TAR Genova, sez. I, ordinanza collegiale 2012-01-10, n. 201200021

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Genova, sez. I, ordinanza collegiale 2012-01-10, n. 201200021
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Genova
Numero : 201200021
Data del deposito : 10 gennaio 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00462/2011 REG.RIC.

N. 00021/2012 REG.PROV.COLL.

N. 00462/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 462 del 2011, proposto da:


-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv. G P, V A, M C, con domicilio eletto presso G P in Genova, via Dante 2/41;
-OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS-,-OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS--OMISSIS- -OMISSIS--OMISSIS--OMISSIS- -OMISSIS- -OMISSIS--OMISSIS- rappresentati e difesi dagli avv. V A, M C, con domicilio eletto presso G P in Genova, via Dante 2/41;
U P, D A, rappresentati e difesi dagli avv. M C, V A, con domicilio eletto presso G P in Genova, via Dante 2/41;


contro

Ministero della Giustizia, Ministero Economia e Finanze, Presidenza Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata per legge in Genova, v.le B. Partigiane, 2;

per l'annullamento e per il riconoscimento, previa idonea cautela, e con riserva di motivi aggiunti, del diritto al trattamento retributivo spettante senza tener conto delle decurtazioni di cui al comma 22 del’art. 9 del 31 marzo 2010 n. 78, come conv. con modif. in l. 30 luglio 2010 n. 122;
nonché per la condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento delle somme corrispondenti, con ogni accessorio di legge.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di Ministero Economia e Finanze e di Presidenza Consiglio dei Ministri;

Viste le memorie difensive;

Visto l'art. 79, co. 1, cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 dicembre 2011 il dott. Roberto Pupilella e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


Con ricorso regolarmente notificato e depositato i ricorrenti, tutti magistrati ordinari in servizio presso uffici giudiziari della Liguria, rientranti nella competenza di questo Tribunale amministrativo, chiedono al TAR , previa eventuale rimessione alla Corte Costituzionale di riconoscere ai ricorrenti il diritto al trattamento retributivo loro spettante inciso dalle decurtazioni derivanti dall’art. 9 comma 22 del dl.31\3\2010, n.78 come convertito con modificazioni nella l.n.122 del 30\7\2010.

La questione sottoposta al giudizio del Tribunale è già stata oggetto di diverse rimessioni alla Corte Costituzionale da parte di numerosi TAR (Tar Veneto, rgr. N.645\2011 ord. N.1685\2011;
Tar Piemonte II sez. rgr n.409\2011, ord. N.846\2011;
TAR Campania Sa, I sez. rgr.n.657\2011, ord. N.1162\2011;).

In tutti i giudizi citati, come anche nella presente controversia, l’oggetto della rimessione alla Corte Costituzionale è identico e cioè si pone in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 9 comma 22 del dl.31\3\2010, n.78 come convertito con modificazioni nella l.n.122 del 30\7\2010.

La norma citata, incidendo sugli automatismi stipendiali, creati a garanzia della indipendenza dell’ordine giudiziario, violerebbe, secondo i giudici rimettenti, il precetto dell’art. 104 Costituzione.

Irragionevole, poi, apparirebbe la crescente riduzione nel triennio della indennità giudiziaria, che costituisce una misura fissa uguale per tutti i magistrati, indipendente cioè dalla qualifica e dall’anzianità degli stessi.

La funzione della indennità giudiziaria, in ragione della ratio sottesa alla sua istituzione (L.n.27\1981) è infatti quella di compensare i magistrati degli oneri che questi incontrano nello svolgimento della loro attività.

La sua decurtazione appare dunque irragionevole e non troverebbe corrispondenza in una proporzionale riduzione degli oneri richiesti ai giudici, che anzi, in ragione delle carenze degli organici e dell’arretrato che grava su tutti i plessi giudiziari sono chiamati da anni ad aumentare la propria produttività per ridurre le somme pagate dallo Stato in relazione alla eccessiva lentezza dei processi.

Le argomentazioni sopra svolte, comuni anche al giudizio odierno hanno carattere pregiudiziale sull’esito della presente causa, ponendosi, come affermato di recente dal Consiglio di Stato (IV sez. 28\1\2011 n.693) come un indispensabile precedente logico-giuridico che costituisce la base della decisione anche della presente controversia.

Inoltre, nel caso di specie, come ribadito dalla giurisprudenza (CDS sez.VI 20 ottobre 2010, n.7592)”il vincolo di pregiudizialità riguarda l’intera res litigiosa dedotta con il ricorso, cioè investe l’intero rapporto in contestazione”.

Ciò premesso la questione sottoposta all’attenzione del Collegio appare rilevante e non manifestamente infondata sulla scorta delle seguenti argomentazioni.

In forza dell’art. 9 c. 22 del d.l. n. 78/2010, quale risultante dalle modifiche introdotte con la legge di conversione), con la c.d. manovra economica 2010), veniva, per quanto di interesse, previsto, per il personale di cui alla legge n. 27/1981:

a) che “non [fossero] erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012”;

b) che “per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 [fosse] pari alla misura già prevista per l'anno 2010 e il conguaglio per l'anno 2015 [venisse] determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014;

c) che “l’indennità speciale di cui all’ articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, [fosse] ridotta del 15 per cento per l’anno 2011, del 25 per cento per l’anno 2012 e del 32 per cento per l’anno 2013”, con riduzione non operante ai fini previdenziali;


La rilevanza della questione appare indubitabile avuto riguardo alle seguenti circostanze:

- le norme dell’art. 9 c. 22 del d.l. n. 78/2010, quale risultante dalle modifiche introdotte con la legge di conversione, sono di immediata applicazione e la domanda di riconoscimento del diritto al mantenimento della precedente disciplina del trattamento economico non può essere esaminata senza il previo scrutinio di costituzionalità delle norme primarie censurate;

- le parti ricorrenti subiscono nel corrente anno 2011 il blocco del meccanismo di adeguamento retributivo, nonché il blocco di acconti e conguagli cui avrebbe avuto altrimenti diritto ed hanno già subito la decurtazione della indennità speciale giudiziaria.


L’eventuale pronunzia di incostituzionalità delle dette disposizioni, per contro, condurrebbe de plano all’accertamento dell’illegittimità del mancato adeguamento degli stipendi e delle trattenute in parola e consequenzialmente all’accoglimento del ricorso.

La non manifesta infondatezza è evidenziata dalle seguenti considerazioni.



non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 22 del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, per violazione degli artt. 101 comma 2, 104, comma 1, 111, commi 1 e 2 e 117, comma 1 della Costituzione in relazione all’art. 6 della C.E.D.U.;
e del bilanciamento dei principi di autonomia ed indipendenza della Magistratura con le esigenze finanziarie e di bilancio dello Stato.


Il dubbio di costituzionalità per violazione delle norme indicate in rubrica sussiste sia con riferimento alle disposizioni contenute nel comma 22 dell’art. 9 riguardanti il blocco degli automatismi stipendiali (per il triennio 2011-2013) e l’apposizione di tetti ai medesimi (per gli anni 2014/2015), sia con riferimento a quella che introduce il taglio della indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 secondo aliquote differenti negli anni 2011, 2012 e 2013.

I valori dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura da ogni altro potere dello Stato sono sanciti in via generale dagli artt. 101, comma 2 (“I giudici sono soggetti soltanto alla legge”) e 104, comma 1 Cost. (“La Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”).

L’indipendenza della Magistratura è funzionale, nel disegno costituzionale, alla celebrazione di un giusto processo, come si evince dai commi 1 e 2 dell’art. 111 della Costituzione.

Analoga funzionalizzazione dell’indipendenza dei magistrati alla celebrazione del giusto processo si rinviene nell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, per il tramite dell’art. 117, 1 comma della Costituzione (nel testo vigente), è entrata a far parte diretta del nostro tessuto costituzionale (sulla predetta funzionalizzazione cfr. Corte Europea Dir. Umani, 19 giugno 2003, Hulki Gunes c. Turchia).

La necessità di “attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati…va salvaguardato anche sotto il profilo economico”, onde evitare “tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri” è stata a più riprese affermata dalla Corte Costituzionale (sentenze nn. 1/1978, 42/1993, 238/1990).

Con particolare riferimento al meccanismo del c.d. adeguamento automatico degli stipendi (essenzialmente fondato sulla garanzia di un aumento delle retribuzioni, che, sulla base di indici appositamente ed obiettivamente elaborati dall'Istituto centrale di statistica, viene assicurato “di diritto”, ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie del pubblico impiego) inciso dalla normativa in esame con riferimento al triennio 2011-2013 ed al biennio 2014/2015, la Corte ha più volte sottolineato come esso costituisca un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni in discorso, inteso alla “attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati - che va salvaguardato anche sotto il profilo economico”, “evitando tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri” (Corte Cost. 10 febbraio 1993, n. 42) - e concretizzante “una guarentigia idonea a tale scopo” (Corte Cost. ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137;
Corte 1998 n. 346;
Corte cost. 8 maggio 1990, n. 238).

La tutela costituzionale del trattamento economico dei magistrati, dunque, si estende al suo meccanismo di adeguamento automatico ma anche alla c.d. indennità giudiziaria, “intrinsecamente connessa allo status di magistrati” (Corte Costituzionale n. 238/1990), ed alla sua rivalutazione monetaria.

L’indennità di cui alla legge 19 febbraio 1091 n. 27, infatti, costituisce parte essenziale, costante e “normale” del trattamento economico complessivo del magistrato (sul punto Corte Cost., ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137;
nonché, ex multis;
Consiglio Stato, Sez. IV, 06.05.2010 n. 2646;
Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 1993, n. 401), sicché la sua natura di componente fissa della retribuzione comporta le medesime esigenze di tutela testè evidenziate.

E’ la stessa Corte Costituzionale, del resto, nelle sopra citate pronunzie n. 346/1998, 43/92 e 238/1990, ad avere ricondotto l’istituto della rivalutazione automatica della indennità giudiziaria alla ratio di tutela dell’indipendenza della Magistratura: identica ratio, a fortiori, non può che essere sottesa al trattamento principale dell’indennità stessa, di cui l’adeguamento automatico è solo aspetto accessorio.

Ha osservato la Corte che “l'indennità in esame è espressamente correlata ai particolari oneri che i magistrati incontrano nello svolgimento della loro attività, la quale tra l'altro comporta un impegno senza precisi limiti temporali, dal che discende un rigoroso collegamento con il servizio effettivamente prestato. Peraltro - ed in collegamento con la pari ordinazione delle funzioni (art. 107, terzo comma, Cost.) - essa è attribuita in misura uguale a tutti i magistrati investiti di funzioni giurisdizionali, a prescindere dall'anzianità e dalla qualifica rivestita. Specificamente connessa allo status dei magistrati è, poi, l'ulteriore, essenziale caratteristica dell'indennità in questione, costituita dall'essere essa assoggettata al medesimo meccanismo di rivalutazione automatica previsto per gli stipendi dei magistrati dal precedente art. 2 della medesima legge. In attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche sotto il profilo economico (sentenza n. I del 1978) evitando tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, il legislatore ha col citato art. 2 predisposto un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati che, in quanto configurato con l'attuale ampiezza di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo. La sua estensione anche all'indennità in discorso - corrisposta con la stessa cadenza mensile degli stipendi ne evidenzia non solo la natura retributiva, di componente del normale trattamento economico dei magistrati, ma anche la specificità rispetto alle indennità, variamente denominate, attribuite al personale amministrativo statale” (Corte Costituzionale, 8.5.1990 n. 238;
cfr. anche Corte Costituzionale, 19.01.1995 n. 15).

La tradizione costituzionale italiana risulta confermata e rafforzata dalla “Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità”, adottato a Strasburgo dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010 al fine di originare linee attuative il più possibile omogenee dell’art. 6 della C.E.D.U. In particolare, al punto 45, è specificato che “deve essere vietata ogni forma di discriminazione verso i giudici o i candidati all’ufficio di giudice”;
al punto 54, poi, è previsto che la retribuzione debba essere “commisurata al loro ruolo professionale ed alle loro responsabilità”, ed in ogni caso tale da “renderli immuni da qualsiasi pressione volta ad influenzare le loro decisioni”.

Il citato punto 54 si chiude con l’invito agli Stati membri ad adottare “specifiche disposizioni di legge per garantire che non possa essere disposta una riduzione delle retribuzioni rivolta specificamente ai giudici”.

Nello stesso ordine di idee la c.d. Magna Carta dei Giudici, del pari approvata a Strasburgo il 17 novembre 2010 dal Consiglio d’Europa - Comitato consultivo dei Giudici europei (CCJE), la quale Magna Carta, seppur beninteso priva ex se di valore cogente sotto il profilo giuridico, costituisce una decisione fondamentale alla cui luce devono essere interpretate le disposizioni interne, per la sua autorevole fonte di provenienza, esprimendo il CCJE le “tradizioni costituzionali” dei quarantasette Stati europei che ne sono membri.

Secondo l’espresso disposto degli artt. 2, 3 e 4 della Carta l’indipendenza dell’ordine giudiziario rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo va garantita anche sotto il profilo della “tutela finanziaria” della retribuzione dei magistrati;
l’art. 7 prevede espressamente che “il giudice deve beneficiare di una remunerazione e di un sistema previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che lo mettano al riparo da ogni indebita influenza”.

Si deve considerare, inoltre, che il legislatore, mediante uno strumento che apparentemente incide solo sulla retribuzione del magistrato, viene in realtà ad operare un indebito condizionamento sull'esercizio della funzione giurisdizionale, poiché costringe l’Ordine di appartenenza, quando non addirittura il magistrato come singolo, ad un confronto con il pubblico potere al fine di ripristinare le condizioni economiche originarie, o quantomeno di elidere o attenuare le conseguenze negative della misura disposta.

Tale stato di cose, generando un sotterraneo conflitto tra Istituzioni che mina alla radice la serenità del giudice, appare particolarmente grave per la specifica funzione del magistrato.

Un magistrato “condizionato”, quand'anche solo apparentemente e non nella realtà, da una misura legislativa fortemente penalizzante per i suoi interessi economici rischia di vedersi sottratto quel credito e quel prestigio di cui il singolo magistrato e l’Ordine giudiziario nel suo insieme devono sempre ed indefettibilmente godere presso la comunità dei cittadini.

La Corte costituzionale nella sentenza n. 100 del 1981 ha chiarito che “i magistrati, per dettato costituzionale (artt. 101, comma secondo e 104, comma primo, Cost.), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità: nell'adempimento del loro compito. I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione ed assicurano, nel contempo, quella dignità dell'intero ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa… Alla luce di tali considerazioni va interpretata la sentenza di questa Corte n. 145 del 1976, la quale riconosce l'esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell'ordine giudiziario, che rientra senza dubbio tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti”.

Alle stesse conseguenze di “appannamento” della neutralità della funzione giurisdizionale si perverrebbe associando la riduzione stipendiale alla rottura dei delicati equilibri tra poteri dello Stato.

In tale ottica, la misura legislativa in parola potrebbe apparire come una sorta di punizione o di monito per il potere giudiziario, rendendo manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia gerarchica di un potere sull'altro, in contrasto - anche sotto tale profilo - con i dettami costituzionali che improntano i rapporti tra poteri alla separazione, all'equilibrio ed al bilanciamento.

L'idea di un magistrato punito, ammonito o anche solo “influenzabile” dalla consapevolezza che il taglio stipendiale disposto oggi può ben essere ripetuto o addirittura inasprito (oltre il 2013), ripugna al nostro sistema costituzionale ed ordinamentale, godendo della più elevata tutela, in esso, anche la mera apparenza della indipendenza della funzione giurisdizionale, in quanto valore fondante per l'affidabilità e la credibilità istituzionale della figura del magistrato (sull’importanza anche della mera apparenza dell’indipendenza dei magistrati si veda Corte Europea dei diritti dell’Uomo, Grand Chamber, case of Incal v Turkey, 41/1997/825/1031;
March 04, 1982, case of Sramek v Austria;
May 06, 1978, case of Campbell v Fell v The United Kingdom).

Il comma 22 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 ha come fine, o quantomeno come effetto, quello di ledere non solo il dato testuale, ma altresì i principi e valori sottesi alle richiamate disposizioni costituzionali (artt. 101, comma 2, 104, comma 1 e 117, comma 1, in relazione all’art. 6 della C.E.D.U.), valori a loro volta funzionali all'esercizio imparziale ed obiettivo della funzione giudicante, come esigono molteplici norme costituzionali anche in vista della celebrazione di un “giusto” processo (cfr. artt. 24, 103 e 111 della Cost.;
Corte cost. 381/1999).




La ratio “punitiva” sottesa all’adozione delle misure della cui costituzionalità si dubita si evince ictu oculi dal contenuto delle stesse, in particolare per quanto riguarda il blocco dei cd automatismi stipendiali.


La riforma organica della magistratura realizzata pochi anni fa ha ridisegnato l’assetto della magistratura in modo più aderente ai valori della Costituzione e alla mutata sensibilità nei confronti della giurisdizione.

Uno dei punti qualificanti della riforma è stata la previsione di periodiche e serrate valutazioni di professionalità nei confronti dei magistrati con conseguenze proprio su quei meccanismi retributivi che il legislatore d’urgenza è andato a scardinare.

In particolare l’art.11 d.lgs. 160/06 stabilisce le conseguenze delle periodiche valutazioni di professionalità dei giudici:

Se il giudizio é "non positivo", il Consiglio superiore della magistratura procede a nuova valutazione di professionalità dopo un anno, acquisendo un nuovo parere del consiglio giudiziario;
in tal caso il nuovo trattamento economico o l’aumento periodico di stipendio sono dovuti solo a decorrere dalla scadenza dell’anno se il nuovo giudizio é "positivo". Nel corso dell’anno antecedente alla nuova valutazione non può essere autorizzato lo svolgimento di incarichi extragiudiziari.

11. Se il giudizio é «negativo», il magistrato é sottoposto a nuova valutazione di professionalità dopo un biennio. Il Consiglio superiore della magistratura può disporre che il magistrato partecipi ad uno o più corsi di riqualificazione professionale in rapporto alle specifiche carenze di professionalità riscontrate;
può anche assegnare il magistrato, previa sua audizione, a una diversa funzione nella medesima sede o escluderlo, fino alla successiva valutazione, dalla possibilità di accedere a incarichi direttivi o semidirettivi o a funzioni specifiche. Nel corso del biennio antecedente alla nuova valutazione non può essere autorizzato lo svolgimento di incarichi extragiudiziari.

12. La valutazione negativa comporta la perdita del diritto all’aumento periodico di stipendio per un biennio. Il nuovo trattamento economico eventualmente spettante é dovuto solo a seguito di giudizio positivo e con decorrenza dalla scadenza del biennio.


Quindi ad esito della riforma l’operatività di meccanismi automatici di adeguamento dello stipendio, quelli bloccati dalla norma censurata, è condizionata alla valutazione positiva di professionalità.

La legge organica di disciplina della magistratura ha quindi connotato il blocco dell’automatismo stipendiale ad una precisa evenienza la valutazione non positiva o negativa di professionalità.

Ma se questo è il senso del blocco degli automatismi stipendiali e altro senso la misura non ha nella legge organica della magistratura l’avere realizzato un blocco indiscriminato nei confronti di tutti gli appartenenti alla magistratura realizza l’ effetto, sia pure camuffato da misura di contenimento della spesa,di una valutazione negativa di professionalità globale e complessiva nei confronti di tutto il plesso.

Tale operazioni quindi si contraddistingue per lo spregio dei più fondamentali canoni dell’agire legislativo come incardinati nella Costituzione e rende manifesto l’attentato ai valori di indipendenza della magistratura.

l’intento punitivo già disvelato dal contenuto stesso delle misure risulta altresì confermato aliunde.

Infatti con il successivo art. 16, comma 7 d.l. 6 luglio 2011 n. 98 si è stabilito che In ragione dell'esigenza di un effettivo perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea relativamente alla manovra finanziaria per gli anni 2011-2013, qualora, per qualsiasi ragione, inclusa l'emanazione di provvedimenti giurisdizionali diversi dalle decisioni della Corte costituzionale, non siano conseguiti gli effetti finanziari utili conseguenti, per ciascuno degli stessi anni 2011-2013, alle disposizioni di cui ai commi 2 e 22 dell'articolo 9 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, i medesimi effetti finanziari sono recuperati, con misure di carattere generale, nell'anno immediatamente successivo nei riguardi delle stesse categorie di personale cui si applicano le predette disposizioni.

Tale norma rende evidente il reale intento del legislatore punire e minare la credibilità dell’ordine giudiziario, ritenendolo, per presunzione assoluta incapace di rendere in subiecta materia sentenze imparziali. In presenza di siffatta ratio, sottesa al complesso normativo di cui si discute e confessoriamente ammessa e confermata successivamente è agevole rendersi conto di come l’intervento oggetto di censura sia completamente svincolato dei principi “di proporzionalità, ragionevolezza” (Corte Costituzionale 11.11.2010 n. 316;
sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985) e di eguaglianza che devono governare la discrezionalità del legislatore.




Né può sostenersi, per giustificare la costituzionalità delle norme oggetto di censura, che i principi costituzionali che tutelano l’autonomia e la indipendenza della Magistratura possono essere bilanciati dal legislatore con altri valori costituzionali in ipotesi confliggenti;
quale, fra questi, può esservi, specie in momenti congiunturali di crisi economica, quello del rispetto delle esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica nei limiti delle risorse finanziarie attingibili.

Se, infatti, ciò, in astratto, appare ammissibile, pur con le dovute cautele, nondimeno in concreto la evidenziata ratio degli interventi unitamente al loro atteggiarsi rende manifesta l’irrazionalità della scelta di intervenire sui meccanismi retributivi del magistrati, al di fuori del coinvolgimento di tutti i contribuenti secondo i principi di pari capacità contributiva e progressività di cui all’art. 53 della Costituzione e al di fuori di una riforma organica e razionale della materia regolata dalla legge 1981 n. 27 e dettata in attuazione diretta degli artt. 101 e 104 della Costituzione. Le norme censurate in nome di asserite esigenze finanziarie e di bilancio, hanno operato una compressione dei valori costituzionalmente garantiti dell’indipendenza ed autonomia della Magistratura in una maniera del tutto irrazionale, sproporzionata e discriminatoria, con particolare riferimento ai seguenti profili: a) disparità di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari capacità contributiva;
b) disparità di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari capacità di reddito da lavoro (autonomo e privato);
c) disparità di trattamento nei confronti dei pubblici dipendenti aventi pari capacità di reddito da lavoro;
d) irrazionalità “quantitativa” del taglio che, pur disposto per esigenze di tutta la collettività, pesa in maniera consistente solo sugli stipendi dei pubblici dipendenti (ed ancora di più sui magistrati) e finisce con l’apportare esigue risorse alle casse dello Stato, in luogo di una minima ed indolore imposizione su tutti i contribuenti sicuramente più idonea allo scopo di risanamento del bilancio;
e) irrazionalità per “abuso della funzione legislativa”;
f) irrazionalità “interna” alle misure aventi caratteri di regressività da un lato, finendo con l’incidere in maniera più che proporzionale sugli stipendi più bassi, e di mera casualità, imprevedibilità ed illogicità dall’altro;
g) alterazione del rapporto di proporzionalità tra prestazione e retribuzione, incidente in misura proporzionalmente maggiore sui magistrati percettori di reddito inferiore;
g) irragionevole incisione sui diritti quesiti.


non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 22 del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 12, per violazione degli artt. 3, 53, I e II comma della Costituzione.

Le disposizioni censurate, hanno natura tributaria.

Infatti le misure qui in esame (blocco dell’adeguamento automatico per il triennio 2011-2013, introduzione di tetti per il biennio 2014/2015 e taglio dell’indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27) si conformano ai criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare come tributarie alcune entrate: “doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante” (ex plurimis, Corte Costituzionale, sentt. nn. 141/2009, 335/2008, 64/2008, 334/2006, 73/2005).

Le trattenute in questione sono effettuate dallo Stato a prescindere da qualsivoglia rapporto sinallagmatico, essendo imposte in via autorititativa.

La stesse poi, in relazione al presupposto economicamente rilevante della percezione del reddito da lavoro, si collegano senz’altro alla spesa pubblica, come fatto palese dall’’incipit del comma 2 dell’art. 9 che recita: “In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea”.

Conclusivamente le norme in esame hanno istituito dei tributi, di cui presentano le caratteristiche essenziali, “e cioè la doverosità della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante” (Corte costituzionale 19.10.2006 n. 334;
nonché sentenze n. 26 del 1982, 63 del 1990, 2 ed 11 del 1995, 37 del 1997).

Né la qualificazione operata dal legislatore come mere misure di riduzione della spesa pubblica, valgono ad escluderne la natura tributaria, atteso che qualsivoglia imposizione tributaria (tassa, tributo o contributo), che incida sugli stipendi dei pubblici dipendenti decurtandoli, si risolve sul piano effettuale in una riduzione della spesa pubblica, ma per ciò solo non muta la propria natura.

Infatti ciò che rileva non è l’effetto di bilancio che tali disposizioni producono né l’ambito soggettivo di applicazione ma la loro natura intrinseca, da ricavarsi secondo le coordinate ermeneutiche sopra tracciate e che conducono ad affermarne la natura tributaria, come più volte espresso dalla giurisprudenza costituzionale a riguardo della qualificazione delle “leggi tributarie” ai fini del giudizio di ammissibilità del referendum (art. 75 della Costituzione).

In molteplici occasioni, il Giudice delle Leggi ha univocamente affermato che tale nozione è caratterizzata dalla ricorrenza di due elementi essenziali (vedi sentt. nn. 26/1982, 63/1990, 2/1995, 11/1995): 1) l'imposizione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio;
2) la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza pubblica, e cioè allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario necessario a coprire spese pubbliche.

Entrambi tali presupposti sono, come evidenziato sopra, ravvisabili nelle disposizioni di cui al comma 22 dell’art. 9 del d.l. 78/2008.

Pertanto, le norme in esame devono essere assoggettate ai principi costituzionali dettati dall’art. 53, il quale articolo al primo comma statuisce che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, ed al secondo che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

A tale stregua si appalesa l’illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni di cui al comma 22 dell’art. 9 che incidono sul reddito di una sola micro categoria sociale (che conta poca migliaia di contribuenti), quella dei magistrati.

Il legislatore del 2010 ha scelto, a parità contributiva ed in spregio all’art. 53 della Costituzione, per contribuire al risanamento delle casse dello Stato, di colpire solo una determinata classe sociale, i dipendenti pubblici (quanto al comma 2 dell’art. 9), ed in particolare e per quanto qui direttamente rileva, con misure ancora più incisive rispetto agli stessi dipendenti pubblici, una ancora più particolare e ristretta classe di contribuenti, i magistrati (quanto al comma 22 dell’art. 9), così realizzando come si dirà appresso un tributo odioso e specialeratione subiecti (T.A.R. Campania, ordinanza di rimessione n. 1162/2011), con l’aggravante di avere individuato, tra tutte le categorie di contribuenti possibili, l’unica la cui tutela del trattamento stipendiale risponde a principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101 comma 2 e 104 comma 1) e più pregnanti rispetto a quelli generali di cui all’art. 36 della Carta fondamentale.

In conclusione deve dirsi che, invece di prendere come parametro per l’imposizione fiscale un medesimo indice di capacità contributiva e conseguentemente incidere su “tutti” i contribuenti versanti nella medesima condizione, le norme in questione - con misure continuative, prolungate nel triennio 2011-2013 (con possibile estensione al 2014) ed in parte al biennio 2014/2015, nonché irrazionali sotto molteplici profili come si evidenzierà dappresso - sono state rivolte ad una ben limitata “classe di persone”, colpendo esclusivamente il loro reddito e con ciò violando l’art. 53, I comma della Costituzione.

La norma di cui al comma 22 dell’art. 9 riguardante il taglio dell’indennità di cui all’ articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 si pone, in secondo luogo, in contrasto anche con il precetto di progressività contenuto nel comma 2 dell’art. 53 della Costituzione, dal momento che essa colpisce nella stessa misura fissa (del 15 % per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32 % per l’anno 2013) tutti gli appartenenti alla categoria.

E’ noto che la predetta indennità costituisce componente “normale”, certa e costante del trattamento economico retributivo dei magistrati (cfr. sul punto Corte Cost. ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137;
C.d.S., Sez. IV, 6.10.2003 n. 5841), ancorché introdottavi a titolo “speciale” (in quanto preordinata, come espressamente affermato dall’art. 3 della legge n. 27/1981, a compensare i magistrati degli “oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività”).

Il taglio di tale indennità in misura identica per tutti gli appartenenti alla categoria produce un risultato evidente: i più giovani che sono agli inizi della carriera e che percepiscono stipendi nettamente inferiori si trovano a pagare le stesse somme di coloro che si trovano in uno stadio avanzato o finale della carriera e percepiscono stipendi anche di molto superiori.

Siffatto risultato “regressivo” viola apertamente il principio di progressività dei tributi di cui all’art. 53, comma 2 della Costituzione letto unitamente al principio di ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3.

Né vale sostenere che “i criteri di progressività debbono informare il «sistema tributario» nel suo complesso e non i singoli tributi” (Corte costituzionale 15.04.2008 n. 102;
Corte Costituzionale, 6.4.1995 n. 197).

Infatti dal momento che il legislatore ha deciso di incidere sul presupposto economico del reddito da lavoro, per coerenza di sistema e ragionevolezza intrinseca della norma avrebbe dovuto configurare il tributo siccome progressivo, atteso che tale natura ha l’I.r.p.e.f., ossia la principale imposta sul reddito delle persone fisiche, e quindi anche sul reddito da lavoro dipendente (Corte Costituzionale, 13.1.2006 n. 2).


Della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità del comma 22 dell’art. 9 del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, per violazione, sotto diversi profili, degli artt. 2, 3 e 36 della Costituzione.

A prescindere dalla natura tributaria o meno delle disposizioni del comma 22 dell’art. 9 del d.l. 78/2010 censurate dai ricorrenti, le stesse appaiono configgere con i principi di eguaglianza, ragionevolezza legislativa e di solidarietà sociale, politica ed economica di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

L’esigenza che ha mosso il legislatore nella predisposizione delle misure oggetto di esame è quella di fronteggiare la ben nota crisi economica nazionale ed internazionale, ed in particolare dei paesi della zona euro;
è altrettanto noto che siffatta esigenza ha ispirato e continua ad ispirare tutte le ultime manovre finanziarie e correttive.

Pertanto, l’avere ristretto la contribuzione diretta al risanamento delle casse dello Stato agendo sulle retribuzioni dei soli pubblici dipendenti, ed ancora più afflittivamente dei magistrati, assurge in primo luogo a contemporanea violazione del principio di uguaglianza tra i cittadini e del dovere di solidarietà politica, sociale ed economica di cui rispettivamente agli artt. 3 e 2 della Costituzione.

Detto diversamente l’avere deciso, per le finalità finanziarie di cui sopra, di incidere solo sui redditi da lavoro dipendente pubblico ed in misura maggiore sui redditi da lavoro dipendente dei soli magistrati, con esclusione delle identiche condizioni di tutti i percettori di reddito aventi la stessa capacità contributiva, si pone in contrasto, oltre che con il già citato disposto di cui al 1 comma dell’art. 53 Cost., più a monte con i basilari precetti di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

Se la ben nota crisi economica (cui la legge si riferisce con il richiamo alla “eccezionalità della situazione economica internazionale”) ha dettato l’esigenza inderogabile della riduzione di spesa, non v’è dubbio che tale evento riguarda la collettività nel suo insieme.

È pertanto ingiusto - e perciò illegittimo, secondo i principi ordinamentali - che lo Stato intenda accollare le misure di riduzione della spesa - che andranno a vantaggio di tutti - solo ad una parte dei cittadini (i pubblici dipendenti, i quali peraltro non rappresentano certamente la categoria più facoltosa del Paese), ed in misura ancora maggiore ad una cerchia ristrettissima dei predetti pubblici dipendenti, ossia ai magistrati.

L’approccio del legislatore d’urgenza, da tale angolo visuale, collide anche con l’art. 2 della Costituzione e con i principi di solidarietà sociale, politica ed economica ivi scolpiti, cui corrispondono ben precisi “doveri inderogabili” (la forza dell’espressione impiegata dal Costituente non lascia adito a dubbi: se i doveri sono “inderogabili” nessuno può esserne esentato).

Questi, che pure fanno capo all’intera comunità, sono stati disinvoltamente frustrati da un legislatore che, collocando i disagi in capo a “pochi”, ha invece distribuito i benefici in capo a “tutti”.

Ciò che appare in netta contraddizione con l’insegnamento della Corte Costituzionale secondo cui gli inderogabili doveri imposti nell’art. 2 Cost. esigono che “l’ordinato vivere comune sia salvaguardato” e che “i pesi conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti, senza privilegi”.

La violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento e la violazione del principio di solidarietà sociale ed economica diventano, se possibile, ancora più evidenti laddove si compari la situazione dei ricorrenti con gli altri titolari di reddito da lavoro (autonomo o dipendente privato): lapalissiano è il contrasto con i basilari precetti di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

Ancora una volta, tenendo conto della finalità ‘di cassa’ che è a fondamento di un prelievo disposto addirittura per decreto-legge, non si ravvisa alcuna ratio giustificativa per la quale anche i lavoratori del settore privato (dipendenti o autonomi) non debbano essere assoggettati a riduzioni stipendiali, con corrispondente introito a vantaggio dell’Erario, e ciò tenuto anche conto che le retribuzioni del settore privato, specialmente ai livelli dirigenziali e manageriali delle imprese, per non parlare dei professionisti più facoltosi (ad esempio i notai e i farmacisti ma anche i più affermati tra gli avvocati, i medici specialisti, gli ingegneri, gli architetti), sono enormemente più elevate di quelle del settore pubblico, apparendo quindi in grado di garantire un maggiore gettito alle finanze pubbliche;
gettito che - in definitiva - ricade tra gli obiettivi di stabilizzazione finanziaria avuti di mira dalla norma censurata (realizzare proventi e risparmiare spesa pubblica, infatti, si equivalgono in termini di risultanze finali, ossia guardando alla capienza delle casse pubbliche).

Le disposizioni in parola, poi, violano le predette coordinate costituzionali anche perché trattano in maniera ingiustificatamente diversa categorie di pubblici dipendenti pur a fronte di una identica situazione reddituale.

Come si è osservato sopra, infatti, il d.l. 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, prevede al comma 1 dell’art. 9 per tutti i pubblici dipendenti il blocco dell’aumento degli stipendi (“Per gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, ivi compreso il trattamento accessorio, previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, non può superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010, al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno, fermo in ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternità, malattia, missioni svolte all'estero, effettiva presenza in servizio, e dall'articolo 8, comma 14, fatto salvo quanto previsto dal comma 17, secondo periodo).

Alla stregua della citata previsione, dunque, nel triennio 2011-2013 i trattamenti retributivi dei pubblici dipendenti, ivi compreso quello dei dirigenti, sino alla soglia di 90.000 euro lordi annui non possono aumentare, ma nemmeno possono decrescere.

Per contro, in forza del combinato disposto delle disposizioni censurate di cui al comma 22 dell’art. 9 (blocco dell’adeguamento automatico e taglio dell’indennità giudiziaria), il trattamento economico dei magistrati che non maturino scatti o progressioni di carriera negli anni in parola (ed in ogni caso per tutto il tempo precedente tali momenti) è sicuramente soggetto a riduzione.

Il risultato aberrante è che l’unica categoria - tra tutti i contribuenti dello Stato che percepiscono fino a 90.000 euro annui lordi per lavoro dipendente - che a causa della generale crisi economica vede ridursi il proprio trattamento economico è quella dei magistrati, ossia l’unica categoria la cui tutela del trattamento stipendiale risponde a principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101 comma 2 e 104 comma 1) e più pregnanti rispetto a quelli generali di cui all’art. 36 della Carta fondamentale.

La disparità sussiste anche con riferimento a quei pubblici dipendenti (quali ad esempio i dirigenti) che percepiscono più di 90.000 o 150.000 euro annui lordi e che sono, al pari dei magistrati, tenuti a versare il contributo di solidarietà di cui al comma 2 dell’art. 9.

I magistrati, infatti, a differenza degli altri pubblici dipendenti e pur in presenza della medesima situazione reddituale e contributiva, vedono sommarsi al contributo di solidarietà ed al blocco dell’adeguamento retributivo anche i tagli all’indennità giudiziaria di cui al comma 22 dell’art. 9, con la conseguenza che per essi la riduzione dello stipendio è sensibilmente maggiore.

Le misure oggetto di disposizioni del comma 22 dell’art. 9 censurate dai ricorrenti (relative al blocco degli adeguamenti automatici per il triennio 2011-2013, all’introduzione di tetti agli stessi per il biennio 2014/2015 ed al taglio dell’indennità di cui all’articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27) si presentano poi, sotto svariati profili, in contrasto con il basilare canone di ragionevolezza legislativa di cui all’art. 3 della Costituzione.

L’avere ristretto la contribuzione diretta al risanamento delle casse dello Stato agendo sulle retribuzione dei soli pubblici dipendenti, ed in particolare dei magistrati, oltre ad essere in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, appare intrinsecamente irragionevole.

Le esigenze “prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea”, in quanto proprie di tutto lo Stato comunità, avrebbero logicamente richiesto una equa contribuzione di tutti i cittadini percettori di reddito, o quanto meno di tutti i cittadini percettori di reddito da lavoro (a voler ritenere legittima una simile scelta di campo del legislatore), il che per altro avrebbe consentito di raggiungere anche maggiori introiti con un accettabile e minimo sacrificio per tutti i contribuenti.

E’ ovvio, infatti, che allargando la platea dei contribuenti a tutti i soggetti percettori di reddito o di reddito da lavoro (milioni di persone), il notevole peso specifico delle misure gravanti sui magistrati (poche migliaia) e di quelle gravanti su tutti i pubblici impiegati avrebbe potuto essere ripartito in maniera completamente equa, solidale e quasi “indolore”.

Non può che ritenersi profondamente irrazionale una normativa che, per fare fronte ad una crisi che grava su tutta la popolazione, impone un sacrificio rilevantissimo (fino al taglio del 15% della retribuzione netta) solo ad una categoria così ridotta di cittadini (poche migliaia) e lascia totalmente indenni i redditi e le retribuzioni tutti gli altri contribuenti, anche di quelli aventi medesima capacità contributiva.

E’ del pari profondamente irrazionale perché le medesime entrate avrebbero potuto essere reperite ripartendo il peso dell’imposizione su tutta la platea dei contribuenti mediante, a mero titolo esemplificativo, un innalzamento davvero minimo dell’aliquota I.r.p.e.f. o di altre misure simili che si presentano più logiche perché ripartiscono in maniera equa su tutti i contribuenti il peso della crisi economica;
senza considerare che in un paese come il nostro, notoriamente ad elevatissima evasione fiscale, al fine di “fare cassa” tra le possibili opzioni del legislatore vi è anche quella di affinare gli strumenti di recupero dei redditi, dei proventi e dei patrimoni illecitamente sottratti all’imposizione fiscale.

E’ ancora più irrazionale, laddove si consideri che il predetto consistente taglio viene operato sull’unica sparuta categoria di contribuenti, la cui tutela del trattamento stipendiale risponde a principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101 comma 2 e 104 comma 1) e più pregnanti rispetto a quelli generali di cui all’art. 36 della Carta fondamentale.

Le disposizioni in esame, poi, appaiono violare il basilare canone della ragionevolezza legislativa di cui all’art. 3 della Costituzione sotto altro e concorrente profilo.

La predeterminazione per legge della misura dello stipendio dei magistrati ed il relativo meccanismo di adeguamento automatico rispondono all’esigenza di sottrarre la magistratura, in una ottica di preservazione dei delicati equilibrio tra poteri dello Stato, alla contrattazione collettiva.

In altri termini, “premesso che la determinazione degli stipendi spettanti ai magistrati è sottratta alla contrattazione sindacale ed è rimessa ad un sistema automatico regolato direttamente dalla legge al fine di assicurare la completa autonomia ed indipendenza dei giudici dal potere esecutivo, gli art. 11 e 12 l. 2 aprile 1979 n. 97, nel testo innovato dall'art. 2 l. 19 febbraio 1981 n. 27, prevedono che gli stipendi dei magistrati sono adeguati di diritto ogni triennio nella misura percentuale pari alla media degli incrementi delle voci retributive, esclusa l'indennità integrativa speciale, ottenuti dagli altri dipendenti pubblici” (C.d.S., Sez. IV, 7.7.2000 n. 3834).

La predeterminazione per legge ed il meccanismo di adeguamento automatico degli stipendi, dunque, hanno finalità di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura e rappresentano uno strumento volto a preservare quest’ultima dalle insidie della contrattazione collettiva.

Il legislatore del 2010 ha invece “approfittato” dello strumento legislativo per ridurre il trattamento economico dei magistrati senza il loro consenso, consenso che paradossalmente sarebbe stato necessario in sede di contrattazione collettiva.

Così facendo lo strumento voluto dal legislatore per offrire una guarentigia a monte ai valori costituzionali dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura, ed a valle al trattamento economico dei magistrati è stato irrazionalmente utilizzato per ledere propri tali principi ed incidere sul detto trattamento.

Vi è ancora un altro profilo di violazione del principio costituzionale di ragionevolezza intrinseca delle leggi, secondo una logica per così dire “interna” alla categoria colpita dalle disposizioni in esame.

Come si è avuto modo di appurare, le norme oggetto di dubbio di costituzionalità, nella misura in cui incidono in misura uguale su tutti i magistrati, impongono un peso economico in termini proporzionali di gran lunga superiore a coloro che percepiscono uno stipendio minore perché agli inizi della carriera, con buona pace (prima che del principio di progressività dei tributi) di qualsivoglia logica, ragionevolezza ed equità.

Per i magistrati percettori di reddito superiore, invece, il peso proporzionale dell’imposizione fiscale si riduce (anziché crescere come dovrebbe in forza dell’art. 53 della Costituzione e di basilari considerazioni di logica ed equità), poiché l’aumento dello stipendio compensa il taglio fisso dell’indennità giudiziaria e anche l’effetto delle due aliquote del 5% e del 10% di cui al contributo di solidarietà.

Va ulteriormente considerato che l’imposizione fiscale si atteggia in maniera ancora sensibilmente diversa all’interno della categoria, a seconda che i magistrati interessati nell’ambito del triennio maturino o meno scatti o progressioni di carriera ed a seconda di quando li maturano, poiché in virtù del metodo di imposizione scelto (taglio fisso dell’indennità giudiziaria, blocco dell’adeguamento ed aliquote fisse del 5% e del 10%), l’ammontare del prelievo finisce con assumere caratteri di imprevedibilità ed illogicità.

La disposizione che riduce la misura dell’indennità “giudiziaria” nel triennio 2011-2013, poi, appare intrinsecamente irragionevole anche sotto altro profilo, in violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione.

La predetta indennità costituisce parte essenziale, costante e “normale” del trattamento economico complessivo del magistrato (sul punto Corte Cost., ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137;
nonché, ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 1993, n. 401), ancorché introdottavi a titolo “speciale” (in quanto preordinata, come espressamente affermato dall’art. 3 della legge n. 27/1981, a compensare i magistrati degli “oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività”).

Il comma 22 dell’art. 9 non sopprime né sospende per intero l’indennità in questione (ma anzi ne prevede l’integrale ripristino dopo il 2013), con ciò riconoscendone e confermandone la funzione di ristoro degli oneri connessi con l’espletamento del servizio.

Decurtandola temporaneamente il legislatore la rende tuttavia inequivocabilmente inidonea allo scopo per il quale era stata istituita se è vero, come è vero, che essa è attribuita in misura uguale a tutti i magistrati, a prescindere dalla qualifica e dall’anzianità, in stretta correlazione con (e per consentire) l’effettivo svolgimento dei compiti istituzionali del magistrato.

Orbene, è di tutta evidenza come la decurtazione dell’indennità speciale impedisca il raggiungimento dello scopo che la legge (n. 27/1981) aveva imposto di assolvere all’indennità stessa (compensare i magistrati degli oneri che essi incontrano nello svolgimento della loro attività) ed appaia, per ciò stesso, violare il principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 della Costituzione, giacché non risulta che gli oneri che i magistrati incontrano nel corso del triennio in questione siano corrispondentemente ridotti.

Da altro punto di vista l’art. 3 della legge n. 27/1981 ha previsto che l’indennità speciale sia identica per tutti i magistrati, in quanto destinata a ristorarli degli oneri - identici - che essi incontrano nello svolgimento della loro attività.

Con il taglio dell’indennità speciale toccherà ai singoli magistrati far fronte, per la parte ora non coperta dall’indennità, agli oneri connessi con l’attività istituzionale, con la conseguenza che i magistrati più giovani che godono di un minor trattamento economico complessivo avranno maggiori difficoltà a fronteggiare i relativi costi: il che sembra violare ulteriormente l’art. 3 della Costituzione, questa volta sotto il profilo dell’aver riservato uguale trattamento a situazioni tra loro oggettivamente diverse, atteso che la decurtazione (di un’indennità preordinata a coprire i medesimi, identici oneri) pesa diversamente in misura inversamente proporzionale all’anzianità del magistrato.

Tale decurtazione – atteso che l’indennità speciale ex art. 3 della legge n. 27/1981 è stata istituita per “equilibrare” il trattamento economico complessivo del magistrato, che, come si è detto, sopporta oneri atipici (diversamente dagli altri funzionari dello Stato) – sembra poi violare anche l’art. 36 Cost. sotto il profilo della lesione della “proporzione” tra retribuzione ed attività svolta: giacché il comma 22 dell’art. 9, del d.l. n. 78/2010, riducendo la predetta indennità speciale e, dunque, ponendo ora parzialmente a carico dei magistrati il costo degli oneri organizzativi dell’attività giudiziaria che prima facevano interamente carico allo Stato, altera inequivocabilmente la proporzione, anteriormente esistente, tra retribuzione complessiva e lavoro espletato;
e la altera maggiormente, con effetto palesemente discriminatorio (stante che l’indennità speciale è eguale per tutti perché compensa gli stessi oneri), nei confronti dei magistrati più giovani che godono di un trattamento retributivo complessivo minore, rispetto ai quali, dunque, la violazione dell’art. 36 è amplificata.

La predetta misura, dunque, incide sulla proporzionalità tra prestazione e retribuzione, poiché (in nome peraltro di esigenze di cassa quantitativamente irrisorie nell’ottica complessiva del bilancio dello Stato) incide solo sull’aspetto quantitativo della retribuzione, ma lascia immutata la richiesta di qualità del servizio e dello svolgimento della funzione, facendo gravare sul magistrato i relativi oneri economici ed organizzativi, così intaccando anche la dignità della persona-lavoratore nell’esercizio di una delle funzioni più delicate dello Stato.

In questo solco si colloca il constante insegnamento della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui, in forza dell’art. 36 della Costituzione, “in caso di emolumento compensativo di particolari e gravose modalità di svolgimento della prestazione, trova comunque applicazione il principio di irriducibilità della retribuzione, con la conseguenza che detto emolumento può venir meno solo a fronte della cessazione di quelle particolari modalità di lavoro” (Cass. Civ., Sez. Lav., 23.7.2009 n. 20310;
Cass. Civ., Sez. Lav., 1.3.2007 n. 4281).

E’ facile osservare come l’indennità giudiziaria costituisca per i magistrati un “emolumento compensativo di particolari e gravose modalità di svolgimento della prestazione”, in quanto rivolto a compensare “i particolari oneri che questi ultimi incontrano nello svolgimento concreto della loro attività e dell'impegno, senza prestabiliti limiti temporali, ad essi ordinariamente richiesto per lo svolgimento della propria funzione” (C.d.S., Sez. IV, 6.5.2010 n. 2646), sicché la riduzione dell’indennità giudiziaria a fronte di oneri immutati integra anche sotto tale profilo violazione dell’art. 36 della Costituzione.

Le disposizione censurate, poi, sembrano violare sotto un ulteriore profilo gli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Esse, infatti, incidono, in senso ablativo, sul trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo;
incidono, in altri termini, sullo status economico dei magistrati, alterando quel sinallagma che è il proprium dei rapporti di durata ed in particolare proprio dei rapporti di lavoro;
basti considerare che sulla stabilità anche economica si fondano le aspettative, le progettualità e gli investimenti - di lungo periodo, se non addirittura di vita - del dipendente.

E’ vero che la Corte Costituzionale ha più volte affermato che “non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti”, a condizione, però, che “tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto” (Corte Costituzionale 27.1.2001 n. 31;

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