. 00015/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa
Sezione Autonoma di Bolzano
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 15 del 2021, proposto da
A M, rappresentato e difeso dall'avvocato M S, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio, in Bolzano, viale Stazione, n. 5;
contro
Comune di Laives, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato di Trento, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico presso gli uffici della stessa, in Trento, largo Porta Nuova, n. 9;
nei confronti
H C, rappresentata e difesa dagli avvocati G B e H N, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il loro studio, in Bolzano, via Dott. Streiter, n. 12;
per l'annullamento
del provvedimento di diniego dd. 29.10.2020 avente ad oggetto “ Prat. ed. 31/2017 - Provvedimento di diniego - Ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d'uso della p.m. 1 da agricoltura in abitazioni convenzionate ai sensi dell'art. 107 commi 16 e 23 della L.P. 11.08.1997 n. 13 sulla p.ed. 85/1 C.C. Laives ”
nonché, per quanto occorrer possa, della nota dd. 31.07.2020 avente ad oggetto “ Prat. ed. 31/2017 - Interlocutoria di diniego - Ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d'uso della p.m. 1 da agricoltura in abitazioni convenzionate ai sensi 2 dell'art. 107 commi 16 e 23 della L.P. 11.08.1997 n. 13 sulla p.ed. 85/1 C.C. Laives ”
e di ogni atto infraprocedimentale, propedeutico, conseguenziale o comunque connesso, anche se non espressamente richiamato, tra cui i pareri della commissione edilizia comunale del 14.07.2020 e, rispettivamente, del 20.10.2020;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Laives e di H C;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 febbraio 2022 la dott.ssa Alda Dellantonio e uditi per le parti i difensori come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. È impugnato il provvedimento in epigrafe, con il quale il Comune di Laives ha negato al ricorrente la concessione edilizia per la ristrutturazione del proprio immobile, combinata al cambio di destinazione d’uso di una sua parte, che da agricola voleva trasformare in abitativa, in applicazione dell’art. 107, commi 16 e 23 della L.P. n. 13/1997.
2. L’immobile in questione, identificato dalla p.ed. 85/1 C.C. Laives sita nel verde agricolo, è costituito da un edificio masale a corpo unico, composto da una parte abitativa e una agricola adibita a stalla/fienile, ed è diviso nelle porzioni materiali 1 e 2, di cui solo la prima appartiene al ricorrente, mentre la seconda è di proprietà della controinteressata (doc. 3 del ricorrente).
3. Avendo in animo di ristrutturare la propria porzione di fabbricato e trasformarne in volume abitativo la parte agricola ormai in disuso, il ricorrente si è rivolto al Comune di Laives per ottenere il necessario titolo edilizio.
4. L’intervento progettato prevedeva in particolare a) la ristrutturazione della parte già abitativa della p.m. 1, comprensiva del sottotetto sul lato ovest dell’edificio, indicato nel piano di divisione in porzioni materiali come “ granaio ” (cfr. doc. 3 del ricorrente);b) l’ampliamento del fabbricato a norma dell’articolo 107, comma 16, della L.P. n. 13/1997, utilizzando la quota parte del contingente massimo di 150 mc, previsto dalla disposizione richiamata, in misura proporzionale rispetto alla volumetria abitativa già di proprietà esclusiva del ricorrente;c) la trasformazione, ai sensi del successivo comma 23, del volume agricolo in abitazioni convenzionate, utilizzando la quota parte del contingente massimo di 2.000 mc agricoli convertibili, previsto dalla norma, in misura proporzionale rispetto alla volumetria agricola di sua esclusiva proprietà.
5. Stando a quanto dichiarato nella relazione tecnica, il progetto non prevedeva interventi sulle parti comuni, eccedenti quanto ammesso dall’art. 1102 c.c. (doc. 4 della ricorrente).
6. La commissione edilizia comunale, occupatasi del progetto in questione nella seduta del 14.7.2020, si è espressa contro l’intervento. Il suo parere negativo, ostativo al rilascio del titolo edilizio, è stato comunicato all’interessato con nota del 31.7.2020, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 11- bis , L.P. n. 17/1993 (doc. 2 del ricorrente).
6.1. La commissione edilizia ha ritenuto in particolare: a) che non era condivisibile il criterio impiegato per determinare la quota parte della cubatura di pertinenza della p.m. 1 sia ai fini dell’ampliamento ex art. 107, comma 16, della L.P. n. 13/1997, sia a quelli della trasformazione della cubatura agricola in abitazioni, ai sensi del seguente comma 23, dovendosi attribuire alla cubatura dell’immobile natura di “ bene comune ”, del quale il singolo condomino non può disporre senza il consenso degli altri;b) che l’intervento avrebbe potuto influire sulla statica del fabbricato, sicché le modifiche previste dal progetto non potevano essere considerate innovazioni conformi all’art. 1120 c.c.;c) che mancava la sottoscrizione del comproprietario in relazione alle opere previste sulla p.f. 2146;d) che erano insufficienti i documenti forniti dall’interessato a dimostrazione della destinazione d’uso residenziale di alcuni locali e del sottotetto esistente, indicato invece nel piano di divisioni in porzioni materiali come “ granaio ”, da ciò derivando la natura agricola del relativo volume in ragione della prevalete destinazione rurale dell’edificio;e) che era errato il calcolo della cubatura agricola di proprietà della p.m. 2 (cfr. doc. 1 della ricorrente).
7. Disattese le osservazioni presentate dall’odierno ricorrente (v. suo doc. 6) in opposizione ai descritti appunti sollevati dall’organo di consulenza tecnica del Comune, il progetto è stato definitivamente rigettato per le seguenti precipue ragioni: a) manca il consenso della comproprietaria con riguardo alla trasformazione di quota parte della cubatura agricola in volume abitativo, alla realizzazione del muro tagliafuoco al piano sottotetto, previsto in parte a carico della p.m. 2, di diversa proprietà e all’intervento a carico della p.f. 2146, di proprietà comune;b) non è dimostrata la natura residenziale del volume definito come “ granaio ” nel piano di divisione in porzioni materiali;di essa va affermato il carattere agricolo in ragione della destinazione prevalente dell’edificio.
Quali “ ulteriori motivi ” a supporto del provvedimento di diniego l’Amministrazione ha addotto: c) che le opere incidenti sulle parti comuni (in particolare l’ampliamento dell’accesso del nuovo garage di pertinenza del piano terra, l’inserimento di tre nuovi balconi al primo piano e la modifica sostanziale della struttura del tetto) non possono essere considerate innovazioni conformi all’art. 1120 c.c.;d) non è stata fornita documentazione idonea a dimostrare la natura residenziale o agricola di alcuni locali, sì da rendere impossibile la suddivisione, tra le due porzioni materiali da cui è composto l’edificio, del volume esistente in ragione della rispettiva destinazione d’uso.
8. Il ricorrente impugna, dunque, il provvedimento di rigetto affidandosi a un unico articolato motivo che tratta punto per punto tutte le ragioni addotte dal Comune a sostegno del provvedimento di diniego, assumendone l’illegittimità per violazione degli articoli 885 e 1100 e seguenti del codice civile, dell’art. 107, commi 16 e 23, della L.P. n. 13/1997, dell’art. 1 della L.P. n. 17/1993, dei principi di buona amministrazione e del giusto procedimento di cui all’art. 97 Cost., e il vizio di eccesso di potere nelle sue diverse figure sintomatiche.
9. Il ricorrente sostiene in estrema sintesi a) che non serve il consenso della proprietaria della p.m. 2 per la trasformazione del volume agricolo già incluso nella p.m. 1 di sua esclusiva proprietà, poiché l’art. 107, comma 23, L.P. n. 13/1997 fissa semplicemente un limite volumetrico per la conversione in residenza di cubatura agricola preesistente, non più utilizzata per la conduzione dell’azienda, non configurabile come “ bene comune ”, soggetto, per la sua utilizzazione, al consenso del condomino;si tratta quindi unicamente di stabilire quanta parte di quel contingente di volume rurale trasformabile spetti ai singoli proprietari, in ragione della propria quota di proprietà esclusiva calcolata sul volume agricolo complessivo;b) che non serve il consenso della proprietaria della p.m. 2 nemmeno per il muro tagliafuoco al piano sottotetto, previsto a cavallo tra la p.m. 1 e la parte comune tra le pp.mm. 1 e 2 (non sarebbe, infatti, incisa la p.m. 2, come erroneamente affermato dall’Amministrazione), poiché si tratta del mero ripristino della parete preesistente;in ogni caso, ai sensi dell’art. 885 c.c., spetta al comproprietario del muro comune il diritto di alzarlo, formando una proprietà separata ed esclusiva della sopraelevazione;da ultimo, volendo disattendere entrambe le esposte ragioni, il diniego dell’istanziato titolo edilizio ben potrebbe limitarsi al solo muro in questione, che può essere riprogettato sulla sola p.m. 1;quanto alle opere minori di demolizione del pollaio (peraltro già da tempo avvenuta) sulla comune p.f. 2146, la mancanza del consenso della proprietaria della p.m. 2 può condurre al massimo a denegare la concessione edilizia nella limitata parte a esse relativa, non trattandosi di un’omissione suscettibile d’incidere sul titolo edilizio nel suo complesso;c) che il vano sottotetto definito come “ granaio ” nel piano di divisione in porzioni materiali costituisce indubbiamente cubatura abitativa, essendo stato utilizzato come vano accessorio della parte residenziale del maso;d) che non è pertinente il richiamo all’art. 1120 c.c., relativo alle innovazioni alla cosa comune decise dalla maggioranza dei condomini, trattandosi, nel caso di specie, della diversa ipotesi di un intervento del singolo condomino sulla sua proprietà esclusiva (p.m. 1) con alcune opere incidenti sulla facciata e sul tetto comuni (l’ampliamento dell’accesso al nuovo garage, la realizzazione di tre balconi al primo piano e la modifica del tetto), comprese nei limiti di quanto ammesso dall’art. 1102 c.c, senza necessità alcuna di acquisire il consenso della proprietaria della p.m. 2;e) che non vi è carenza dimostrativa in ordine alla destinazione d’uso di taluni locali, posto che il progetto è stato corredato di un puntuale calcolo dei volumi con l’indicazione delle rispettive destinazioni, calcolo che, ove messo in dubbio dall’Amministrazione, avrebbe dovuto da questa essere puntualmente contestato, non bastando certo, a fronte di un edificio risalente a un tempo antecedente all’introduzione dell’obbligo di acquisire un titolo edilizio, rilevare l’assenza, del tutto ovvia, di documentazione tecnica rappresentativa dello stesso.
10. Si sono costituiti in giudizio sia il Comune di Laives sia la controinteressata che, spiegate le proprie difese a sostegno della legittimità del provvedimento impugnato, concludono per il rigetto del gravame che ritengono infondato.
11. Con ordinanza 185/2021 il Collegio ha disposto la consulenza tecnica d’ufficio per verificare, sulla scorta del richiesto ausilio tecnico, a) “ la destinazione d’uso dei locali/ambienti oggetto della denegata concessione edilizia e, in particolare, di quelli per i quali il Comune reputa sussistano incertezze (quali granaio, magazzini e legnaia ad uso residenziale, cantina ad uso agricolo) ”;b) “ la correttezza del calcolo proporzionale di cubatura allegato dal ricorrente a sostegno della propria istanza di concessione edilizia ”.
12. All’elaborato peritale, depositato il 19.11.2021, hanno fatto seguito, in vista dell’udienza fissata per la discussione del ricorso, gli scritti difensivi delle parti, volti a ribadire le proprie tesi anche in relazione agli esiti della consulenza tecnica, e a contestare quelle avversarie.
13. All’udienza pubblica del 9.2.2022 la causa è stata infine trattenuta per la decisione.
14. Il ricorso è fondato.
15. Va chiarito, anzitutto, che la vicenda trattata rientra nell’ambito d’applicazione della L.P. n. 13/1997 (vecchia legge urbanistica), in virtù della disposizione transitoria contenuta all’art. 103, comma 2, della L.P. n. 9/2018 (nuova legge per il paesaggio e il territorio), secondo la quale “ le procedure per l'approvazione di … progetti che, alla data del 30 giugno 2020, risultavano già avviate possono essere concluse in base alle norme e alle disposizioni procedimentali in vigore fino a tale data ”.
La domanda di concessione edilizia che ne occupa risale, secondo quanto è dato apprendere dal provvedimento di diniego dedotto in lite (doc. 1 della ricorrente), al 29.6.2020. Al procedimento amministrativo con essa avviato si applica pertanto la disciplina dettata dalla L.P. n. 13/1997, in quel momento in vigore, atteso che a mente dell’art. 107 della L.P. n. 9/2018 la nuova legge urbanistica è entrata in vigore il primo luglio 2020.
16. Ciò chiarito, viene in rilievo, per prima, la tematica inerente al preteso consenso della proprietaria della p.m. 2 in ordine alla trasformazione della cubatura rurale compresa nella p.m. 1, di proprietà esclusiva del ricorrente, alla realizzazione di una parete tagliafuoco al piano sottotetto, a cavallo tra la p.m. 1 e la parte comune alle pp.mm. 1 e 2, e alla demolizione del pollaio sulla comune p.f. 2146.
16.1. Per quanto attiene alla trasformazione del volume rurale incluso nella p.m. 1, secondo la facoltà contemplata dall’art. 107, comma 23, della L.P. n. 13/1997, il Collegio concorda con il ricorrente nel ritenere che, contemplando la norma citata un semplice limite numerico alla cubatura trasformabile dalla destinazione agricola a quella residenziale, egli poteva liberamente disporre del volume rurale in sua esclusiva proprietà per volgerlo all’uso abitativo nella quota di sua spettanza.
16.2. La disposizione richiamata consente, infatti, che “ i fabbricati rurali con almeno 400 metri cubi esistenti o autorizzati alla data di entrata in vigore della legge provinciale 20 settembre 1973, n. 38, e al momento della presentazione della domanda di concessione edilizia siti nel verde agricolo e non più utilizzati per la conduzione di aziende agricole ”, possano “ essere trasformati, nei limiti della cubatura esistente, qualora si tratti di edifici più grandi nel limite massimo di 2.000 metri cubi, in abitazioni convenzionate, a condizione che siano situati a una distanza inferiore a 300 metri dal prossimo centro edificato delimitato ai sensi dell'articolo 12 della legge provinciale 15 aprile 1991, n. 10, e successive modifiche, e che vengano allacciati alla rete idrica e alla fognatura comunale ”.
16.3. Non si tratta quindi di un diritto edificatorio ma della mera facoltà di trasformare volumi già esistenti, non più utilizzati per scopi agricoli, in alloggi convenzionati entro il limite massimo di volume indicato dalla disposizione.
16.4. Nel caso che ne occupa il ricorrente intende trasformare il volume agricolo incluso nella porzione materiale 1 di sua esclusiva proprietà. Non si tratta, quindi, di un intervento su un bene comune, come erroneamente assume il Comune intimato.
16.5. Il problema che si pone riguarda, invece, la soglia dimensionale di detta trasformazione, posto che la disposizione all’esame fissa in 2000 mc per edificio rurale il limite massimo di volume convertibile all’uso residenziale.
Considerato che la cubatura agricola del fabbricato che ne occupa, distribuita tra le pp.mm. 1 e 2, supera nel suo complesso il limite in questione, il proprietario di ciascuna p.m. non può ambire alla trasformazione di tutto il proprio volume agricolo, ma solo di una sua parte.
Essa va quantificata, tenuto conto del limite massimo complessivo ammesso alla trasformazione ai sensi del citato comma 23, in proporzione alla quota di volume rurale in proprietà esclusiva rapportata al volume agricolo dell’intero edificio.
16.6. In definitiva è dunque da ritenersi illegittima la pretesa dell’Amministrazione di assoggettare al consenso della controinteressata la trasformazione del volume agricolo compreso nella p.m. 1, di proprietà esclusiva del ricorrente.
16.7. Quanto all’esatta determinazione del volume agricolo di proprietà esclusiva del ricorrente, suscettibile di essere trasformato in abitazioni convenzionate ai sensi della disposizione all’esame, si dirà in seguito, dopo avere esaminato la questione delle destinazioni d’uso di taluni ambienti, contestate dal Comune.
16.8. Non erra, invece, il Comune nel ritenere che per il muro tagliafuoco al piano sottotetto sia necessario il consenso del comproprietario della superficie su cui esso insiste.
L’opera in questione è prevista, per il ricorrente, a cavallo tra la p.m. 1, di sua proprietà, e la parte comune alle pp.mm. 1 e 2, quest’ultima della controinteressata, per il Comune essa, invece, va a insistere in parte sulla p.m. 1 e in parte sulla p.m. 2.
È, inoltre, incerto per le stesse parti, se si tratti del ripristino di un muro preesistente oppure no.
16.9. Ritiene il Collegio, senza dover dirimere i rilevati dubbi, ininfluenti ai fini della soluzione della questione all’esame, che il muro in parola, per quanto hanno in comune le pur diverse prospettazioni delle parti, integri una lavorazione certamente eccedente la proprietà esclusiva del ricorrente e richiede di conseguenza che sia decisa secondo le norme che regolano la proprietà comune.
Non è risolutivo nel senso auspicato dal ricorrente il richiamo all’art. 885 c.c., atteso che la disposizione disciplina la diversa ipotesi dell’” innalzamento del muro comune ”, laddove nel caso che ne occupa non si tratta di alcun innalzamento, bensì di realizzare, in via di ripristino oppure di nuova costruzione, un muro tagliafuoco.
16.10. Ne segue che, in assenza del consenso da parte della controinteressata, il muro non può essere realizzato sulla parte in comproprietà o in proprietà esclusiva di quest’ultima. Tenuto conto, tuttavia, che si tratta di una lavorazione del tutto marginale, priva d’incidenza sul progetto nel suo complesso, l’impossibilità della sua approvazione per carenza, in capo al ricorrente, del titolo che lo legittima a richiedere la concessione edilizia, non giustifica il rigetto integrale della relativa domanda, bastando la sua espunzione dal titolo autorizzatorio.
16.11. Parimenti irreprensibile è il provvedimento impugnato nella parte in cui rileva l’omessa acquisizione dell’assenso della comproprietaria della p.f. 2146, necessario per l’intervento ivi previsto secondo il progetto, a nulla rilevando che si tratta della demolizione di un pollaio. Quanto alla circostanza che la sua eliminazione sia in realtà già avvenuta non muta il fatto che la concessione è stata richiesta anche per la descritta demolizione di un bene certamente in comproprietà alla controinteressata, sicché non sussiste in capo al solo ricorrente la legittimazione a richiedere il relativo titolo edilizio.
Trattandosi, anche con riguardo all’intervento previsto sulla p.f. 2146 in proprietà comune, di una lavorazione assolutamente secondaria, priva di rilievo sul complessivo intento progettuale e da esso agevolmente scindibile, le ragioni ostative alla sua approvazione non valgono a impedire il rilascio del titolo edilizio nella sua interezza, essendo sufficiente l’esclusione da esso dell’intervento in questione.
17. Il contestato provvedimento di rigetto è invece illegittimo, laddove imputa al ricorrente un difetto dimostrativo in ordine alla destinazione d’uso di taluni vani della p.m. 1, dal quale deriverebbe l’impossibilità di stabilire l’entità del volume abitativo e di quello rurale di sua esclusiva proprietà e dunque, da un lato la cubatura già destinata all’uso residenziale, interamente recuperabile, dall’altro, quella agricola da trasformare in abitazioni convenzionate a sensi dell’art. 107, comma 23, L.P. n. 13/1997, nei limiti della quota parte determinata secondo il criterio già descritto al precedente punto 16.5.
17.1. Sul punto valga quanto accertato dal consulente tecnico incaricato d’ufficio. Egli, in seguito a una minuziosa attività ricognitiva condotta sull’accurato esame della documentazione tecnica disponibile, accompagnato da diversi sopralluoghi e dal rilievo dell’intero edificio, ha determinato, sulla scorta di un ragionamento tecnico scevro da profili di illogicità, incongruenza o incompletezza, non intaccato dalle osservazioni delle parti, e perciò pienamente condiviso dal Collegio, la destinazione d’uso di ogni singolo locale, compreso il contestato “ granaio ”, sia della p.m. 1 che della p.m. 2, per ogni piano dell’edificio masale. Il consulente tecnico ha, inoltre, quantificato, calcolandola per parti omogenee dell’edifico, connotato da una variegata articolazione altimetrica dei vari locali in tutti i piani, la cubatura totale fuori terra, determinandola in complessivi 4.959,82, mc (superiore addirittura a quella indicata dal progettista per 272,72 mc);ha indicato la divisione proporzionale corretta per il riparto del volume agricolo tra la p.m. 1 e la p.m. 2, in 41,58% per la prima e 58;42% per la seconda;ha, infine, quantificato il volume urbanistico agricolo trasformabile per la p.m. 1 in 831,60 mc e in 2.065,80 la cubatura urbanistica complessiva ad uso abitativo della p.m. 1 (di cui 831,60 mc volume rurale trasformato e 1.234,2 mc volume già abitativo);ha, infine, evidenziato che adottando, quale metodo di calcolo del volume, quello cd. del “ vuoto per pieno ”, le differenze risultano essere minime, ossia: 5.097,07 mc il volume complessivo fuori terra, 833,00 mc il volume urbanistico agricolo trasformabile per la p.m. 1, 2.068,06 mc il volume urbanistico complessivo ad uso abitativo della p.m. 1 (di cui 833,00 mc volume rurale trasformato e 1.235,06 mc volume già abitativo), laddove la quota proporzionale per la suddivisione tra le due porzioni materiali del volume rurale trasformabile si attesta, per la p.m. 1 sul 41,65%, e per la p.m. 2 su 58,35%.
17.2. Gli esiti peritali quantificano, dunque, in complessivi 2.065,80 mc (oppure, con il secondo criterio di calcolo, in complessivi 2.068,06 mc) il volume a disposizione del ricorrente per la realizzazione del progetto di ristrutturazione della parte masale individuata come p.m.1, con trasformazione in abitazioni convenzionate della cubatura agricola in disuso.
Il volume disponibile, così determinato, supera di molto quello di progetto, pari a 1.743,62 mc (doc. 7 del ricorrente), valore, quest’ultimo indenne da contestazioni da parte dell’Amministrazione.
17.3. Ne discende che l’intervento, per il quale il ricorrente ha chiesto il rilascio del titolo edilizio, è ampiamente giustificato, senza nemmeno dover impegnare la quota parte d’incremento volumetrico di cui all’art. 107, comma 16, della L.P. n. 13/1997, spettante alla p.m. 1.
18. Illegittima, infine, è anche la ragione di diniego del titolo edilizio che il Comune riassume nell’affermazione sibillina, secondo la quale “ alcune modifiche proposte con questo progetto (l’ampliamento dell’accesso del nuovo garage di pertinenza al piano terra, l’inserimento di tre nuovi balconi al primo piano e la modifica sostanziale della struttura del tetto) non si possono considerare innovazioni conformi all’art. 1120 del codice civile ”.
18.1. Occorre, innanzi tutto, ricordare in punto di fatto, che il progetto all’esame - salvo quanto sopra precisato con riguardo alla demolizione del pollaio sulla p.f. 2146 C.C. Laives, di proprietà comune - contempla un intervento di ristrutturazione e trasformazione di volume rurale in abitazioni convenzionate circoscritto alla porzione materiale 1 della p.ed. 85/1, ossia a una parte dell’edificio masale di proprietà esclusiva del ricorrete, ad eccezione di alcune modifiche funzionali all’opera, incidenti sulla facciata e sul tetto comuni.
Si tratta di un’iniziativa edilizia imputabile al solo ricorrente e che involge solamente la sua proprietà esclusiva, salvo le modifiche alle parti comuni, funzionali “ al miglior godimento della cosa ”, che nella relazione tecnica al progetto sono declinate quali estrinsecazioni della facoltà d’uso e di modifica della cosa comune spettante a ogni condomino ai sensi dell’art. 1102 c.c. e nei ristretti limiti da esso contemplati.
La disposizione del codice civile invocata dall’Amministrazione a motivo dell’impugnato diniego riguarda, di contro, la diversa ipotesi delle “ innovazioni ” che i condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell’art. 1136 c.c., possono disporre per il miglioramento, l’uso più comodo o il maggior rendimento delle cose comuni.
Si tratta, in sostanza, del diverso caso in cui l’assemblea condominiale delibera interventi innovativi sulle parti comuni del condominio.
18.2. La norma richiamata nel contestato provvedimento di diniego, dunque, poiché relativa alle innovazioni decise dall’assemblea dei condomini, non è pertinente al caso dedotto in lite, in cui l’iniziativa edilizia è assunto dal singolo. La prospettazione della sua violazione è perciò del tutto fuori luogo con conseguente illegittimità dell’impugnato provvedimento di diniego anche sotto il profilo da ultimo esaminato.
18.3. L’improprio richiamo all’art. 1120 c.c. si chiarisce, comunque, alla luce della comunicazione dei motivi ostativi all’approvazione del progetto (doc. 2 del ricorrente), in cui si prospetta la “ possibile ” incidenza di alcuni lavori, ossia l’ampliamento dell’accesso al nuovo garage di pertinenza al piano terra, l’inserimento di tre nuovi balconi al primo piano e la modifica sostanziale del tetto, sulla statica dell’edificio;si tratterebbe, perciò, di “ innovazioni non conformi all’art. 1120 c.c. ”.
18.4. Atteso che la richiamata disposizione ammette la maggioranza dei condomini ad apportare innovazioni alle cose comuni per il loro miglioramento, l’uso più comodo o il maggior rendimento, mentre vieta quelle che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, con il richiamo all’art. 1120 c.c., il Comune ha inteso evidentemente opporre all’odierno ricorrente il difetto di legittimazione a richiedere, da solo, il rilascio del titolo edilizio per dette opere, incidenti su parti comuni del fabbricato, senza che vi sia stato il consenso della proprietaria dell’altra porzione materiale, la p.m. 2, di cui si compone l’edifico. Seppur con una formulazione scarsamente intelligibile, il Comune ha in sostanza ritenuto che l’opera progettata, nella parte incidente sulla facciata e sul tetto, esorbitasse dai limiti cui è assoggettato il godimento della cosa comune da parte del singolo condomino con conseguente difetto di legittimazione in capo al medesimo a presentare domanda per il rilascio della necessaria concessione edilizia.
18.5. Il Collegio converge, sul punto, sulla tesi del ricorrente, secondo il quale il Comune, con l’implicita – ma pur evincibile - pretesa del consenso unanime di entrambi i comproprietari, abbia trasceso i limiti entro i quali l’Amministrazione è tenuta a verificare la legittimazione del condomino a proporre domanda di rilascio della concessione edilizia.
18.6. Occorre prendere le mosse dal costante orientamento giurisprudenziale, condiviso anche da questo Tribunale in numerose pronunce, secondo il quale l’Amministrazione, dovendo accertare la sussistenza del titolo legittimante il richiedente a domandare il rilascio del titolo edilizio, non è tenuta a svolgere complessi accertamenti diretti a ricostruire le vicende riguardanti la titolarità dell’immobile o a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire. In altre parole, non è esigibile un approfondimento del Comune di ogni singolo aspetto privatistico relativo ai rapporti tra i condomini e di vicinato, astrattamente idoneo a riflettersi sulla legittimazione del richiedente il titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15.11.2017, n. 5270;vedasi anche l’ivi richiamata pronuncia del Cons. Stato, Sez. IV, 22.11.2013, n. 5563). Tanto è che la concessione edilizia è sempre rilasciata con salvezza dei diritti di terzi.
18.7. Ne segue che l’accertamento dell’eventuale lesione della posizione giuridica dei condomini per la violazione delle norme privatistiche potrà essere portata alla cognizione del giudice ordinario, fornito dei relativi poteri anche cautelari, non spettando all’Amministrazione procedente dirimere compiutamente tali questioni e sfuggendo alla giurisdizione del Giudice amministrativo, eventualmente adito, di pronunciarsi su di esse.
18.8. È vero che in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, il Comune non può esimersi “ dal verificare il rispetto, da parte dell’istante, dei limiti privatistici sull’intervento proposto, ciò tuttavia vale solo nel caso in cui tali limiti siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili, di modo che il controllo da parte del Comune si traduca in una mera presa d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati (cfr. Cons. Stato, Sez IV, 30 dicembre 2006, n. 8262;Cons. Stato, Sez VI, 20 dicembre 2011, n. 6731;Cons. Stato, 26 gennaio 2015, n. 316) ” (così Cons. Stato, Sez. VI, 15.11.2017, n. 5270).
18.9. Applicando il principio enunciato al caso che ne occupa, per verificare se il singolo condomino che intenda apportare modifiche alla facciata e al tetto comuni sia o meno legittimato a presentare domanda di concessione edilizia, viene in rilievo l’art. 1102 c.c., secondo il quale ciascun partecipante al condominio è titolare del diritto di uso del bene comune. Può cioè servirsene nel rispetto della destinazione impressa al bene e in modo tale da non pregiudicare il pari uso spettante agli altri condomini (cfr. Cass. Civ. nn. 1062/2011;1076/2005;16907/2003;8886/2000).
La norma, pur costituendo disciplina propria della comunione, trova applicazione nel condominio in virtù del rinvio operato dall’art. 1139 c.c. " per quanto non espressamente previsto ".
Va sottolineato che l’art. 1102 c.c. comprende nel godimento individuale anche il potere di apportare modifiche, a proprie spese, al bene comune, ovviamente nel rispetto dei citati limiti di carattere generale all'uso della cosa in situazione di condominio.
Ciascun comproprietario può trarre dunque dal bene comune un'utilità maggiore di quella che ne traggono gli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di questi ultimi.
18.10. La Suprema Corte ha precisato (sent. n. 3508/1998) che per tali modifiche, sempre che non alterino la destinazione del muro, non impediscano l’altrui pari uso e/o non compromettano il decoro dello stabile, non c’è alcuna necessità di ottenere l’approvazione assembleare, trattandosi di esercizio delle facoltà inerenti al diritto dominicale su parti comuni.
18.11. Conducendo a opportuna sintesi quanto sin qui esposto, va riconosciuto il diritto del singolo condomino a modificare la cosa comune ai sensi e nei limiti di cui all’art. 1102 c.c., consentendo pari diritto agli altri condomini e senza alterarne destinazione d'uso e decoro. L’esercizio di detto diritto non richiede la previa approvazione assembleare.
18.12. Trattandosi, tuttavia, di uno ius aedificandi limitato, il Comune, nel vagliare la sussistenza del titolo che legittima il condomino a richiedere la concessione edilizia, deve attenersi ai principi enucleati dalla giurisprudenza, cui s’è fatto cenno in precedenza. Deve cioè tenere conto del fatto che “ la funzione autorizzatoria dell'Amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria che comprende l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l'istanza e il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione, al fine di assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio, senza che l'esame del titolo di godimento operato dalla Pubblica Amministrazione costituisca un'illegittima intrusione in ambito privatistico;l'Amministrazione non è obbligata a complessi e laboriosi accertamenti, anche per non aggravare il procedimento, e non è posto a suo carico l'onere probatorio di appurare l'eventuale esistenza di servitù o di altri vincoli reali che limitano l'ampiezza del titolo di proprietà. Soltanto nel caso in cui tali limiti siano accertati, il Comune non può ignorarli, pena un'insufficiente istruttoria ” (cfr. T.A.R. Lecce, 18.12.2007, n. 4286).
18.13. Su queste coordinate ermeneutiche deve escludersi, nel caso di specie, che il Comune abbia potuto accertare la trascendenza delle opere incidenti sulle parti comuni del fabbricato rispetto ai limiti dettati dall’art. 1102 c.c.. Ne è prova la locuzione impiegata nel preavviso di rigetto, e nemmeno replicata nell’ancor più sibillino enunciato contenuto nel diniego definitivo, secondo la quale si tratta d’interventi “ che possono influire sulla statica dell’edificio ” (cfr. doc. 2, del ricorrente, pag. 2, rigo 6).
È dunque pacifico, per il tenore puramente ipotetico dell’appunto, che l’Amministrazione, non avendo del resto i poteri per farlo, non ha compiuto alcun accertamento circa l’esorbitanza delle opere incidenti sulle parti comuni rispetto ai limiti imposti dalla norma, come è pure chiaro che la supposta eccedenza dal limite, entro cui è circoscritto il diritto del condomino di modificare la cosa comune, non fosse immediatamente percepibile, senza la necessità di non consentiti laboriosi approfondimenti.
18.14. È utile, giunti a questo punto, ricordare ancora che la concessione edilizia opera unicamente sul piano amministrativo dei rapporti di natura pubblicistica tra il Comune e il richiedente la concessione edilizia. Essa è dunque inidonea a incidere sui diritti di terzi che sono sempre fatti salvi e trovano comunque adeguata tutela giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario, chiamato a dirimere le questioni che attengono ai rapporti privatistici tra condomini e di vicinato. Queste ultime, di contro, sfuggono alle prerogative dell’Amministrazione, che deve limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo astrattamente idoneo a richiedere la concessione edilizia, senza indagare la sussistenza di eventuali limiti del medesimo che non siano conosciuti o d’immediata conoscibilità.
18.15. In definitiva è illegittimo anche il motivo di rigetto ancorato alla violazione dell’art. 1120 c.c., peraltro richiamato impropriamente.
19. Quanto sin qui esposto conduce il Collegio ad accogliere il ricorso, perché fondato nel senso e nei limiti di cui in motivazione, con la sequela delle statuizioni che ne discendono e la condanna delle parti resistenti alla rifusione delle spese di lite in favore del ricorrente.
Le spese di consulenza tecnica d’ufficio, come di seguito liquidate, vanno poste a carico definitivo dell’Amministrazione resistente e della controinteressata in ragione della metà per ciascuna parte, con il vincolo di solidarietà passiva nei rapporti con il consulente tecnico d’ufficio. Le medesime parti dovranno rifondere alla parte ricorrente l’acconto da essa eventualmente già corrisposto al consulente, in ottemperanza all’ordinanza collegiale n. 185/2021 che glielo aveva provvisoriamente posto a carico.
Per ragioni di economia processuale il Collegio ritiene opportuno procedere nel contesto della presente sentenza alla liquidazione del compenso del consulente tecnico d’ufficio, come da questi richiesto con l’istanza depositata il 7.2.2022, con la precisazione che la presente statuizione di liquidazione assume la sostanza di decreto (collegiale) di liquidazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 66, comma 4, e 67, comma 5, cod. proc. amm. e 168 D.P.R. n. 115/2002, ed è, pertanto, separatamente opponibile, ai sensi degli artt. 170 D.P.R. n. 115/2002 e 15 D.Lgs. n. 150/2011, sia dal consulente tecnico d’ufficio, sia dalle parti interessate.
Il consulente tecnico d’ufficio chiede, quale compenso per l’attività prestata, la somma di € 4.824,07, composta dagli onorari tabellari ex art. 12 del D.M. 182/2002 30 maggio 2002, nel valore massimo tariffario di € 970,42, € 1.891,33 per onorari a vacazione, € 1.860,14 di aumento per complessità dell’incarico (+ 65% - art. 52 d.P.R. 115/2002), e € 102,18 di rimborso chilometrico.
In relazione a precedenti liquidazioni di questo Tribunale e alla natura dell’incarico, considerate la qualità e quantità delle prestazioni svolte, il tempo impiegato, come desumibili dalla nota d’onorario, la tipologia dell’attività espletata e la natura dei quesiti, ritenuto che non spetti l’aumento per la complessità dell’incarico, non adeguatamente allegata, pare congruo al Collegio liquidare il compenso nell’importo di € 2.963,18.-, comprensivo dell’acconto già provvisoriamente disposto a carico della parte ricorrente, oltre agli accessori di legge (