TAR Roma, sez. II, sentenza 2010-03-08, n. 201003519

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. II, sentenza 2010-03-08, n. 201003519
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201003519
Data del deposito : 8 marzo 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00630/1998 REG.RIC.

N. 03519/2010 REG.SEN.

N. 00630/1998 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. 630/98 RG, proposto dal sig. A G e riassunto a’sensi dell’art. 297 c.p.c. dalle eredi sigg. N e M G, rappresentate e difese dagli avvocati R C e B G, con domicilio eletto in Roma, via L. Caro n. 38,

contro

il MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del sig. Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici si
domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12,

per l'annullamento

del decreto in data 9 settembre 1997, notificato il successivo giorno 12, con cui il Ministro delle finanze ha disposto la cessazione del ricorrente dal S.P.E. presso la Guardia di finanza con perdita del grado per rimozione;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero intimato;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica del 13 gennaio 2010 il Cons. dott. Silvestro Maria RUSSO e udito altresì, per le parti, solo l’Avvocato dello Stato GRECO;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO

Con sentenza n. 442 del 26 giugno/13 agosto 1996, poi passata in giudicato dal successivo 24 ottobre, la Corte d’appello di Trieste, I sez. pen., condannò definitivamente il sig. A G, ufficiale superiore della riserva della Guardia di finanza, alla pena di anni due di reclusione a’sensi degli artt. 599 e 605 c.p., per corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio.

In relazione a ciò, con ordine prot. n. 82164/P/5° del 4 marzo 1997, il Comandante generale della GDF dispose un’inchiesta formale a carico del t. col. GATTO e nominò l’ufficiale inquirente, il quale, con nota del successivo 20 marzo, contestò a quest’ultimo gli addebiti disciplinari. Il t. col. GATTO, ancorché più volte invitato a prender visione degli atti dell’istruttoria disciplinare, non ritenne d’aderire a tali invito, sicché l’ufficiale inquirente, in data 4 aprile 1997, concluse l’inchiesta formale e, il successivo giorno 7, ritenne fondati gli addebiti in capo all’incolpato, proponendone il deferimento. Con determinazione del 23 maggio 1997, notificata al t. col. GATTO il successivo 15 luglio, il Comandante generale della GDF lo deferì al Consiglio di disciplina che, nella seduta del 19 agosto 1997, concluse per la conservazione del grado da parte dell’incolpato stesso. Con nota prot. n. 316721/P/5° del 3 settembre 1997, il Comandante generale del Corpo non condivise siffatto assunto e propose al sig. Ministro pro tempore la sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione, poi formalizzata nel DM 9 settembre 1997.

Avverso tal statuizione il t. col. GATTO propose allora gravame innanzi a questo Giudice, con il ricorso in epigrafe, deducendo in punto di diritto cinque gruppi di censure. Resiste in giudizio il Ministero intimato, che conclude per l’infondatezza della pretesa attorea. Con sentenza n. 225 del 10 gennaio 2007, la Sezione ha disposto, per decesso del ricorrente, l’interruzione del processo, che è stato riassunto dalle di lui eredi sigg. N e M G con atto depositato il 27 aprile 2007.

Alla pubblica udienza del 13 gennaio 2010, su conforme richiesta delle parti presenti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.

DTTO

Torna all’esame del Collegio, dopo l’interruzione statuita dalla Sezione con la sentenza n. 225 del 10 gennaio 2007 e l’atto di riassunzione depositato dalle eredi sigg. N e M G il 27 aprile 2007, l’impugnazione della sanzione espulsiva (perdita del grado per rimozione), disposta con DM 9 settembre 1997, proposta dal Sig. A G, già ufficiale superiore della GDF.

Il ricorso in epigrafe non ha pregio alcuno e va respinto.

Il primo mezzo di gravame va disatteso, anzitutto perché, come consta in atti, il ricorrente fu invitato tre volte dall’ufficiale inquirente (20 e 26 marzo, 1° aprile 1997) a prender visione degli atti dell’istruttoria disciplinare, senza che egli volle aderirvi.

Sicché egli non può poi dolersi né della strettezza dei tempi dell’istruttoria stessa, né della chiusura immediata di questa, perché il termine di dieci giorni per proporre difese, in base alle istruzioni diramate dal Corpo sui procedimenti disciplinari di stato fin dal 1993, decorrono dalla presa visione degli atti da parte dell’incolpato. Se, dunque, questi non ha interesse ad aver contezza immediata degli atti acquisiti in sede istruttoria, egli non può fruire del predetto termine –il cui dies a quo resta condizionato ed ancorato appunto all’accesso a tali atti–, né contestare che l’ufficiale inquirente, non avendo altro materiale da esaminare, provveda alla chiusura dell’istruttoria stessa, in ossequio dei termini decadenziali posti dalla legge. Assodato, per vero, che l’istruttoria è preordinata all’acquisizione dei fatti e degli interessi di tutte le parti coinvolte nel procedimento, non v’è un obbligo dell’ufficiale inquirente d’attendere sine die, dopo averlo avvertito per tempo, le mosse o le intenzioni del destinatario, ché tal ufficiale è responsabile pure verso l’interesse pubblico alla sollecita e tempestiva definizione della fase procedimentale affidatagli. Del resto, il procedimento ben può esser definito solo allo stato degli atti che si renda possibile, secondo legittimità e buona fede, raccogliere durante un’istruttoria cui il privato, pur potendo, non ha inteso partecipare.

Del pari, tal partecipazione non è improntata a particolari solennità formali (oltre quelle effettivamente partecipative) e, certo, non alla necessaria assistenza, nel prender visione dei relativi atti, d’un difensore di fiducia, la presenza del quale si deve avere, a mente dell’art. 24, II c., Cost. e per pacifica giurisprudenza costituzionale, solo nei procedimenti giurisdizionali veri e propri o in quelli istruttori connessi a questi ultimi. Viceversa, per i procedimenti amministrativi, anche di natura disciplinare, è allora sufficiente la pienezza del contraddittorio procedimentale per garantire i valori inerenti ai diritti fondamentali del soggetto. Sicché non sussiste alcuna violazione del diritto di difesa di costui, quand’anche sottoposto a procedimento disciplinare, se la P.A. procedente lo ha messo in condizione di conoscere gli addebiti ed il contenuto degli atti a suo carico ed egli non ha inteso profittarne.

Non si può poi condividere l’assunto attoreo per cui, tra l’ultima diffida (1° aprile 1997) e l’atto di deferimento (notificato il 15 luglio 1997), sarebbe inutilmente decorso il termine di novanta giorni di cui all’art. 120, I c. del DPR 10 gennaio 1957 n. 3.

In realtà, il predetto termine concerne solo il momento d’adozione (nella specie, il 23 maggio 1997) degli atti del procedimento disciplinare che incidono sulla volontà della P.A. procedente, e non sul momento della notifica. Essa, invero, attiene al momento dell' efficacia e non a quello perfezionativo dell'atto, cui si dev’intendere riferito il disposto del citato art. 120, II c. (cfr. Cons. St., VI, 9 aprile 2009 n. 2190), onde il termine colà indicato è stato comunque e pienamente rispettato. Giova, inoltre, rammentare che i termini dinamici di cui al ripetuto art. 120, II c. s’applicano solo in caso di procedimento disciplinare svolto prima dell'inizio di quello penale (cfr. Cons. St., VI, 24 aprile 2009 n. 2536) o a seguito di sentenza di proscioglimento. Negli altri casi, come nella specie, viceversa occorre far riferimento alla previsione dell'art. 9, c. 2 della l. 7 febbraio 1990 n. 19, secondo cui il procedimento disciplinare, inerente ad una condanna penale dell’incolpato, va avviato entro 180 giorni da quando la P.A. ha avuto piena ed effettiva contezza della predetta condanna (cfr. così Cons. St., IV, 9 ottobre 2009 n. 6224) e va concluso nei successivi 90 giorni.

Peraltro, a’sensi del ripetuto art. 9, il termine di 90 giorni per concludere il procedimento disciplinare a carico del dipendente, dopo la condanna a lui irrogata, si somma al tempo di cui la P.A. dispone per valutare la situazione (180 giorni), per cui la durata posta per la conclusione del procedimento disciplinare unitariamente considerato è di complessivi 270 giorni (giurisprudenza consolidata: cfr., per tutti, Cons. St., VI, 13 luglio 2006 n. 4495;
id., 22 marzo 2007 n. 1350;
id., 14 gennaio 2009 n. 140;
id., IV, 18 marzo 2009 n. 1605).

Neppure convince il terzo motivo d’impugnazione, giacché, in primo luogo, la scelta attorea di patteggiare la pena è esclusivamente a lui imputabile, onde la P.A. non può legittimamente mettere in non cale, tamquam non esset e pur nella discrezionalità della valutazione disciplinare di tutta la vicenda, la statuizione dell’AGO. Inoltre, si può forse discettare sulla bontà del pregresso stato di servizio del ricorrente, ma le relative risultanze non sono determinanti, né tampoco scriminanti della responsabilità disciplinare in relazione ai fatti ed alla gravità del reato. Anzi, per un ufficiale superiore della GDF la condanna per un atto contrario ai doveri d’ufficio costituisce ictu oculi un evidente inadempimento degli obblighi discendenti dal giuramento di fedeltà, tanto più odioso, quanto il reato de quo è tra quelli che il ricorrente avrebbe dovuto denunciare immediatamente e reprimere con rigore. Donde la sussistenza del presupposto ex art. 88 della l. 10 aprile 1954 n. 113, che giustifica, per la gravità della questione, lo scostamento del DM impugnato dal parere, obbligatorio ma non vincolante, della Commissione di disciplina, senza bisogno di ulteriore e più puntigliosa motivazione.

Invero, anche la motivazione per relationem non è da escludere in sede disciplinare quando, per un verso, sia consentito all’incolpato di risalire in modo agevole alle ragioni di fatto e di diritto che ne hanno giustificato l’emanazione e, per altro verso, il DM impugnato dà sintetica ma precisa e seria contezza di tutti i fatti accaduti in relazione alla posizione, anche penale, del ricorrente, dandone una ragionevole e non discriminatoria definizione giuridica.

È appena da osservare la manifesta irrilevanza, nel caso in esame, dell’intervenuta sentenza di non doversi procedere, a carico di altri due correi del ricorrente, per amnistia grazie ad una diversa (e ben più mite) qualificazione giuridica del medesimo fatto ascritto al t. col. GATTO. Anzitutto, è ben noto il passaggio in giudicato della sentenza n. 442/97 fin dal 24 ottobre 1996, evento, questo,senza il quale il procedimento disciplinare non si sarebbe potuto iniziare in relazione all’avvenuta e definitiva condanna del ricorrente. Inoltre, siffatta riqualificazione non è stata ex se sufficiente ad elidere la responsabilità disciplinare attorea, perché, in disparte l’autonomia del procedimento de quo rispetto al processo penale, qualificare il fatto come truffa aggravata è pur sempre un illecito grave ed odioso, tale, cioè, da integrare l’aperta ribellione al giuramento di fedeltà.

Sussistendo giusti motivi, le spese del presente giudizio possono esser compensate tra le parti.

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